La 'società liquida' e il Partito Nuovo

La più grande valanga tecnologica della storia ha provocato una "grande scomposizione", e di queste nuove caratteristiche bisogna prendere atto per pensare ad una forma organizzativa adeguata ai tempi. Per esempio, uscendo dal "pregiudizio produzionista" e riconoscendo al consumo un ruolo essenziale nel determinare comportamenti e scelte
Conviene partire da una affermazione preliminare: la situazione attuale non è un fortino da difendere ma una realtà da ripensare: realtà da ripensare però non alla luce del presente/passato (i filoni riformistici da ricongiungere etc.) ma alla luce invece del presente/futuro e da tutte le implicazioni che dalle linee di tendenza è possibile intravedere. Ha ragione quindi Alfredo Reichlin quando parla della necessità di un nuovo partito ma, alla condizione che, accanto alla necessità, vengano tematizzati anche i problemi (non solo nazionali) che è necessario affrontare per portare al successo tale impresa a partire dalla realtà effettuale e concreta.

S. Rokkan, in un testo ormai classico, sostiene che all'origine e sviluppo dei partiti politici europei stiano quattro grandi fratture -cleavages-: la frattura fra Stato/Chiesa, fra città/campagna, fra centro/periferia, fra borghesia/proletariato. L'industrialismo, ieri, produceva anche le condizioni del radicamento e della potenza della sinistra: lo sviluppo dell'industrialismo, infatti, attraverso la concentrazione e massificazione del lavoro, alimentava anche il "sistema" della sinistra. La strutturazione del legame sociale si originava e traeva alimento dal modo stesso in cui veniva organizzandosi la struttura produttiva.

Il paradosso, oggi, è che mentre nuovi "ambiti di vita" vengono invasi dalla politica e nuove questioni alimentano le antiche fratture - basti pensare alle biotecnologie, e al risorgere di una "questione galileana" tra scienza e fede, tra Stato e Chiesa; alle nuove questioni spaziali ("Entità Continentali in Formazione"), e quindi, al nuovo rapporto tra centro e periferia; alla sicurezza alimentare e quindi al nuovo rapporto tra città e campagna, ecc.; - assistiamo al gran parlare, a destra e manca, di politica al tramonto e quindi della residualità del Partito politico, strumento per eccellenza invece della lotta politica.

Ma l'oggetto della nostra riflessione vuol essere la "frattura sociale"; la frattura sociale, infatti, è all'origine di tutte le versioni della sinistra del Novecento e delle sue evoluzioni strategiche. E' indispensabile chiederselo, perché la sinistra, non solo, o è sociale o non è, ma la sua forza e il suo destino si commisurerà sempre e comunque a tale ragione di fondo. Oggi, al tempo della "Grande Trasformazione", della "Seconda Modernità", quale idea di "frattura sociale" può stare alla base della costruzione di un nuovo Partito? La domanda è vitale perché la "grande trasformazione" ha assunto sempre più, prima, le forme di una "grande scomposizione", e adesso quelle di una "società liquida" per dirla con Bauman.

La verità è che "la più grande valanga tecnologica della storia" (C.Freeman), "il connubio tra rivoluzione genetica e rivoluzione del computer" (J. Rifkin) sta sconvolgendo dalle fondamenta l'intero edificio della organizzazione politico-sociale (lavoro, partito, sindacato, ecc.). Dalla nuova "network economy" emerge una fenomenologia del lavoro caratterizzata per dirla con A.Touraine, da lavoratori Microsoft e da lavoratori McDonald, da una nuova "aristocrazia operaia" e da una nuova specie di precariato dequalificato, circondati da un vasto mondo -una underclass- che sostanzialmente assomiglia alle "plebi che abitavano Roma ai tempi della tarda Repubblica". Emerge però da tale magma sociale anche un nuovo fenomeno che L. Salomon chiama "Rivoluzione Associativa", frutto di una propensione finora mai vista ad associarsi e ad autoorganizzarsi.

Un noto ricercatore, analizzando tempo fa la nuova struttura sociale, la scomponeva in partes tres: un terzo circa di "privilegiati", un terzo circa di "precari", un terzo circa di "deboli". La configurazione sociale che emerge da tale contesto indica, anche se in maniera semplificata, i termini di una nuova questione sociale.

