La Roma possibile se ci fosse la politica

"Non si piange su una città coloniale" è una citazione da Pasolini che Walter Tocci ha scelto per il titolo di un suo saggio sulla capitale, dall'analisi di come è diventata quel che è alle proposte concrete per sottrarla allo stato penoso in cui decenni di errori l'hanno ridotta
E’ uscito in questi giorni, in edizione digitale e in edizione cartacea, presso l’Editore GoWare, un “libretto” (nel senso delle dimensioni) di Walter Tocci, senatore della Repubblica ed ex vicesindaco di Roma, che, per densità, ampiezza e competenza, dovrebbe essere letto quantomeno da tutti i romani e con attenzione particolare dalla nuova giunta capitolina, alla luce (peraltro assai fioca) della attuale situazione della Capitale.

Il titolo del saggio richiama la genesi di Roma Capitale d’Italia, cresciuta con ritmi e modi paragonabili a quelli delle città coloniali, cioè a dire in rapidità e disordine, obbedendo a logiche prevalentemente speculative e legate alla rendita fondiaria. Nel saggio si colgono alcuni punti nodali “veri” della crisi profonda di oggi, ma che ha i suoi prodromi almeno negli ultimi tre lustri trascorsi. Tra questi la progressiva perdita di progettualità, per dirla nella lingua che il nostro presidente Matteo padroneggia così bene, di una vision e di una mission della politica, ormai ridotta alla lettura e all'interpretazione dei sondaggi, sfornati ad horas, senza essere più capace di un pensiero lungo, intergenerazionale.

L’incipit non è confortante: “Prologo all’Inferno”. Si inizia con la storia, per molti versi esemplare, della cooperativa “26 giugno” di Salvatore Buzzi, le cui vicende sono paradigmatiche della parabola culturale ed etica del ceto di governo romano: “La Cooperativa 26 giugno è nata incontrando la politica che si occupava di solidarietà e cultura ed è morta nell’abbraccio della politica che si occupa di appalti e preferenze”. Lapidario. E’ in questo percorso verso l’Inferno che si passa da un’idea di politica partecipata a quella di una politica delegata, alla politica cioè che Tocci definisce del “notabilato”. Il fenomeno è descritto con grande precisione e assoluta pertinenza. E’ un passaggio di grande rilievo. Riprendendo un termine, certo non positivo, dalla polemica tra Giolitti e Salvemini, l’Autore ne fa risalire l’ascesa al vigoroso affermarsi di una politica di stampo personalistico che, attuata senza “personalità” autorevoli e competenti, si trasforma in un mero mercato di voti, a prescindere dal loro colore ideologico, un mercato controllato da abili capibastone, ben radicati nei territori e non più contrastati dalla rete partecipativa del partiti di massa e delle loro sezioni.

Questa degenerazione assume a Roma connotati diversi a seconda delle aree in cui si manifesta. Tocci divide la città in tre macroaree sociologicamente e antropologicamente distinte: la città consolidata, all’interno dell’anello ferroviario, la periferia storica, fino alle arterie interne di circonvallazione, la periferia anulare, a cavallo del GRA. Il dato più significativo della debolezza politica del Pd giunge propria da quest’ultima area, dove “la povertà delle relazioni sia all’interno degli insediamenti, sia rispetto al sistema urbano creano un ambiente fertile per l’attività politica legata alla singola persona”. Il notabile, appunto. Lo sguardo di Tocci sul Pd romano è tuttavia impietoso, proprio perché, invece di contrastare il fenomeno, il partito lo asseconda e, in un certa misura lo fa gradualmente suo: si tratta del modello di “partito in franchising, in cui il notabile non discute, ma asseconda le giravolte della leadership”.

Per uscire da questo vicolo cieco, per favorire la “dimensione orizzontale” della politica e indebolire la “dimensione verticale”, terreno di coltura del notabilato, non c’è che una soluzione: mettere in campo “una forma politica moderna, fondata sulla partecipazione e sul progetto di città”. Quantomai opportuna è qui la citazione di Theodor Mommsen, il quale disse, oltre un secolo fa, a Quintino Sella che “per governare Roma ci vogliono idee grandi”.

Nel 2 capitolo, intitolato “La serendipity del riformismo”, si parla di statalizzazione del ceto politico, del degrado della politica favorito dalla “perdita di progettualità e di radicamento sociale”. Qui Tocci riconosce amaramente che tale situazione si è determinata, pur senza volerlo (di qui “serendipity”) proprio dall'impulso a innovare, a condurre riforme radicali, come tentarono di fare e in parte fecero le giunte Rutelli e Veltroni negli anni ’90. Si trattò di una modernizzazione di stampo blairiano, attenta all'efficienza per sé, ai “benefici” effetti dei meccanismi della concorrenza introdotti anche nell’amministrazione pubblica, in funzione antiburocratica.

