La ripresa? Parlarne è un passatempo

Si discute sui timidi barlumi di crescita, ma ben più importante sarebbe riflettere sul modello di società che si sta perseguendo, che punta a desocializzare le persone, a far sì che l’unico criterio di accesso alle risorse della collettività sia quello privatistico, mentre i diritti sociali scompaiono e la solidarietà trascolora in carità
Alla fine la crescita è arrivata. A dire il vero si tratta di ben poca cosa, lo 0,3% rispetto al trimestre precedente e lo 0,1% rispetto allo stesso trimestre del 2014. C’è stato, comunque, un miglioramento. Va da sé che un po’ di crescita è meglio che niente, ma occorre chiedersi se abbia senso accalorarsi per questa circostanza. Proviamo a riflettere sulla sua rilevanza, sia in sé che per la più generale qualità della vita delle persone.

Intanto, merita osservare che, malgrado la politica della Banca centrale europea e la riduzione del prezzo del petrolio, la crescita interna è sostanzialmente riconducibile a una ripresa estera. Da più di quattro anni quel poco di contributo positivo all’andamento del reddito che c’è stato, è dipeso fondamentalmente dalla domanda proveniente dal resto del mondo. In modo particolare, come ci segnala l’ultimo Rapporto annuale dell’Istat, nel 2014 sono stati gli Usa che hanno reso possibile la ripresa dei paesi avanzati. L’Italia, che l’anno scorso non era riuscita a evitare il persistere della recessione – con un tasso di crescita del - 0,4% – finalmente ha potuto beneficiare delle migliori condizioni altrui.

Il ruolo di “locomotiva” della crescita mondiale è stato a lungo svolto dagli Stati Uniti. Potevano permetterselo decenni addietro, quando il dollaro veniva accettato senza discussioni come valuta internazionale, e hanno potuto farlo in periodi più recenti, quando la crescita impetuosa dei mercati finanziari statunitensi ha attratto capitali dall’estero, permettendo di finanziare i disavanzi commerciali americani. Lo scoppio della crisi, nel 2007-2008, ha portato le autorità di politica economica americane a contravvenire alla tradizione conservatrice che fino a poco tempo prima le aveva contraddistinte.

Andando contro le regole imposte dalla saggezza convenzionale, hanno preso misure espansive che – se non altro per contrasto con quanto è avvenuto in Europa – sono state rilevanti. Rimane da capire quanto tutto ciò potrà continuare. Se un po’ di pragmatismo ha avuto la meglio finora, non mancano gli interessi consolidati che privilegiano guadagni – tipicamente, quelli finanziari – disgiunti dalla crescita. Né gli ambienti accademici sembrano avere compreso gli errori di teoria economica alla base delle politiche che hanno causato la crisi.

A beneficio di chi? L’andamento del reddito viene solitamente ritenuto importante perché accresce l’accesso della collettività a beni e servizi e perché la produzione di questi implica impiego di manodopera, quindi maggiore occupazione. I dati Ocse sulla distribuzione del reddito, tuttavia, segnalano che negli ultimi anni le disuguaglianze in Italia – già più marcate che in gran parte d’Europa e superiori alla media dei paesi industriali - sono aumentate. I risultati di un’eventuale crescita, quindi, tendono a privilegiare chi già gode di un elevato benessere economico. Quanto ai possibili effetti occupazionali, occorre distinguere l’effetto della ripresa da quello dei recenti provvedimenti governativi. Questi ultimi hanno offerto un incentivo fiscale ad assumere, combinato con la libertà di licenziare i nuovi assunti quando occorra.

È possibile che questa opportunità di precarietà legalizzata finisca per indurre le imprese a sostituire quella che fino a oggi è stata solo precarietà di fatto. Quanto agli effetti della crescita, può anche darsi che essa induca un qualche aumento delle assunzioni, ma gli stessi dati sulla distribuzione, nonché l’accresciuta precarietà delle condizioni di lavoro, suggeriscono che i benefici della ripresa saranno limitati: la facilità con la quale si può licenziare rende difficile contrastare l’aumento dei ritmi e il peggioramento delle condizioni lavorative, senza per questo determinare un miglioramento sul piano delle remunerazioni. Non c’è dubbio che, alla fine, qualche impresa possa trarre beneficio da questo stato di cose, ma è dubbio che lo stesso si possa dire per la generalità della popolazione.

