La 'seconda fase' parte al buio

Con il nuovo anno inizierà il confronto sui vari "tavoli", pensioni, professioni e regole del lavoro. E' soprattutto quest'ultimo che si preannuncia problematico, sia per la distanza tra le parti sociali e politiche (e le differenziazioni all'interno di esse) sia, soprattutto, per la totale mancanza di idee di alcuni dei protagonisti, prima di tutti la Confindustria
Giunta ormai in dirittura d’arrivo la Finanziaria,  l’attenzione è già prevalentemente rivolta al dopo. Fase 2, o processo riformatore, comunque lo si voglia definire, il periodo che seguirà il varo della Finanziaria sarà il vero banco di prova per decidere quale sarà il raggio di azione entro cui si muoverà questa legislatura: rilancio e modernizzazione di un paese a rischio di declino o aggiustamenti al margine di una società bloccata e corporativizzata.
 
I preliminari sono stati già celebrati, da ultimo il disegno di legge sulle professioni, dopo il protocollo sulle pensioni e la dichiarazione di intenti per l’apertura di un tavolo sul lavoro, per dire degli atti più importanti: ma dai preliminari si dovrà passare alle concrete realizzazioni e le incognite sono enormi e sotto gli occhi di tutti.
 
Il tavolo sul lavoro, nonostante sia quello che sulla carta potrebbe apparire meno problematico (tutto è relativo, ma sugli altri due tavoli incombono scogli che incutono spavento) rischia invece seriamente il naufragio non avendo alle spalle nessun punto fermo. Di pensioni e di professioni si fa un gran parlare, c’è stato un gran lavorìo, fare sintesi sarà una sorta di “Mission Impossibile” ma le posizioni sono quanto meno delineate e un fine comune è stato individuato, almeno sulla carta. Sostenibilità finanziaria di lungo termine coniugata con protezione sociale equa (leggi tasso di sostituzione adeguato) per le giovani generazioni che sono incappate in un mercato del lavoro all’insegna della discontinuità, per le pensioni. Rottura delle barriere di ingresso e delle rendite di posizione nell’interesse convergente dei consumatori e dei giovani che premono alle porte, per le professioni. Facile a dirsi, non a farsi, ma è molto più di niente.
 
Per il lavoro, invece, qual è il tema? Quale il fine? Quali gli interlocutori? Domande ancora senza risposta, allo stato attuale delle cose: con il recente seminario di Italiani-Europei e Confindustria se ne ha conferma agli atti. Guardiamo più da vicino l’agenda.
 
Si devono riformare e razionalizzare gli ammortizzatori sociali per renderli equi (universali) e efficaci/efficienti. Su questo punto sembrano tutti d’accordo, è anzi il cuore della proposta contenuta nel documento prodotto da Confindustria (Bombassei e il cosiddetto “Gruppo dei 15”): ma una volta caduta l’illusione, che pure più di qualcuno ha ostinatamente coltivato per lungo tempo, che l’intervento sulla materia potesse contare su un cospicuo finanziamento proveniente da una riduzione del peso della spesa pensionistica sul pil, idea impraticabile oltre che iniqua, chi è disposto a pagare il costo di una razionalizzazione? Tanto per dire, senza puntare il dito accusatore (esercizio vano e impolitico) ma solo per enunciare i problemi: disoccupazione agricola, requisiti ridotti, mobilità lunga e prepensionamenti sono istituti che hanno alle spalle compromessi ormai ben consolidati tra interessi imprenditoriali e cura della coesione sociale. Si parte con il rimetterli in discussione?
 
Non c’è accordo invece, neppure a livello di agenda, sulla revisione delle regole del lavoro, o almeno di quelle che hanno contribuito ad alimentare la precarietà. Eppure non è una provocazione proveniente dal sindacalismo di base più radicale o dal movimento di San Precario, è un punto chiave del programma dell’Unione. Non solo: l’obiettivo trova ormai il conforto anche di un’ampia corrente di pensiero, che dalla Banca d’Italia arriva a lambire perfino le roccheforti del liberismo globalizzato (OCSE, FMI) arrivate a prendere atto del fatto che quelle stesse regole oltre a deteriorare la qualità dell’occupazione e svalorizzare il lavoro dei giovani hanno anche nel contempo indotto le imprese ad adottare comportamenti opportunistici (più risparmi di costo con meno investimenti sull’innovazione) che ne hanno compromesso la competitività, e sono dunque tra le ragioni principali del declino del paese.
 