Lo stesso Tocci lo ammette. Fu una operazione di stampo sostanzialmente illuministico, condotta nella città cinica e antigiacobina di Giuseppe Gioacchino Belli, che un paio di millenni di storia hanno vaccinato proprio da quelle grandi idee di cui parlava Mommsen. L’aver promosso idee nordeuropee in una città abituata da sempre a salvaguardare il proprio “particulare”, pur nell’orizzonte della sua universalità, senza disporre di un corrispondente e diffuso ceto medio open-minded, ha fatto sì che libertà, partecipazione e cura per la comunità siano ben presto degenerate in arbitrio, sudditanza, disinteresse. Esemplare quanto dice Tocci a proposito del risanamento di alcune zone della città che, invece di produrre nuovi cittadini consapevoli, li ha direttamente trasformati in piccoli proprietari, assai poco attenti alle esigenze della comunità urbana e ben inseriti nella filiera del notabilato.

Il capitolo 3 parla di “Progetti per la Capitale”. Qui si esplicita la pars costruens del saggio. A iniziare dall'assetto istituzionale del governo della città, sul quale “da quanto è nato il Pd romano non ha mai avuto alcuna idea … Non risultano documenti, analisi o proposte su una questione così importante per il futuro della città”. Ciò ha favorito la produzione di “tante norme e nessuna politica”, con il conseguente, frequente ricorso a scorciatoie, sovrapposizioni di piani, accrescimento delle procedure burocratizzate. La soluzione proposta da Tocci è radicale: l’abolizione del Comune di Roma e la sua trasformazione in “Regione-Capitale”, con gli attuali municipi che diventano comuni a tutti gli effetti, all’interno di un più vasto disegno di riforma istituzionale, che prevede la riduzione del numero delle attuali regioni e la “scomparsa” del Lazio, entità amministrativa affatto artificiosa e storicamente poco fondata (1). Le ragioni di tale necessario profondo mutamento vengono così riassunte: “l’amministrazione capitolina è troppo piccola per governare i processi sociali ed economici che ormai hanno travalicato i suoi confini, ma è troppo forte politicamente per lasciare che siano gli altri livelli istituzionali a pianificare l’area vasta [si tratta in buona sostanza del territorio ex provinciale]”.

Convincente l’analisi della peculiare realtà territoriale degli insediamenti: Roma ha la stessa ampiezza del Comune di Parigi, ma con un terzo circa di abitanti. Tale popolazione però si è concentrata in nuclei sparsi, a macchia di leopardo, cresciuti sotto la spinta della speculazione fondiaria e con il sistema, che Tocci non cita esplicitamente, dello “yo-yo”: il grande proprietario terriero “dona” al comune la parcella in suo possesso più lontana possibile dal centro, perché vi vengano costruite chiese, spazi pubblici o case di edilizia popolare. L’attuazione delle linee di urbanizzazione afferenti a queste aree periferiche (trasporti, gas, luce, acqua, fognature), tutta o quasi a carico della collettività, genera un immediato, rapido innalzamento dei prezzi delle aree intermedie, provocando una rilevante densità abitativa, che dà ai residenti la sensazione di abitare in una città “fitta”, ma che invece fitta non è. Di qui anche il problema del costo elevato dei trasporti pubblici nel rapporto sfavorevole che si crea tra mezzi impiegati e passeggeri/ora trasportati e che Tocci esamina con attenzione, in una città cresciuta in funzione dell’auto privata.

Gli scopi della condenda “Regione-Capitale”: “superare la gerarchia tra città e hinterland, fermare la diffusione della periferia regionale, dare alla Capitale una piattaforma regionale di servizi avanzati per competere a livello internazionale”. Peraltro torna qui uno dei leitmotive cari a Tocci: la “cura del ferro”, poi sviluppato in Appendice I, capace, tra l’altro, di offrire una nervatura alla “paccottiglia edilizia” che infelicita tanta parte della città.

La prospettiva si allarga poi ad una vision niente affatto “visionaria”, ma concreta: l’unica possibile salvezza è quella di saper progettare in grande, all’insegna dell’integrazione e della interconnessione delle tante realtà positive e potenzialmente feconde che pure esistono a Roma, ad iniziare dalla filiera dei Beni Culturali, ma anche delle tecnologie avanzate (un tempo si parlava addirittura della “Silicon Valley” della Tiburtina!) e delle cosiddette ICT (Information Communication Technologies).