Oggi siamo all'interno di un nuovo quadro le cui coordinate, da una parte, sono date dalla mondializzazione dei mercati (e dal conseguente sovrappiù di competizione) e insieme dalla rinazionalizzazione-riterritorializzazione degli interessi (e dal conseguente nuovo rapporto tra individuo e comunità), dall'altra, dall'emergere di due nuovi fenomeni, il passaggio dal lavoro-posto al lavoro-percorso e il dispiegarsi di una vulnerabilità sociale di massa.

Tali processi cambiano in profondità non solo i dati di riferimento culturali in cui siamo cresciuti ma determinano una rottura della antica relazione lineare tra luogo di lavoro e territorio, tra sfera produttiva e sfera riproduttiva; anzi, quando la relazione resta in piedi rischia di funzionare all'inverso, fino alla versione estrema dell'etnoregionalismo. Come ricostruire tale relazione partendo dal lavoro e quindi dal suo ruolo autonomo all'interno di una data organizzazione sociale, rappresenta la questione delle questioni; tale ricostruzione implica però una azione, coordinata strategicamente, su entrambi i fenomeni più direttamente alla nostra presa, cioè sul lavoro-percorso e sulla vulnerabilità sociale, operando un aggiornamento profondo sia delle nostre politiche del lavoro che delle nostre politiche sociali viste come momenti inseparabili di una nuova cittadinanza sociale.

L'idea tradizionale di welfare infatti, che dell'azione della sinistra europea è il frutto più diretto, si riconduce a tre concetti-chiave: rischio statistico, assicurazione sociale, finanziamento attraverso la contribuzione di categoria. La azione politica tradizionale della sinistra è consistita soprattutto nel "curare le differenze" cioè nel contrastare, ridurre, annullare la distanza tra chi stava sotto e chi stava sopra nella scala sociale: tra operai ed impiegati, tra donne e uomini, tra aree ed aree, ecc..L'idea di cittadinanza che sottostà a gran parte della (visione) sinistra è una idea di cittadinanza "lavoristica"; l'assetto, inoltre, di tale cittadinanza ha visto la "via contrattuale" come via regia, e la "via legislativa" come completamento. L'etero-direzione del mercato e la ristrutturazione del welfare diventano il cuore della questione che la sinistra ha davanti nella ridefinizione di sé e del suo ruolo e forza, in tale passaggio d'epoca.

Quattro parole-chiave risultano essenziali per delineare una aggiornata "cittadinanza dei moderni", assunta come pietra angolare: esclusione - reclusione - secessione (la secessione dei ricchi, come suggerisce R. Reich) ed infine inclusione sociale.
Esclusione ed inclusione come nuova coppia concettuale rispetto alle coppie classiche - poveri/ricchi - sfruttatori/sfruttati - non per annacquare, ma per cogliere con più precisione la complessità e radicalità della odierna questione sociale.

E' necessario capire che il problema non sta solo tra il sopra ed il sotto, ma anche tra il fuori ed il dentro della rete di protezione sociale; tra esclusione ed inclusione: ma non sempre il fuori coincide con il sotto. Ma inclusione significa, direbbe J. Habermas, mantenere i confini aperti dell'integrazione sociale. Ciò implica una profonda innovazione del concetto di cittadinanza ed insieme della via e delle forze necessarie per poterla affermare: cittadinanza sociale, cioè una idea di cittadinanza che lega i diritti sociali alla nozione di integrazione sociale e non solo alla nozione del lavoro; contratto sociale che, al rischio statistico, sostituisca progressivamente il concetto di vulnerabilità sociale; all'assicurazione sociale, l'integrazione sociale; alla contribuzione di categoria, la fiscalità; una nuova combinazione tra "via contrattuale" e via legislativa; una nuova strategia di alleanze sociali; nuove modalità di organizzazione della politica sociale: dalle antiche tecnostrutture sociali verticali, sostanzialmente pubbliche (scuola, sanità, previdenza, ecc.), è necessario passare a nuove infrastrutture sociali orizzontali e territoriali (cooperazione, terzo settore, autorganizzazione. ecc.). Cittadinanza sociale quindi come orizzonte culturale, socialità collettiva come obiettivo della azione politica quotidiana. Ma una tale strategia è impensabile senza un grande partito organizzato: partito inteso nella sua accezione più ampia, come insieme di insiemi, autonomi ed allo stesso tempo operanti all'interno di un grande raccordo strategico e di una stessa ispirazione culturale.

