La riforma della contrattazione/3: Franco Lotito (Uil)

'Va confermato il modello a due livelli, ma la struttura dei contratti è inadeguata e va rivista'
Anche a Franco Lotito, membro della segreteria confederale della Uil, poniamo i quesiti già rivolti a Bruno Trentin e Giorgio Santini, in merito ad una possibile riforma dell’attuale modello contrattuale.
 
Quello del 1993 è un modello superato?
 
Non mi pare. Ritengo che il contratto nazionale rimanga uno strumento decisivo di regolazione del valore della forza lavoro. Ciò vale non solo per esigenze di omogeneità della condizione dei lavoratori, ma anche per razionalizzare l’offerta sul mercato del lavoro. Un mercato del lavoro senza un regolatore nazionale del costo del lavoro tenderebbe inevitabilmente a diventare un mercato selvaggio, nel quale la competizione alimenterebbe conflitti distributivi. Sarebbe posto in gioco non solo il salario, ma anche la redditività dell’impresa.
 
Sono possibili, invece, correzioni?
 
La struttura degli attuali contratti nazionali, appare, certo, inadeguata. La mappa dei settori è cambiata profondamente e questo deve portare a necessari cambiamenti. Tutto il processo di privatizzazione, ad esempio, ha determinato una profonda modifica degli assetti settoriali. Dovremo partire da lì per ridisegnare i contratti.
 
E per quanto riguarda i livelli di contrattazione?
 
Il modello centrato su due livelli deve, a mio modo di vedere, essere confermato. Rimane la funzione del contratto nazionale, mentre col secondo livello possiamo operare quella redistribuzione della produttività che non può essere affidata al contratto nazionale, perché è una caratteristica peculiare delle singole aziende. Ritengo invece necessario liberare il sistema contrattuale dai vincoli e dalle bardature che gli abbiamo imposto nel 1993, quando era necessaria una fortissima regolazione, non solo dei contenuti della contrattazione, ma anche dei comportamenti.

L’accordo del 1993 non dice soltanto che il valore degli incrementi salariali è predeterminato, ma stabilisce anche come fare la richiesta, entro quanto tempo, in quale periodo, quando fare la contrattazione intermedia e quando non farla. Noi, ad esempio, sosteniamo la necessità di passare dal contratto quadriennale al contratto triennale e lasciare libera di agire la contrattazione di secondo livello, affidandola molto alle regole del mercato. E’ evidente che noi non potremo mai immaginare, ad esempio, di avanzare ora, alla Fiat, ammesso che le procedure lo consentano, una richiesta salariale… Non c’è dubbio che il mercato finisce col regolare i margini della contrattazione di secondo livello. La quale deve essere agibile, ma al tempo stesso più libera. Può esserci un’azienda, accanto a quella di Termini Imerese, che è nelle condizioni di distribuire un po’ di produttività.
 
C’è uno spazio per la cosiddetta contrattazione territoriale?
 
Non potrà mai configurarsi come un terzo livello, ma come un livello sostitutivo della contrattazione aziendale. Dove non c’è. Nell’intero comparto artigiano, ad esempio, non è praticabile la contrattazione aziendale e pratichiamo da tempo la contrattazione regionale. Una tendenza che si può migliorare. A patto che non si tratti di una dimensione aggiuntiva, bensì sostitutiva della contrattazione aziendale.
 
Quali scopi principali dovrebbe continuare ad avere il contratto nazionale, con queste modifiche?
 
Penso all’effetto regolatore sulle dinamiche salariali globali. Penso ai diritti eguali per tutti. Posso ammettere, ad esempio, che la gestione degli orari si differenzi, non posso accettare che il diritto al riposo sia diverso fra un’azienda e un’altra. C’è poi la questione della professionalità. Un campo complicato. L’inquadramento è ormai superato e andrebbe sostituito con un nuovo sistema di cui tutti avvertono l’esigenza, senza sapere come rispondere.
 
Non è meglio rinviarne la riforma a livello aziendale?
 
Non c’è dubbio che la dimensione aziendale coglie meglio i mutamenti. E’ difficile avere una configurazione esattamente nazionale. L’inquadramento nazionale funziona per le realtà tayloriste, dove la stessa cosa si fa dappertutto con la stessa caratteristica. Quindi la qualifica del montatore di Mirafiori è come quella del montatore di Termini Imerese. Ma in un settore come le telecomunicazioni l’esercizio della professionalità è determinato dalla condizione specifica. Potremmo immaginare delle linee guida nazionali, con parametri essenziali.
 
Vale anche per gli orari?
 
Sono argomenti in cui il contratto nazionale potrebbe continuare ad avere un elemento di garanzia, da tradurre nelle diverse realtà produttive.
Non una cancellazione, ma una rivisitazione del contratto nazionale, dunque?
Dico di più. Esistono realtà nelle quali il contratto nazionale ha una netta prevalenza su qualsiasi strumento sostituivo. Se analizziamo la contrattazione delle piccole e piccolissime aziende, scopriamo che tutte le aziende nella fascia da uno a cinque addetti possono essere validamente organizzate in un contratto, a patto che sia nazionale. Quindi potremmo arrivare a dire: questa fascia, da uno a cinque addetti, ha solo il contratto nazionale; questa altra, tra i cinque e i venti dipendenti, il contratto nazionale e territoriale; questa, tra i venti e sopra i venti dipendenti, il contratto nazionale e la contrattazione aziendale.
 
Un discorso che non porta, dunque, al ridimensionamento del sindacato di categoria?
 
Anzi, renderà necessaria una rivisitazione della struttura rappresentativa e un consolidamento del suo ruolo nazionale. Qui c’è la questione delle regole di rappresentanza: un nodo assai complicato, a causa delle diversità d’opinioni tra Confederazioni.
 
E per quanto concerne il rapporto con i nuovi lavori?
 
Ecco un altro caso in cui varrebbe solo il contratto nazionale. Come si può immaginare una contrattazione aziendale per gli atipici? Sono lavoratori che per definizione sono mobili sul mercato del lavoro. Noi, oltretutto, dovremmo rivendicare per loro un salario maggiore di quello stabilito per gli stabili. Per una ragione banale: sono più disponibili. La regola del capitalismo dice che chi rischia deve essere remunerato. Vale per il capitale, perché non deve valere per il lavoro?
 
Almeno su questi temi sarà possibile uno sbocco unitario?
 
Penso che non si possa che partire da qui. Inserirei anche i temi della rappresentanza. Modello e rappresentanza sono due cose che camminano insieme. Anche se i tempi sono duri.
Lunedì, 16. Dicembre 2002
 

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