La rappresentanza e le sue regole

E' soggetto di una funzione pubblica, ma non accetta una regolazione della rappresentanza. Come la storia ha creato nel sindacato una contraddizione ancora non risolta

Vi sono temi su cui il dibattito ha l'andamento di un fiume carsico. Uno di essi è l'unità sindacale. L'altro è la forma della rappresentanza sindacale. Oggi, il dibattito su entrambi attraversa un periodo di latenza.

La coincidenza non è casuale. Sussistono infatti sotterranei legami che impediscono che l'uno possa essere affrontato separatamente dall'altro. Per questo, la rivisitazione delle regole sulla rappresentanza sindacale nell'arcipelago delle pubbliche amministrazioni compiuta dal legislatore nello scorcio finale del Novecento - un legislatore che pareva intenzionato a far uscire il sindacato dal regime d'informalità in cui si era sviluppato - è stata accompagnata dal riemergere dell'interesse all'unità sindacale. Poi, tutto si è inabissato di nuovo.

Tra i due temi, però, residua un'insormontabile differenza. Mentre l'unità sindacale necessita soltanto di una decisione politica endo- infra- e intersindacale - più di vertice che di base, ad avviso di molti, perché al livello dei comuni mortali la decisione è positivamente maturata da un pezzo - in materia di rappresentanza l'autoregolazione può non bastare. E ciò non solo perché c'è bisogno di un consenso che, come quello delle naturali controparti del sindacato, può non essere concesso, ma anche perché c'è bisogno di un intervento legislativo. Un bisogno originato dal fatto che in misura crescente il sindacato è un rappresentante che aspira ad una legittimazione inclusiva dalla quale è irresistibilmente trascinato ad esercitare il potere di cui dispone su di un terreno attiguo a quello della sovranità dello Stato, come se ne fosse un supplente. Pertanto, se finora è stata enfatizzata l'implicita e dunque possibile valenza repressiva dell'intervento legislativo, sarebbe corretto cominciare perlomeno a valutare  la possibilità che il legislatore cooperi col medesimo sindacato per risolvere una questione di generale interesse.

Sennonché, il tema è dominato dal manicheismo di duellanti prigionieri dei dogmatismi che teatralizzano la relazione tra autonomia privato-collettiva e legge nella forma di una titanica lotta tra la Luce e le Tenebre. Dogmatismi del genere facilitano senz'altro il formarsi di opposti schieramenti, ma rendono difficoltoso il dialogo.  Per questo, mi propongo di indicare un percorso di riflessione che ne sveli la storicità ed insieme ne promuova il superamento.

La premessa del discorso è che il sindacato si è guadagnata un'ampia legittimazione sociale che riceverà non solo il crisma della legalità costituzionale, ma anche il trattamento premiante di legislazioni promozionali.

Adesso, però, questa sperimentata attitudine ha perduto smalto nella misura in cui la percezione dell'esigenza - che pure percorre rumorosamente le società più evolute - di ridisegnare nel sistema giuridico l'immagine dell'individuo con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protettivo e benevolo, è penetrata nella vita interna dell'organizzazione sindacale furtivamente e dunque non ha esercitato una significativa influenza sulla concezione che il sindacato ha memorizzato del suo ruolo di rappresentanza: una concezione granitica a sostegno di un ruolo blindato.

In effetti, come osservava Massimo D'Antona all'inizio degli anni '90, "contrariamente ad un diffuso luogo comune, i diritti di democrazia sindacale non sono riconosciuti ai lavoratori come rappresentati". Anzi, la democrazia nel sindacato è una realtà basata sulla presunzione - in bilico tra l'ideologia e l'apologia - per cui, in quanto protagonista di primo piano della vita democratica del proprio paese, il sindacato non può non aderire alla democrazia come insieme di principi e valori che presiedono alla sua auto-amministrazione. Lo stesso Statuto dei lavoratori - ossia, uno dei più avanzati documenti legislativi pro labour confezionati da un Parlamento - "si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell'impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentanti di fronte al lavoratore". I quali, infatti, preferiscono considerarlo nella sua qualità di "destinatario finale di decisioni vincolanti, assunte in suo nome e per suo conto".