La costruzione di un nuovo partito, partito inteso come campo di forze, ha il suo banco di prova in una rinnovata capacità di strutturazione del legame sociale alla luce delle immense ed inedite possibilità aperte - tecnologicamente - dalla rivoluzione digitale - socialmente - dall'affermarsi del processo di "Rivoluzione Associativa". In tale prospettiva, politiche neosocialiste come quelle derivabili dal filone teorico che va dal K. Polany ad Amartaya Sen, possono risultare particolarmente fertili, sia nella ristrutturazione delle vecchie forme, sia nella invenzione di nuovi condensatori sociali, cioè di istituti, istituzioni, organismi che siano ad un tempo argine contro l'atomizzazione sociale e produzione di società collettiva.

Tre questioni mi sembrano prioritarie in un'opera di ricostruzione capace di produrre una nuova socialità collettiva; tre questioni molto trascurate in questi tempi, quasi totalmente assorbiti, dalle problematiche istituzionali.

A)
La definizione di nuovi istituti sociali; istituti intesi come legami identitari e strutturanti superando l'attuale condizione di frastagliamento dei diritti: emblematico può essere considerato un nuovo Statuto dei diritti del lavoro, una nuova Carta del lavoro dell'era digitale. Ricostruire le condizioni universalistiche dei diritti del lavoro, oggi attraversato da un radicale processo di differenziazione, significa ridare coscienza di sé al soggetto lavoratore e potenza politica al lavoro.

Il passaggio dal lavoro-posto al lavoro-percorso, combinato con un crescente processo di individualizzazione del lavoro (come sostengono alcuni) impone di re-individuare il complesso dei diritti sociali più adatto al nuovo contesto; un tentativo in tal senso opera un giuslavorista francese, A. Supiot: nel suo rapporto alla Comunità Europea. Supiot suggerisce un Nuovo Diritto del Lavoro, capace di garantire la continuità della traiettoria lavorativa di una persona, il passaggio da una condizione lavorativa ad un'altra; un diritto capace cioè di inglobare le diverse forme di lavoro che chiunque è suscettibile di svolgere nell'arco della propria esistenza, e in grado di coprire, con la proposta dei diritti sociali di prelievo, tanto i periodi di inattività, quanto i periodi di formazione, impiego, lavori fuori dal mercato o indipendenti ecc. Si tratta di una proposta di grande fascino che cerca di rispondere alla nuova realtà del lavoro collegando il diritto alla persona e non alle tipologie di lavoro o tanto meno alle forme e alle dimensioni di impresa (come è oggi) e tende a trasformare i diritti sociali, pensati come paracadute di fronte ai rischi dell'esistenza (infortuni, malattia, vecchiaia, ecc.) in strumenti di esercizio di libertà; per parafrasare un vecchio detto; ogni lavoratore deve avere nello "zaino" la stessa dote di cittadinanza sociale.

B)
La riforma-trasformazione di organismi ormai classici, come la Cooperazione e il Sindacato. La nuova questione sociale pone il problema impellente della ridefinizione di un nuovo baricentro nell'azione della Cooperazione e del Sindacato. Ad altro momento, eventuali considerazioni sulla cooperazione. Per il Sindacato la questione delle questioni riguarda la sua confederalità. Ma non la confederalità all'interno del vecchio mondo sociale; in tale ambito "la confederalità", anzi, può risultare la nuova veste delle classiche tendenze corporative, oggi più vive che mai. La confederalità, oggi necessaria, implica una strategia capace di tenere insieme lavoro ed esclusione.
 
Va sottolineato con estrema nettezza come senza una strategia che faccia perno sulla inclusione sociale, il sindacato perde la sua confederalità e che una strategia così complessa definisce un passaggio d'epoca analogo al passaggio, all'inizio del novecento, dal sindacato di mestiere al sindacato di categoria. Tale strategia infatti, carica la dimensione orizzontale e territoriale del sindacato, particolarmente le Camere del Lavoro, di un compito straordinario, richiede una diversa "combinazione" tra azione rivendicativa ed azione sociale, postula una trasformazione profonda delle attuali strutture, una specie di "ritorno alle origini del sindacato": un ritorno cioè alle tre funzioni tipiche delle Camere del lavoro di tradizione latina: tutelare il lavoro, aiutare a trovare il lavoro, inventare il lavoro, in un legame quasi simbiotico con il contesto sociale.