Il problema è però che la rappresentanza sociale di quelle imprese medesime è ancora lontana dall’aver maturato la convinzione di dover cambiare registro. Già sopporta malissimo di dover reimpostare la strategia fiscale archiviando la stagione dei condoni, meno che mai è disposta a sacrifici sul versante del costo del lavoro (la riduzione del cuneo è già stata assorbita come si fosse trattato di un bicchiere di acqua fresca). Dunque le associazioni imprenditoriali continuano a intonare, in coro, il refrain “la legge Biagi non si tocca”. A chi, programma di governo alla mano, invoca almeno la soppressione degli istituti rivelatisi un’inutile invenzione rispondono (non senza qualche ragione) che se sono rimasti sulla carta non hanno evidentemente fatto alcun danno; a chi invita a rimettere mano ai contratti a termine rispondono prendendo a pretesto un atto simbolico (tale appare, in definitiva, l’invito a ripartire dal punto in cui si è consumata la rottura con la CGIL) per opporre un rifiuto sostanziale.
 
Se si dovessero cancellare dall’agenda del tavolo questioni come la riforma degli ammortizzatori sociali e il contrasto della precarietà, cosa rimarrebbe? Poco più di niente, ma c’è ancora un tema (almeno) che sarebbe tutt’altro che marginale, se non cruciale: modello contrattuale e politica dei redditi, revisione dell’accordo Ciampi del ’93. Non sarebbe poco, pesa forse più di tutto il resto e può essere il punto di attacco anche per le altre questioni in agenda: ma alle voci discordi dei titolari di governo (Presidenza, Economia, Lavoro) si aggiunge la babele che regna sovrana tra le parti sociali, a partire dallo stesso oggetto della trattativa. Patto per la competitività (ovvero, nelle versioni più volgari, per la produttività), rivendica la Confindustria, spalleggiata dalle altre associazioni ma anche dalla CISL, in sintonia con una parte della maggioranza. Patto per lo sviluppo, risponde la CGIL con altre parti (non marginali, non “ali estreme”) della stessa maggioranza.
 
Un nuovo modello contrattuale, secondo i primi, per flessibilizzare i salari, una nuova politica dei redditi, secondo gli altri, per una distribuzione dei redditi più equa che serva anche da motore per lo sviluppo della domanda interna. Che fare? Ma, soprattutto, come? Con quale approccio? Se bastassero le parole avrebbe ragione D’Alema che ha pensato di cavarsela, nel seminario già ricordato, proponendo un “patto per la competitività e la crescita”: ma non bastano.
 
La via minimalista porta a dire: è un negoziato. Posto il tema, le parti si confrontano, contrattano, giungono a un accordo: “alto” o meno che sia, il risultato raggiunto sarà quello che si poteva raggiungere. Punto.
 
Non sembra però un approccio molto produttivo. Per cominciare, si è visto che non è affatto facile stabilire chi ha titolo a porre il tema. Ma a parte questa incognita preliminare, ammesso pure che, pur non essendovi nessuna legge che le obblighi a ciò, le parti accettino di incontrarsi e trattare, per “cortesia” istituzionale o per la speranza di ottenere un vantaggio, nessuno può poi obbligarle a stipulare se non si ritiene di ricavarne alcun vantaggio. A meno che non si dia il caso di una stipula per pura convenienza politica (per l’atto in sé), come in sostanza avvenne nel 1998 in occasione del Patto di Natale, quasi totalmente vuoto di contenuti (salvo il punto relativo all’istituzione dell’obbligo formativo), e pertanto inapplicato.
 
