La riforma della contrattazione/6 : Umberto Romagnoli

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Umberto Romagnoli è ordinario di Diritto del lavoro presso l'Università di Bologna

Pensa che il modello italiano, nato nel luglio del 1993, abbia una sua originalità immodificabile?
 
Quel giorno di luglio è stato il momento della glorificazione di un sistema informale che non ha l’eguale nel mondo e certamente non in Europa. Era una creazione che si fondava su patti taciti. Il patto tacito numero uno era rappresentato dall’unità d’azione. Tutta la storia del dopo costituzione è orientata in questo senso.
 
Senza l’unità non ci sarebbe stato l’accordo del 1993?
 
No. Era stato rifiutato il famoso articolo trentanove che vincolava ad un’unità d’azione ma in maniera istituzionale. Hanno voluto praticare l’unità d’azione, ma in un regime di libertà volontaristica. E in questo modo ora quando ci sono lacerazioni, come quelle che si verificano in questo periodo, salta tutto. L’applicazione dell’accordo del 1993 è stata esemplare per correttezza e per i risultati raggiunti. Ma i miracoli non si ripetono. Ribadisco: il suo pilastro numero uno era rappresentato dall’unità d’azione. E se ora quel modello può apparire superato è perché non c’è più quel pilastro.
 
Non esistono anche altre ragioni, derivanti dai mutamenti intervenuti nelle realtà lavorative, che lo possono rendere obsoleto?
 
Questo non credo sia vero.
Molti sostengono che in qualche modo sarebbe il caso di ridimensionare uno dei due livelli contrattuali: il contratto nazionale. E’, invece, uno strumento ancora utile?
Ripeto: serve se c’è l’unità d’azione. Altrimenti tutto si trasforma in una lotta selvaggia. Bisogna tener conto che abbiamo un contratto collettivo, anche questo naturalmente non regolato dalla legge, ma applicato dai giudici e applicato dalla prassi sulla base di scelte che se non sono "contra legem" sono sicuramente "extra legem". E’, quindi, tutta una finzione. La questione di un ridimensionamento del ruolo regolativo del contratto nazionale si pone sempre. Non è solo una questione di oggi. Adesso ci sono ragioni in più. Però attenzione: il contratto collettivo negli ultimi dieci anni si è connotato come uno strumento di macroeconomia, per controllare l’inflazione, per promuovere una politica dei redditi. Ma ora questa funzione importante non solo per entrare in Europa, ma anche per restarci, chi la esercita?
 
Vuol dire che ridimensionando il contratto nazionale si ridimensiona anche questo ruolo macroeconomico?
 
E’ l’aspetto più delicato che viene messo in discussione, indipendentemente dalle intenzioni, nei fatti. In una situazione di rottura dell’unità d’azione tu non fai contratti collettivi nazionali, o se li fai li fai in una situazione estremamente precaria. L’alleggerimento del peso regolativo del contratto nazionale è, in ogni caso, un discorso vecchio. Ricordo che partecipavo a dibattiti che erano allora suscitati, all’inizio degli anni Ottanta, dalla Federmeccanica di Felice Mortillaro. Questo alleggerimento di fatto, poi, c’è già stato. E’ già avvenuta una mutazione del ruolo del contratto nazionale, come strumento di regolazione, su base volontaria e consensuale, dell’economia, con particolare riferimento ai redditi da lavoro dipendente, calmierando le rivendicazioni salariali a livello nazionale, per cedere tutto a livello aziendale. La contrattazione aziendale, laddove esiste, è l’unico strumento per ridistribuire ricchezza prodotta. A livello nazionale non fai che ripristinare, in qualche misura, il potere d'acquisto dei salari, con riferimento all'inflazione programmata.
 
Una tale osservazione elimina l’eventualità d’interventi?
 
Andrebbero introdotti elementi di razionalizzazione. C’è un peso eccessivo dato dalla regolazione del contratto collettivo. Quelli più gloriosi, i più robusti di storia e di gloria, sono diventati dei testi unici. Occorrerebbe procedere ad un'opera di snellimento.
 
Quale può essere il rapporto tra il contratto nazionale e le nuove forme di lavoro, gli atipici gli interinali, i Co.Co.Co.?
 
Quelli sono fuori per il semplice motivo che manca la controparte. Come fai ad ipotizzarla per il popolo dei Co.Co.Co.? Forse a livello aziendale. C’è una dispersione di figure imprenditoriali. E poi gli imprenditori non hanno alcun interesse, usano questi contratti in maniera strampalata, facendo figurare questi assunti come degli appaltatori di sé medesimi. I rapporti di lavoro si svolgono in un regime di subordinazione di tipo addirittura fordista, ciononostante vengono codificati come lavori indipendenti.
 
L’unica via d’uscita è quella di dar vita a regolazioni locali? C’è però chi propone di tentare di far diventare perenni i lavoratori transitori...
 
Penso che sia un'operazione poco realistica. C'è, oltretutto, anche una parte di questo popolo che non ha nessuna voglia di oltrepassare il guado.
 
Non sentono il peso della precarietà?
 
Una fetta non lo sente. E’ giovane, non pensa al futuro. O alle malattie. E in ogni modo anche su questi temi vale quello che dicevo sul pilastro dell'unità. E' il perno su cui si regge una storia sindacale semisecolare, basata su un tacito patto. Salta quello, salta tutto.
 
I sindacati ne usciranno fuori?
 
Non mi faccio molte speranze. Voglio segnalare però un'iniziativa particolare. I segretari confederali di Milano hanno chiesto a me e anche a Giampiero Cella di tirar fuori qualche idea per arrivare a ricucire il rapporto tra le Confederazioni. Il proposito è quello di dar vita a un protocollo quadro, a livello locale, per ricucire. La riuscita di un simile patto a Milano potrebbe produrre un notevole effetto d'imitazione. L'unica idea che, però, mi è venuta in mente è questa: quando si rompe l'unità d'azione contrattuale, coloro che firmano il contratto sono obbligati ad andare ad un referendum. Non c'è altra strada. So bene però che dire questo significa entrare in polemica con la Cisl. Non voleva sentir parlare di referendum in condizioni di normalità sindacale, figurarsi ora.
 
Quale metodo potrebbero concordare i sindacati di fronte ad opinioni divergenti, in relazione ad un’ipotesi d’accordo?
 
I firmatari potrebbero dire: "Guardate che noi, se rompiamo l'azione, lo facciamo nell'interesse dei lavoratori, tanto è vero che, mentre ci assumiamo la scelta della sottoscrizione del contratto, assumiamo contestualmente l'iniziativa di promuovere noi il referendum. Lo facciamo noi, non i dissidenti, non il sindacato che si autoesclude dalla trattativa". Sarebbe l'unico modo per dare credibilità a determinati comportamenti. Se non c'è un'assunzione d'obbligo di questo genere, il comportamento assunto viene considerato come tradimento dell'unità d'azione, come lesione dei diritti dei lavoratori, anche dei non iscritti, eccetera.
Mercoledì, 29. Gennaio 2003
 

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