C)
L'invenzione-potenziamento di organismi sociali nuovi o parzialmente nuovi ma fino ad oggi secondari nella strumentazione, nella "panoplia", della sinistra tradizionale; valgano due esempi.

Primo esempio, la cooperazione sociale, il cosiddetto terzo settore, l'economia sociale. Tali organismi possono essere non solo uno strumento formidabile nella riorganizzazione del welfare, ma anche momento particolarmente importante di sperimentazione positiva di un'organizzazione sociale autogestionaria e comunitaria, e capaci, perciò, di sviluppare tutte le potenzialità politiche della Rivoluzione Associativa; possono persino aiutare a sciogliere positivamente una delle contraddizioni attuali più eclatanti come la coesistenza paradossale, in alcune regioni - Lombardia, Veneto, ecc. - della più diffusa rete di solidarietà sociale e della più consistente presenza dei fenomeni di leghismo e separatismo sociale; possono, ma ad una condizione: pensarsi e progettarsi, cioè, non come "piccole Gemeinschaften", piccole isole di socialità, ma come cellule di un nuovo socialismo comunitario, anelli di una socialità collettiva.
Il modo in cui si determinerà lo sviluppo del terzo settore assume una rilevanza strategica.

La principale novità politica è oggi rappresentata dal fatto che la riorganizzazione del sociale è diventata il centro della contesa politica del paese: modello lombardo, modello emiliano ecc. evidenziano sostanzialmente questa novità. Raccogliere la sfida significa costruire uno schieramento che faccia della cittadinanza il principio cultural-politico discriminante ed ordinatore -individuo, eguaglianza, cittadinanza, appartengono allo stesso campo concettuale, come sostiene L. Dumont nello splendido Homo aequalis- e della programmazione sociale, e quindi del pubblico come stratega dell'inclusione, metodo di azione politica, territorio per territorio. Spezzettare infatti la questione sociale in tante parti e particolarità, come lasciarla all'attuale bricolage, rappresenta sicuramente il modo migliore per eluderla.

Altro esempio, il movimento dei consumatori. Lo scarso peso del movimento consumeristico va addebitato certamente anche ad un "pregiudizio produzionista" della sinistra tradizionale: cosa e come produrre ha certamente dominato sul cosa e come consumare: le indicazioni di profetiche C. Napoleoni sono cadute nel vuoto.
Anche a sinistra, di fronte al collasso dei sistemi di economia a pianificazione centralizzata, -in tali economie il luogo della decisione del produrre tende a coincidere con il luogo della decisione del consumare- sta prendendo piede una idea di mercato come meccanismo capace, in sé, spontaneamente e automaticamente, di autocorrezione e di autoregolazione.

Tale idea rappresenta una astrazione, un mito ideologico; il mercato lasciato a sé stesso, come ha sostenuto con arguzia, l'arcivescovo di Canterbury ad un recente congresso del partito laburista, diventa il luogo della manipolazione e dello spreco, della diseguaglianza e della esclusione sociale: lasciato a sé stesso può essere "non un ottimo servo, ma un pessimo padrone". E' indispensabile quindi mettere in campo una strategia complessa per uscire da una situazione, come quella attuale, in cui, per dirla icasticamente, "i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione".

In primo luogo il mercato, come sostiene F. Braudel, va concepito propriamente come una Istituzione Sociale, la cui vita, in evoluzione continua, è scandita dallo scontro tra forze e dalla definizione di regole dipendenti dall'esito di tali conflitti. Una politica sul consumo, perciò, deve saper tenere insieme sia una capacità di tutela minuta dei consumatori che una azione di orientamento del consumo e di spostamento della curva della domanda: da consumi privati di massa ai consumi sociali, di cittadinanza. Una organica politica del consumo inoltre diventa possibile se ancoriamo la costruzione e lo sviluppo di grandi realtà associative dei consumatori a due solidi concetti: il mercato appunto come istituzione sociale e il cittadino, come insegnava A. Marshall, come soggetto ben informato.

