Mondoperaio è stato un vero cenacolo al quale attraevamo quegli intellettuali sempre vivacissimi in Italia che stavano alla sinistra del Pci, e che, in una fase nella quale noi eravamo l'alternativa al compromesso storico (che - ci fosse o non ci fosse – era comunque il protagonista attraverso la solidarietà nazionale), trovavano un ombrello nel Partito socialista e in Mondoperaio. Questo è un elemento importante di quella storia: lo venivano a cercare l’ombrello, perché - sarà stata egemonia, sarà stata dittatura non del proletariato ma di chissà chi - certo si è che la vita alla sinistra del Pci senza ombrello era una vita sulla quale evidentemente pioveva molto, e queste persone si sentivano meglio aggregandosi a noi.
Così, fra l’altro, portammo verso il Psi una serie di persone, il più noto dei quali poi fu Giampiero Mughini, che ha saputo nella vita rendersi celebre in mille modi, per molti dei quali lo ammiro, mentre ad alcuni non mi adatterei mai: primo è juventino, e secondo porta delle camicie che io trovo disgustose (ma io sono un vecchio conservatore, quindi non entro in questo). In realtà fu anche questa dialettica che determinò la messe di argomentazioni a favore del socialismo liberale da parte nostra e a mettere sotto critica l'egemonia, qualunque cosa essa fosse. E fu lì che praticamente cominciò la lunga carriera giornalistica di Ernesto Galli della Loggia, che ha scritto cose fra le più belle della sua vita con quelle Ceneri, prima di Gramsci e poi di Togliatti.
Quella stagione ha portato diversi frutti. Non ha portato tuttavia un frutto al quale peraltro noi credevamo, l'alternativa all’insegna del socialismo democratico e del socialismo liberale. Naturalmente qui la storia fa i conti con le domande contro fattuali. Per me la più importante è che cosa sarebbe successo in Italia se la totale incompatibilità chimica di Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer fosse stata all'opposto capacità di empatia dell’uno nei confronti dell’altro.
Già fisicamente era da escludere, figuriamoci poi aggiungendo la diversità dei caratteri e dei paradigmi culturali e politici. Certo si è che l’alternativa era tra gli sbocchi perseguibili nell’Italia di allora. E la mia ipotesi, ora controfattuale, era quella che sottostava, proprio in quella stagione di Mondoperaio, al "Progetto per l’alternativa", del quale gli estensori finali fummo Luciano Benadusi ed io (quindi fra l'altro un cattolico socialista com'era Luciano).
Sarebbe stata un’altra Italia in effetti: invece partirono gli anni Ottanta e partirono da questo punto di vista sul binario sbagliato, quello di una governabilità sempre più fine a se stessa. Restò, anzi si accentuò, la divisione a sinistra che rese difficilissima la vita di chi, dall’altra parte, aveva condiviso questo senso di sintonizzazione possibile. La rese sempre più difficile e poi si arrivò al punto che alla fine nacque il partito unico, che inesorabilmente fu indotto a riflettere più che altro il legame della solidarietà nazionale; e quindi paradossalmente fu più facile in questo nuovo partito unire i tronconi di provenienza comunista e di provenienza democristiana che non quello che veniva dalla parte nostra.
Uno degli aspetti che sottolineano nel modo più eclatante che questo è l’epilogo sbagliato di una storia sbagliata, è appunto questo: e io resto con la mia domanda controfattuale che rimane senza una risposta.
E senza una risposta rimane, ma questo dipende anche da altri fattori, la trasformazione progressiva delle nostre società, della nostra e delle altre in cui c’erano e ancora ci sono dei partiti socialisti: con la sensazione che la cultura socialista abbia dato tutto quello che poteva dare, che era utile che desse nel secolo che è finito, per cui ora teniamoci questo sfizio finché campiamo. Con i tempi che corrono magari campiamo di più di quanto altri potrebbero sperare, ma è un tempo prossimo alla fine.
Ecco, io ritengo che la cosa più importante di cui ci dobbiamo convincere è che non è così e che aveva ragione Tony Judt quando, prima di morire nel 2010, scrivendo quel suo libro Guasto è il mondo, diceva “non disperdiamo, non buttiamo via del secolo appena finito il patrimonio, a partire dal welfare, che la cultura politica socialista ha prodotto”. E lui apparteneva ad un’ala un po’ più radicale di noi nel mondo della sinistra, ma coglieva nel welfare e nelle politiche economiche fatte dai partiti socialisti e socialdemocratici un patrimonio da non disperdere.
Aveva sacrosanta ragione, se oggi nei paesi dell’Europa occidentale siamo costretti a dire che prende piede una politica rappresentativa dei ceti meno abbienti molto lontana dalla politica socialista. Se questo accade è perché negli anni che sono passati, questa è la convinzione che ho, non è che sia finita l’elaborazione culturale della politica socialista, ma questa elaborazione culturale ha perso i contatti con la politica e la politica ha scelto altre strade, ignorandola e non assorbendone più le indicazioni.