Qui sta uno dei nodi di cui si parlava all’inizio, quello di una politica capace di trarre ricchezza – in senso lato - dalla diversità e dal meticciato, dal “cozzo delle idee”, secondo la felice espressione di Quintino Sella che Tocci richiama, tutte costituenti tipiche di ogni moderna città occidentale, una politica cioè che sappia “coniugare il nesso tra conoscenza e processi di trasformazione. Nel contemporaneo non si governa la città se non si coltivano le competenze della città”. E nel caso di Roma esse sono molto più numerose e qualificate di quanto comunemente non si ritenga.

Quale dunque il futuro della città-post-coloniale? Sarà necessario cambiare prospettiva e passare dalla “città in sé alla città per sé”, cioè a dire da un sistema urbano utilizzato per creare valore di mercato a un modello in cui la città diventa “scopo per trattenere il valore nella sua vita quotidiana“. Venendo meno i tre motori “storici” della crescita di Roma, la spesa pubblica, i consumi e la rendita immobiliare, non si potrà non innovare. La politica è chiamata a compiere questo passo decisivo. “Non si piange su una città coloniale”, l’incipit della poesia di Pier Paolo Pasolini, composta per il centenario di Roma Capitale, diventa per Tocci motivo per non disperare del futuro, pur nell’ammissione che le sue stesse “Note sulla politica romana” (è il sottotitolo del saggio) non riescono “a indicare una convincente soluzione politica”, poiché “uscire dalla crisi politica è un compito collettivo che deve esser ancora pensato e organizzato”.

Il testo si conclude con un’affermazione davvero ottimistica: “solo un compito ambizioso può suscitare una classe politica autorevole”. A me pare invece che, a fronte dei compiti sicuramente sempre più ambiziosi e difficili che ci troviamo dinnanzi, si sia generato un ceto di “politici di professione”, uomini e donne di scarsa cultura, avidi lettori di giornali e di televisione, assai meno di libri, schiacciati inevitabilmente più sulla cronaca che sulla storia.

Due le appendici che concludono il saggio. Particolarmente significativa mi è parsa la prima, il cui si entra nello specifico della “cura del ferro” e nella quale si disegna un intelligente e fattibilissimo schema di trasporto urbano integrato, con quattro passanti ferroviari a scala regionale (o di area vasta), quattro linee metropolitane e tre passanti tranviari, per creare “la città trampedonale”, già prevista da Italo Insolera, il “caro Maestro” la cui presenza aleggia un po’ in tutto il saggio. Tale schema è stato in minima parte già realizzato negli anni ’90 ed è comunque completabile in tempi relativamente brevi, con evidenti vantaggi per la cittadinanza in un settore, come quello dei trasporti pubblici, della cui criticità abbiamo esperienza quotidiana. Se solo la politica volesse compiere scelte coraggiose e di ampio respiro.

La II appendice, infine, sulle tendenze elettorali a Roma, a cura di Federico Tomassi, offre dati utili per comprendere le dinamiche elettorali romane degli ultimi quindici anni. Tali dinamiche evidenziano il declino del Pd nelle periferie anulari, come si è già detto, una sua sostanziale tenuta nelle periferie storiche e nei quartieri di ceto medio. Peccato che non si approfondisca a sufficienza il risultato dell’unico fenomeno politicamente nuovo e sociologicamente interessante, quello rappresentato dal M5S, un movimento che ha raggiunto il 25% dei consensi e che ha successo soprattutto tra le nuove generazioni.
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(1) - Così scrivevo in una lettera del settembre del 2012 a Giovanni Sabbatucci, a proposito di un suo bell’articolo su “Il Messaggero”: “Grande errore l’abolizione delle province. Lo dico ad un illustre storico quale lei è: l’Italia ha una tradizione comunale fortissima, ma ne ha anche una provinciale altrettanto solida, anche se più recente. Non ha invece alcuna tradizione regionale. Alcune regioni sono affatto fittizie (vedi il Lazio, costruito a posteriori rubando pezzi al vecchio Regno delle Due Sicilie, all'Abruzzo ulteriore e unendoli alla Tuscia). Se si volesse radicare storicamente il federalismo, si dovrebbe ripartire dagli antichi stati italiani, ricostituendo l’unità territoriale del regno borbonico, il Lombardo-Veneto, il Piemonte-Liguria-Sardegna, ecc., ovvero tutte quelle unità che, nella costruzione dello Stato unitario e centralistico, sono state a bella posta disintegrate“. Il professor Sabbatucci, nel rispondermi, difese però il significato delle attuali regioni italiane, Lazio compreso.

Walter Tocci
Roma. Non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana
Ed. goWare, pp. 100, € 8,49 - Disponibile in eBook a € 4,99

Venerdì, 14. Agosto 2015
 

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