Una politica di tutela del consumatore e di orientamento del consumo richiede una innovazione continua sia sul terreno culturale che sul terreno della proposta specifica; a partire ulteriormente da due fenomeni nuovi e di rilevanza strategica su cui è necessario riflettere:
a. l'accorciamento del ciclo di vita delle merci alimenta una crescita esponenziale -unica nella storia- di rifiuti, di macerie, di rovine come le chiama T.Maldonado: da una parte la vita breve degli oggetti, dall'altra la vita lunga delle rovine, alimentano meccanicamente il ciclo produzione-rovine-rottamazione.
b. la rivoluzione digitale e l'affermarsi dei suoi due attributi fondamentali: la pervasività cioè l'applicabilità delle nuove tecnologie a sfere sconosciute finora della vita umana, fino alla creazione della vita stessa -l'uomo che si fa Dio- e la produttività, cioè il balzo in avanti della produttivà del lavoro. L'effetto combinato di tali fenomeni è tale da modificare in profondità l'intero quadro delle relazioni economiche e principalmente il rapporto tra produzione e consumo.

Il pensiero teorico più avveduto coglie connessioni inedite tra rivoluzione digitale, uso del tempo, qualità del consumo. Il ragionamento che viene proposto può avere un valore essenziale per uscire da un senso comune che poggia -anche se inespressa- fondamentalmente sulla triade concettuale: produzione - rovine - rottamazione.
Con la crescita economica, si sostiene, non cambia soltanto la destinazione della spesa da parte dei soggetti, secondo la classica legge di Engel: passaggio dai consumi necessari ai consumi voluttuari, al crescere del reddito; cambia anche il modo in cui è possibile soddisfare i bisogni, proprio perché aumentano le alternative di consumo, rideterminando così nuovi modelli di consumo.
 
L'effetto combinato del balzo nella produttività, determinato dalla rivoluzione tecnologica, e dello spostamento nei modelli del consumo produce una condizione sostanzialmente inedita, e ricchissima potenzialmente di cambiamenti nella organizzazione dell'uso del tempo, sia del tempo di lavoro retribuito, sia del tempo libero. Sinteticamente assistiamo cioè ad un mutamento in profondità nell'uso del tempo necessario sia per la produzione di merci che per il consumo finale delle stesse merci: come la quantità infatti del prodotto dipende dal tempo di produzione e dalla produttività, così la capacità di consumo dipende dalla quantità di tempo disponibile per il consumo e dalla "consumatività" cioè dalla quantità di merci pro-capite consumate in una unità di tempo.

Una società, di fronte ad una crescita vorticosa della produttività, se vuole mantenere lo stesso livello di occupazione, a orario di lavoro invariato, deve aumentare l'intensità di consumo: in teoria l'aumento della intensità di consumo deve essere uguale alla crescita della produttività, se si vuole mantenere stabile il livello di occupazione.
Ma il consumo, specie il consumo "affluente" è sottoposto ad un effetto crescente di saturazione. Inoltre il tempo di consumo è complementare al tempo di lavoro, e se il primo aumenta, il secondo deve diminuire. Oggi come sostiene J.Gershuny, una nuova ondata di crescita economica, fondata su alti incrementi di produttività, consentiti dalla rivoluzione digitale, per realizzarsi ha bisogno di strategie incentrate su una nuova modulazione del tempo e sulla qualificazione sociale dei nuovi consumi resi possibili dal tempo liberato dal lavoro.

Le strategie di riduzione del tempo di lavoro, aumentando il tempo di consumo rappresentano così uno dei presupposti principali per la diffusione di un nuovo sistema di merci che possono sfruttare le potenzialità delle tecnologie della rivoluzione digitale e sostenere a loro volta la domanda. Una nuova modulazione dei tempi -riorganizzazione degli orari, riduzione degli orari, politiche di fruibilità, intesa come capacità di intervento sui tempi complessivi della città- è necessaria, non solo e soltanto per i suoi effetti sociali e civili, ma anche e comunque per i suoi effetti economici diretti ed indiretti.
In definitiva, cambia il rapporto, su cui siamo concettualmente cresciuti, tra tempo di lavoro e tempo libero: per Keynes uno degli effetti principali della crescita economica poteva consistere nel produrre tempo libero; la rivoluzione digitale sembra proporre anche il processo inverso: dal tempo libero è possibile alimentare la crescita. Qui sta la novità.