La compressione dei redditi delle famiglie non solo costringe queste a risparmiare sempre meno – da tempo va riducendosi la propensione al risparmio – ma riduce la domanda interna e la conseguente propagazione dell’eventuale crescita del reddito. La speranza di qualcuno è che una maggiore flessibilità nell’impiego della forza lavoro possa favorire la competitività, quindi le esportazioni. Ammesso che gli altri paesi siano disposti ad accrescere i loro disavanzi a nostro vantaggio, una strategia di questo tipo può funzionare? Il fatto è che la possibilità di “raschiare il fondo del barile” con la riduzione dei costi disincentiva gli sforzi innovativi necessari a soddisfare una domanda di prodotti di qualità elevata: la competitività di costo dell’oggi pregiudica quella di qualità del domani.

Purtroppo, a ben vedere, il domani è già qui: il declino industriale cui assistiamo è il prodotto di queste strategie. Insomma, si può anche gioire del recente aumento dello 0,6% degli occupati su base annua , purché si tenga a mente quanto ha dichiarato il presidente dell’Istat nel presentare la Sintesi del Rapporto annuale 2015: “Conseguire un tasso di occupazione eguale a quello medio europeo significherebbe per il nostro paese un incremento di circa tre milioni e mezzo di occupati”.

E la politica economica? A fronte di questa situazione, la politica economica italiana, in linea con quella di vari altri paesi, rinuncia a una spesa pubblica – nazionale, nonché europea – che alimenti la crescita e compensi le sperequazioni di reddito e di ricchezza. La filosofia dominante è che occorra tagliarla, rinunciando al ruolo redistributivo delle imposte e dei servizi collettivi. L’effetto è quello di peggiorare la qualità della vita delle fasce di reddito meno agiate. Naturalmente, a giustificazione di questa scelta vi sono nobili motivi: l’esigenza di ridurre gli sprechi; il rispetto dei peraltro discutibili accordi europei. Viene, d’altra parte da chiedersi perché non altrettanta attenzione venga prestata ai diritti civili e sociali sanciti dalla Costituzione e perché i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” possano essere subordinati a istanze che, pur importanti, non hanno lo stesso status nella nostra Carta.

A chiarimento che non di vaghi principi si sta trattando merita ricordare, fra i tanti possibili elementi di preoccupazione, che poco meno di un quarto delle famiglie italiane vive in condizioni di disagio economico, che il 17% dei giovani – fra i 18 e 24 anni – non ha conseguito altro che il diploma di terza media e che il 26,0 per cento di quelli tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora. Viene naturale chiedersi perché problemi come quelli appena menzionati non trovino un’adeguata attenzione nel dibattito politico. Le spiegazioni possono essere di vario genere: disattenzione del ceto politico; la scelta di strumenti sbagliati per realizzare gli obiettivi comuni; la scelta di obiettivi che non mettono al centro dell’attenzione le questioni di cui discutiamo qui.

Se è vero che nel nostro mondo complesso non si può pensare di trovare una spiegazione valida in assoluto e tale da escludere tutte le altre, nondimeno vale la pena fare alcune considerazioni. Il distacco della politica attuale dalla realtà sociale è un fenomeno acquisito, ma non è sufficiente a spiegare tutto. Sembra entrata in molto senso comune, per esempio, l’idea che l’Italia debba conformarsi alle indicazioni della Commissione e che i vincoli istituzionali europei non possano essere contestati e cambiati. D’altra parte, senza essere economisti, basta consultare alcuni siti Internet (fra gli altri: la Contro-Finanziaria di sbilanciamoci; economiaepolitica.it; euromemo.eu) per vedere che esistono tante opzioni alternative di politica economica, solo che le si voglia prendere in considerazione.