Sommessa, ma ferma, la denuncia di Massimo - lui la chiamava "il non-detto dello statuto dei lavoratori", ossia "le regole sulla legittimazione della rappresentanza, sulle garanzie dei rappresentati e sul pluralismo che lo Statuto ritenne di non dover scrivere, dato che il sistema sindacale assicurava autonomamente il necessario ordine" - è caduta nel vuoto. Anche per questo l'aprioristica presunzione di cui il sindacato ha potuto giovarsi a lungo non è più condivisa con l'intensità desiderata né mancano gli episodi, in quasi tutti i paesi in cui la libertà sindacale è riconosciuta e protetta, che dimostrano come quel pregiudizio favorevole si sia convertito nel suo contrario.

Paradigmatico, ancorché sottostimato o frainteso, è un episodio accaduto in Italia una decina di anni fa, quando un referendum abrogò una norma dello Statuto nella parte in cui obbligava l'imprenditore ad agevolare la riscossione delle quote sindacali mediante ritenuta salariale su richiesta del dipendente.

Vero è che l'11 giugno 1995 il legislatore popolare optò per l'abrogazione perché si era sparsa la voce che le trattenute sarebbero state viziate dal più arbitrario degli automatismi: effettuate cioè ope legis e dunque a prescindere dalla volontà degli interessati. Sta di fatto, però, che  la grossolana falsità trovò un terreno fertile. La schiacciante maggioranza dei votanti ci ha creduto. Evidentemente, riteneva la cosa verosimile. Il che significa che preesisteva un clima di insofferenza verso certi eccessi di presenzialismo sindacale. Come dire che si volle punire un potere che, nell'immaginario collettivo, tendeva a debordare.  Insomma, il legislatore popolare si pronunciò nel senso che la venerabile concezione di un sindacato la cui agiografia lo descrive incapace di peccare era tramontata. Svanito il pathos mistico-religioso delle origini, il sindacato ridiventava laicamente una qualunque delle innumerevoli organizzazioni regolate con estrema parsimonia dal codice civile e il legislatore popolare ha dato il suo assenso all'omologazione stabilendo che il metodo imposto dalla legge dell'auto-finanziamento agevolato andava rimosso.

Non dovrebbe risultare difficile a nessuno sapere come avrebbe commentato il responso il ministro socialista a cui una morte prematura rubò la meritata soddisfazione di concludere l'acceso dibattito parlamentare che precedette l'emanazione della normativa statutaria. Le sue intenzioni erano chiare e inequivocabili. "Il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando" sotto la regia di Gino Giugni, aveva preannunciato, "si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica della vita associativa sindacale e della formazione di canali democratici tra il sindacato e la base". E' quindi assai probabile che, visto il deprimente esito referendario, Giacomo Brodolini avrebbe pensato che allo Statuto del 1970 il miracolo non era riuscito.

Peraltro, nemmeno una pronuncia del 1990 della Corte costituzionale aveva trovato lusinghiero ascolto. Risale al 1990, infatti, la sentenza che, nella forma di un obiter dictum, rivolgeva simultaneamente una censura e un'esortazione. La censura era indirizzata ai sindacati che, premiati dallo Statuto con una dote fatta di privilegi ed immunità, per non rischiare di perderla preferivano l'insostenibile leggerezza della maggiore rappresentatività di cui erano accreditati dalla legge in base ad una valutazione presuntiva la cui correttezza costituzionale non può essere accresciuta dalla condivisione del giudizio storico-politico che quella valutazione presuppone.  L'esortazione era invece diretta ad un legislatore che si ostinava a rinviare la decisione che la rappresentatività sindacale fosse accertata in base a regole "ispirate alla valorizzazione dell'effettivo consenso come metro di democrazia anche nell'ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacati".