L'affermazione progressiva del nuovo paradigma tecnologico sembra generare quindi rapporti economici inediti, ma essenziali per delineare nuove politiche sul consumo: le varie attività del tempo libero si trasformano in tempo di lavoro, il tempo libero si converte in tempo produttivo, l'otium diventa lavoro inaugurando "una nuova forma di economia basata sulla creazione di un nuovo mercato grazie al consumo di massa e a distanza del tempo libero dei cittadini".

Nella Telepolis, nella città digitale, sostiene J.Echeverria "sta mutando la struttura e la gerarchia tra produzione, distribuzione e consumo" e sta emergendo "una fonte di ricchezza sconosciuta alle culture precedenti, tradizionalmente basata su tempo di lavoro e tempo di riposo".

Come altre volte nella storia, i grandi balzi tecnologici inizialmente hanno avuto, in gran parte, l'effetto di risparmiare lavoro, labour-saving, ma il pieno dispiegarsi degli effetti positivi delle nuove tecnologie sul piano economico ed occupazionale ha bisogno di un ampio processo di adattamento sociale e culturale, di un mutamento profondo negli stili di vita, di una profonda riorganizzazione temporale delle relazioni di lavoro e sociali. L'esperienza del fordismo, come sostengono molti storici ed economisti, ha un valore paradigmatico: gli effetti positivi del "sistema fordista" si sono dispiegati con almeno venti-trenta anni di ritardo dall'introduzione delle relative tecnologie, trent'anni cioè sono stati necessari per rendere effettiva la domanda di beni e servizi che le nuove tecnologie avevano reso potenzialmente disponibili.

Oggi si pone un problema analogo nel rendere effettiva la domanda di nuovi beni e servizi resi disponibili dalla rivoluzione digitale. Questo è particolarmente vero per i servizi sociali e personali, educativi e culturali, assistenziali e sanitari, scientifici, commerciali e bancari, di intrattenimento e turistici, ecc..

A giudizio di diversi economisti, valga per tutti C. Freeman, l'insufficienza della domanda di nuovi beni e servizi sociali, rappresenta in Europa la strozzatura economica principale; la scarsa disponibilità di tempo del consumatore costituisce uno dei principali freni al pieno dispiegarsi della domanda di servizi sociali e personali resi possibili dallo sviluppo delle nuove tecnologie. Perciò proprio l'azione di riallineamento tra i tempi sociali e il riequilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero, tempo di vita, può costituire il terreno più produttivo di una azione lungimirante delle associazioni consumeristiche e sindacali volte a creare nuova domanda, nuova socialità e nuova occupazione. Far emergere, orientare la domanda sociale, sviluppare le varie forme di tutela dei consumatori, espandere i nuovi bisogni sociali: tale campo di attività può diventare quindi un vero e proprio banco di prova delle capacità di radicamento e di controllo sociale delle associazioni consumeristiche.

Il partito "nuovo" dovrà quindi uscire da una specie di "pregiudizio produzionista" e vedere il ruolo essenziale che svolge il consumo nel determinare comportamenti e scelte sia individuali che collettive. Non più soltanto "lavora e spendi", cosa e come produci, ma anche cosa e come consumi, quale azione sociale sviluppare e quali relazioni di socializzazione costruire partendo dalla nuova complessità "dell'Essere Sociale".

Reinquadramento culturale, reinvenzione strategica, riordino e riorganizzazione del campo di forze, innovazione sociale, superamento della condizione ancillare della politica: ciò diventa possibile se l'innovazione sostituisce il nuovismo, cioè il suo esatto contrario; se il confronto delle idee prende il posto della rissa tra gli uomini; se la azione di riordino della Forma/Partito riesce a fermare l'attuale evaporazione delle forze organizzate e a riordinarle in una nuova Forma/Partito che, (come il mitico pipistrello) sia capace di essere, volta a volta, roditore ed uccello, capace cioè, fuor di metafora, di aderire a tutte le pieghe della condizione sociale e produrre al tempo stesso il massimo di socialità collettiva: d'altra parte solo così è possibile evitare il continuo sbandare tra riformismo dall'alto, senza popolo, e guerre intestine. Diversamente vale sempre il vecchio detto: a partito leggero politica leggera.
 
 
Mercoledì, 20. Settembre 2006
 

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