In realtà, il problema di fondo sembra riguardare il modello di società che le autorità di politica economica perseguono. Con coerenza più o meno pronunciata tutti i governi che si sono succeduti in questi anni – da quelli di centro-destra a quello “tecnico” di Monti, fino all’attuale – si sono adoperati per ridurre l’intervento pubblico e per avvicinarlo a una logica di mercato: per le pensioni si è promosso il criterio della capitalizzazione da integrare con pensioni private; per la sanità si proceduto a una progressiva riduzione della spesa, quindi di molti servizi – basti pensare alle lunghe liste d’attesa per visite specialistiche rilevabili anche in regioni e province ritenute “efficienti” – così da sospingere verso le prestazioni di operatori privati; per l’università si è ridotto il finanziamento pubblico, invitando gli atenei a cercare risorse presso i privati; un discorso analogo lo si è fatto per la scuola, mentre si procedeva all’aumento dei fondi a disposizione delle scuole private. Sul mercato del lavoro, infine, all’obiettivo di una piena occupazione, di cui lo Stato doveva essere il garante di ultima istanza, si è sostituito quello di un’elevata precarietà occupazionale associata a sussidi di disoccupazione decrescenti nel tempo.

La logica dietro tutte queste politiche non è solo quella delle privatizzazioni e della sostituzione di prestazioni private a quelle pubbliche. Di fatto, quello che si propone è una profonda trasformazione istituzionale della società. Con la giustificazione, accattivante quanto pretestuosa, che gli individui vanno posti di fronte alle loro responsabilità – di non sprecare le risorse pubbliche, di non rimanere disoccupati a carico della collettività ecc. – si propone un modello di società nel quale la responsabilità del disagio economico viene attribuita, fatte salve alcune eccezioni, alle sole condotte dei singoli. La disoccupazione è provocata non dall’assenza di posti di lavoro, ma da chi non si decide ad accettare un impiego. Una pensione insufficiente non dipende dalla difficoltà a trovare lavoro o dalle remunerazioni insufficienti, ma dalle scelte individuali di non effettuare versamenti pensionistici adeguati.

Quanto alla sanità privata, chi ricorre al sistema sanitario nazionale probabilmente non ne ha bisogno, per cui occorre disincentivarlo con liste d’attesa e ticket, anche se ciò porta a privilegiare la cura – quando è ormai inevitabile – ai programmi di diagnosi precoce e di prevenzione. Chi fa ricerca nelle università è bene che si attenga alle esigenze dei privati, anche se questi si guarderanno bene dal finanziare studi indipendenti sugli effetti di lungo periodo degli Ogm, delle onde elettromagnetiche dei cellulari, dei farmaci introdotti dalle case farmaceutiche ecc. Quanto alla scuola, un’istruzione congeniale agli interessi privati porta, nel migliore dei casi, a privilegiare la formazione professionale, ma certo non favorisce l’offerta di quegli strumenti culturali che, pur non generatori di reddito, fanno di un individuo un cittadino consapevole.

In sostanza, le politiche attuali mirano a invertire il ragionamento di Margaret Thatcher. L’ex primo ministro inglese affermava che la società era solo un concetto astratto e che erano gli individui che contavano. Anziché darla per scontata, il mutamento istituzionale in corso mira a rendere quanto più possibile concreta questa affermazione. Punta a desocializzare le persone, a far sì che l’unico criterio di accesso alle risorse della collettività sia quello privatistico. I diritti sociali scompaiono, in questa prospettiva. La solidarietà non fonda il patto sociale, ma interviene residualmente, quando non sia possibile altro che la carità, privata o pubblica che sia.

Viene naturale osservare che questo processo – in cui la società è subordinata all’economia, anziché il contrario – non può che rinforzare l’individualismo, il disinteresse per le vicende collettive, quindi la disaffezione alla politica e l’astensione dal voto. In questa situazione, dibattere sull’entità della ripresa diventa uno dei tanti passatempi, tanto più interessante in quanto distoglie l’attenzione dalle ragioni per cui una ripresa possa essere effettivamente desiderabile.

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Paolo Ramazzotti è professore di Politica economica all'Università di Macerata e vicedirettore del Forum for social economics - Questo articolo è stato pubblicato da rassegna.it )
Lunedì, 22. Giugno 2015
 

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