Diciamo la verità: il giusto passaggio che tutti noi facemmo al mercato, la Bad Godesberg che il Pci non ha mai voluto esplicitamente fare ma che comunque abbiamo fatto tutti - il mercato ovunque possibile, lo Stato quando è necessario - l’abbiamo sostituita negli anni col Washington consensus di cui siamo rimasti tutti schiavi, tutti prigionieri. Abbiamo rinunciato a politiche pubbliche che servivano a garantire una migliore destinazione delle risorse produttive e una più efficace redistribuzione dei redditi, affidando tutto al mercato.
Noi avevamo politiche sociali, noi avevamo politiche industriali, noi avevamo politiche del territorio: ad un certo punto tutto questo si è essiccato e abbiamo lasciato in piedi le politiche monetarie e le politiche fiscali. Quando le uniche politiche che si fanno verso l’economia sono la politica fiscale e la politica monetaria vuol dire che il mercato fa tutto e che noi ci mettiamo un po’ di cornice per evitare gli eccessivi sbandamenti. Nona caso quando questo è accaduto non c’erano più i Franco Momigliano e i Giorgio Fuà tra i consiglieri di governo, ma c’erano solo i macro-economisti.
Perché tante volte mi son trovato così d’accordo con Alfredo Reichlin negli ultimi anni della sua (e un po’ anche della mia) vita? Perché entrambi pensavamo che una volta in entrambi i nostri partiti c’erano dei dibattiti che cominciavano sotto il titolo “L’Italia nella divisione internazionale del lavoro”. Oggi queste sono parole prive di significato: viviamo in un paese nel quale si investe di qua, si investe di là, senza porci la domanda di che cosa toccherà a noi produrre nel mondo di domani, che spazio avremo, che spazio avranno gli altri, come lavorare per lo spazio che avremo, dalla formazione alle politiche industriali e del territorio.
Abbiamo lasciato tutta la distribuzione del reddito in mano ad un mercato globale impazzito che ha creato diseguaglianze così ampie, così forti, così corrosive anche dei ceti medi, portando la vulnerabilità sociale a livelli a cui prima non era, e portando questi elettori a votare per chi amplificava la loro rabbia e la loro protesta: e quindi noi ce li siamo persi tutti perché non avevamo nulla da dire. Ciò che va recuperato è, per l’appunto, una politica corrispondente ad una cultura politica socialista del nostro tempo.
Questo numero si apre con un articolo di Nenni. Di quel tempo una delle cose che mi sono dispiaciute di più in assoluto nella vita è quella che scoprii più tardi in un suo successivo articolo di Mondoperaio, quando aveva appena preso o stava per prendere il Premio della pace a Mosca. Raccontava che era stato a Budapest e non aveva visto tracce di militari sovietici, mentre c’erano solo dei pacifici cittadini ungheresi festanti. Devo dire che Togliatti non ha mai detto una cosa simile, se ne è ben guardato. Da Nenni non me lo sarei aspettato. Nato massimalista, fu massimalista anche in questo suo appeasement coi sovietici nel momento in cui lo visse. E’ giusto ricordarlo, ma certo preferisco ricordare questo suo primo articolo, nel quale sottolinea l’importanza cruciale della politica internazionale per i socialisti.
Vi rendete conto che in una fase storica nella quale tre quarti delle cose che contano vengono decise a livelli sovranazionali, noi, che veniamo da un movimento internazionale, per una serie di ragioni comprensibili ci siamo trovati chiusi nei confini nazionali, che – è vero – ci hanno permesso di dare nel XX secolo le risposte che volevamo, ma sono oggi una autentica gabbia, che taglia fuori da quelle decisioni chi ci rimane dentro?
Quindi essersi avvalsi della dimensione statale non è stato un errore. Ma lo è aver perso totalmente la visione e quindi la dimensione internazionale, al punto che non siamo neanche più capaci di misurare la forza che ancora avrebbe il potere degli Stati non per fare ciò che vogliono i sovranisti, e cioè chiuderci al mondo, ma per governare il mondo: perché, oltre ai fili di governo sovranazionale che dovrebbe essere nostro compito rafforzare, ci sono ancora fior di poteri pubblici nazionali con i quali si possono mettere le brache a diversi fenomeni che accadono in sede internazionale. Chi, se non i socialisti o la cultura socialista, deve tirar fuori queste cose che fanno parte del suo dna? Insomma, ecco, questo vi volevo dire: viviamo questo anniversario come un fatto storico, ma anche come l’inizio di una storia possibile e migliore.