La riforma della contrattazione/2:Giorgio Santini (Cisl)

'Sì al contratto nazionale, ma con più poteri decentrati sul territorio'
E’ possibile dunque una riforma del sistema contrattuale? Dopo l'intervista a Bruno Trentin, le domande sono rivolte a Giorgio Santini, autorevole membro della segreteria confederale della Cisl.
 
Il modello del 1993 ha ancora una sua validità o è da sotterrare?
 
Quando noi compiamo un’analisi della distribuzione del reddito e soprattutto della produttività in questi anni, arriviamo ad una conclusione abbastanza univoca. Il modello funziona bene nella fase di controllo, rispetto all’inflazione, non così nella fase di distribuzione. Voglio dire che c’è una quota crescente di produttività che non è ridistribuita. Lo schema adottato non lo permette, perché è molto più centrato proprio sul rapporto con l’inflazione. La produttività è demandata al secondo livello che però è ancora troppo poco diffuso. E’ dunque, da questo punto di vista, un modello superato.
 
Quali modifiche sono da apportare dunque? Il contratto nazionale rimane in ogni modo valido?
 
Sicuramente sì. Vediamo di superare falsi problemi che rendono difficile la discussione tra Confederazioni. Il contratto nazionale serve per tutelare un livello di reddito significativo per tutti, per difenderlo dall’inflazione. L’entità di tale reddito rappresenta una questione vera, poiché c’è chi sostiene che si debba preservare “tutto” il salario reale, con una posizione che mi sembra un po’ irrealistica, e c’è invece chi parla, come sta scritto nel “Libro Bianco”, di una sorta di salario minimo. Non è una scelta che mi sembra andar bene, questa del “salario minimo”. Credo che si possa pensare, invece, ad una quota significativa del salario tutelato a livello nazionale che sia una via di mezzo tra il cinquanta per cento, come qualcuno calcola il cosiddetto “salario minimo”, e il salario reale intero. Insomma, tre quarti del salario di fatto.

Inoltre il contratto nazionale dovrebbe servire a mantenere le grandi normative, in una logica, però - qui potrebbe stare una novità – regolativa e flessibile. Grandi questioni, come ad esempio gli orari e gli inquadramenti, potrebbero essere definite attraverso grandi famiglie della professionalità. Per poi rinviare in via regolativa, ai livelli decentrati, aziendali, una collocazione specifica dei lavoratori, in una fascia che contempli un minimo e un massimo. Un modo per collegarci alle trasformazioni del mondo del lavoro. E così sugli orari, all’interno di una politica generale quantitativa, bisognerebbe dare poi molto spazio alla contrattazione decentrata. Il contratto nazionale, dunque, continuerebbe ad avere un ruolo decisivo, sovrintendendo a questo processo.
 
Non sarebbe un modo per ridimensionare, in ogni caso, il contratto nazionale e quindi anche il sindacato di categoria?
 
No, io la chiamerei una nuova articolazione della contrattazione e quindi anche dei sindacati di categoria. Semmai, infatti, dobbiamo pensare a come la categoria si riorganizza fortemente nel territorio.
C’è chi accusa la Cisl di volere il diffondersi del contratto territoriale, regionale.
Evitiamo un equivoco. Noi diciamo “decentrato” e, coerenti con la storia della Cisl, puntiamo, dove si può, al livello aziendale. Siamo, però, di fronte ad un problema di dispersione. Faccio l’esempio dell’artigianato. Qui è difficile immaginare un livello aziendale e allora puoi fare una contrattazione su bacini, su territori. Non pensiamo al territoriale come una sorta di aziendale ridotto. Abbiamo tutto l’interesse a valorizzare al massimo la presenza nei luoghi di lavoro, per via del collegamento con la produttività e anche in relazione alla partecipazione dei lavoratori. Non penso al contratto territoriale che diventa una sorta di contratto nazionale spezzettato. C’è una cornice nazionale, con uno spostamento significativo verso la contrattazione decentrata. Penso alla scelta aziendale come la via maestra, surrogata dalla via territoriale, laddove non c’è altra possibilità.
 
E’ possibile costruire un rapporto tra contratto nazionale e le nuove forme di lavoro atipico?
 
Qui c’è un problema grossissimo. Avremo di fronte i decreti legislativi relativi ad alcune nuove tipologie professionali. Sarà un banco di prova, perché qui ci sono differenziazioni con la Cgil e perché noi, comunque, vogliamo valorizzare al massimo lo strumento della contrattazione, rispetto all’attivazione di queste tipologie. Faccio l’esempio relativo al cosiddetto “contratto a chiamata”. Io penso che in alcuni settori non serva assolutamente a nulla. Noi vorremmo, dunque, che nei decreti legislativi ci fosse, tra i requisiti per condizionare l’applicazione o no di questi nuovi rapporti di lavoro, una clausola concernente la presenza esplicita di un avallo della contrattazione.
 
I contratti nazionali devono in ogni caso occuparsi anche di queste nuove identità lavorative?
 
Per quanto riguarda l’attivazione delle tipologie contrattuali sì. Per quanto riguarda il tema della rappresentanza e della contrattazione di queste categorie credo che sia un bel problema. Il lavoro interinale, ad esempio, in quale categoria è possibile collocarlo, visto che per definizione può cambiare sei settori? O ogni categoria ha un contratto anche per l’interinale, oppure fai un sindacato che si occupa anche dell’interinale.
Teniamo conto che noi oggi siamo presi dall’idea che questi lavoratori siano tanti. Tutte le esperienze, anche europee, dicono che non è così. In Francia sono, ad esempio, il 3 per centro, e in Italia si è ancora sotto l’uno per cento. Certo nel tempo acquisiranno un loro spazio. La loro definizione, conclusa la fase iniziale, sarà fisiologica. E’ un problema aperto, così come è aperto quello dei Co.Co.Co. dove bisognerebbe differenziare nettamente il fittizio, che è molto, dall’effettiva professionalità, che è poca. Qui la cartina di tornasole è data dall’aumento dei contributi previdenziali. Avrebbe l’effetto di vuotare questo bacino anomalo che si è creato.
 
Permangono, su questi temi, divisioni serie tra le Confederazioni?
 
Se il nostro obiettivo è rappresentare il lavoro che cambia e non altre opzioni di carattere politico, sono convinto che si potrà trovare una modalità comune. Bisogna sbarazzare il campo dall’accusa secondo la quale la Cisl vorrebbe depotenziare il contratto nazionale. Come ho spiegato, nella nostra ipotesi i poteri slittano un po’ di più verso il territorio, ma rimangono poteri sindacali. Perché dovremmo averne paura? Più saremo articolati nel territorio e più saremo in grado di incrociare fenomeni nuovi, leggere meglio i cambiamenti.
Certo tutto questo è rivolto al futuro. E’ vero, infatti, che il modello del ‘93 è superato, ma in questo giro, di fronte alle difficoltà, ad esempio alle diverse piattaforme dei metalmeccanici, penso che sarà grasso che cola se porteremo a casa quello che è previsto dall’accordo del 1993.
Venerdì, 6. Dicembre 2002
 

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