Torniamo dunque là dove siamo partiti: se in questione c’è la possibilità di imboccare la strada di un rilancio di un paese a rischio di declino, ovvero se le incrostazioni corporative non siano un osso troppo duro per le capacità effettive di questo governo, tanto vale che la partita sia giocata a carte scoperte. In altri termini, le incrostazioni si rompono se si fa leva sulla consapevolezza delle parti in gioco che i prezzi che ciascuno può pagare in conseguenza dell’abbandono delle postazioni tradizionali possono essere più che compensati dalle opportunità che possono derivarne ovvero, come minimo, che si tratta di prezzi (eventuali) pur sempre inferiori a quelli (certi e crescenti nel tempo) che la conservazione dello status quo comporta. Questa consapevolezza, questa dichiarazione di intenti, non meno di questo, dovrebbe essere il ticket di ingresso che ciascuno degli attori dovrebbe sottoscrivere in premessa.
 
E’ realistico immaginare che una tale, comune, consapevolezza possa essere acquisita e fare da cornice unificante e da carburante? Da entrambi i lati i dubbi sono più che motivati.Dal lato delle imprese, nascono dalla totale mancanza di un qualunque accenno di ripensamento sulla strategia degli ultimi anni. La questione non è la “pancia” (quella di Vicenza, per intenderci) ma, come sempre, la testa: all’attuale leadership di Confindustria sembra mancare perfino il necessario sostrato culturale, certamente non si coglie lo scatto di reni, la capacità di indicare una meta e di guidare, trascinando e suscitando energie. Qualche fermento qua e là (anche nelle altre associazioni), proveniente più che altro dalle nuove leve giovanili, non appare ancora né molto fecondo né molto solido. Intanto fioriscono gli studi e le ricerche che stanno a dimostrare come si siano perse quote di mercato innalzando i prezzi alle esportazioni e i margini di profitto, come si siano abbandonati tutti i presidi di frontiera, quelli dove si rischia di più ma si conseguono maggiori margini di sviluppo, con maggiori ricadute sulla società circostante. La responsabilità sociale è ridotta a commediola per bambini, l’etica si risolve con una mancia per una delle varie kermesse televisive di raccolta di fondi
 
E’ in questo contesto che si sceglie di precarizzare e svalorizzare il capitale umano. Non è una scelta (pur miope) di contabilità aziendale ma una filosofia: mani libere, brevissimo termine e cortissimo respiro, dividendi per gli azionisti e Dio provvede. I giovani talenti servono solo per le relazioni sindacali, il contenzioso e la finanza. Tra un ingegnere fatto in casa e un brevetto acquistato all’estero la scelta è sempre la stessa, sempre la seconda.
 
Il ritratto è ovviamente grocier, taglia di netto e cancella le sfumature, ma la letteratura è copiosa, anche proveniente dall’interno del mondo imprenditoriale. Non sembra avere grande successo, non sembra scalfire la monotonia dei proclami, sempre un po’ da comizio (sia pure in Powerpoint, come è d’obbligo), nei consessi e nei convegni.Ci si deve arrendere a questo andazzo? Un governo che abbia l’ambizione di intraprendere la strada alta (come questo dichiara di voler fare, a dispetto delle miserie quotidiane delle tasse sulle acque minerali, sui motorini e quant’altro) non può arrendersi senza affrontare un dialogo che sia anche una confrontation senza remore. Prima di chiedere, le associazioni di rappresentanza delle imprese devono dichiarare quali impegni sono in grado di assumere, quale prezzo sono pronte a pagare: in termini di mutamento di rotta, da verificare concretamente e non “senza oneri a carico”.
 
Dal lato sindacale il ragionamento ha molti punti di contatto, anche se i conti degli ultimi anni - e in particolare degli ultimi cinque - certificano senza ombra di dubbio chi ha già pagato e quanto (un pregevole studio dell’IRES sulle retribuzioni ha recentemente messo un punto fermo a questo riguardo). Ma su questo versante vale la pena di attardarsi un po’ di più, in una seconda puntata.
 
Venerdì, 15. Dicembre 2006
 

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