Tuttavia, bisogna riconoscere che anche un legislatore meno timido o distratto del nostro rischierebbe di fare la figura dell'allegrone colpito da ilare amnesia se pretendesse di prescrivere al sindacato istituzionalizzato del tempo presente di tornare ad essere un'associazione genuina e virtuosa.

Oramai, l'esercizio di consistenti fette di potere sostanzialmente e, spesso, anche formalmente pubblico lo ha irreversibilmente trasformato in un'associazione inautentica e virtuale oscillante tra privato e pubblico, ma più sbilanciata verso il pubblico che  verso il privato.

Ciò, peraltro, non significa affatto che il suo patrimonio genetico abbia subito pesanti alterazioni. Al contrario, anche durante la sua fase eroica il sindacato manifestò, non solo in Italia, la tendenza a giustapporre alla logica volontaristico-associativa la logica istituzionale che sosteneva l'ambizione di fare del contratto collettivo (segnatamente, quello nazionale o di categoria) un sostituto funzionale della legge: un'ambizione mai accantonata. Infatti, è una consuetudine diffusa fino a tradursi in una specie di costante di molte legislazioni nazionali che i rappresentanti sindacali ritengano irrealizzabile la loro massima aspirazione, che è quella ad accreditarsi a livello di eccellenza come portatori dell'interesse collettivo, se non si vedono riconosciuta anche dallo Stato la legittimazione a generalizzare l'applicazione delle regole che pattuiscono in aree (geografiche, merceologiche, professionali) di variabile estensione. Pressoché universale, l'istanza preesisteva al fascismo e, poiché il fascismo se ne appropriò sia pure a modo suo, in Italia intere generazioni di operatori giuridici ne hanno fatte di tutti i colori per impedire che il crollo del regime la mortificasse. Perché buttare via l'acqua sporca col bambino dentro?

Se lo chiesero proprio tutti e a tutti i livelli. Per questo, un ministro del governo Badoglio si affrettò a dichiarare: "il governo non intende distruggere tutto ciò che ha trovato. Quel che oggi ci preme è evitare ogni brusca frattura nell'ordinamento sindacale, sia pure con gli adattamenti richiesti dalla nuova situazione politica". Parole prudenti; come le decisioni che saranno prese poco dopo. Così, il 9 agosto del '43 un decreto governativo si limiterà a stabilire, con la sciatteria linguistica di chi ha una fretta maledetta, che i contratti collettivi non potranno diventare vincolanti per le categorie di riferimento se non "quando siano approvati dall'esecutivo, previe le modificazioni del caso", e un decreto del novembre dell'anno successivo stabilì, unitamente alla soppressione dei sindacati dell'epoca fascista, l'ultrattività delle norme che essi avevano negoziato, "salvo le successive modifiche".

Un inciso, questo, che col trascorrere del tempo avrebbe acquistato un sapore poco meno che oracolare; mentre, nell'immediato, il suo significato era trasparente: le "successive modifiche" sarebbero state introdotte col consenso del soggetto che - parafrasando una formula testuale del decreto del '44 - "dimostrerà di avere legalmente la rappresentanza della categoria corrispondente a quella tutelata dall'associazione disciolta". L'inciso, che si direbbe scritto per mantenere aperto o riaprire un ciclo per molti versi definitivamente chiuso, esprimeva la riluttanza degli uomini e delle istituzioni ad affossare il contratto collettivo corporativo con molti dei suoi difetti e tutti i suoi innegabili vantaggi.

La medesima riluttanza serpeggia nell'ambiente sindacale - anzi, non è da escludere che l'adozione del secondo dei menzionati provvedimenti corrispondesse ad una pressante richiesta della neonata Cgil unitaria di Giuseppe Di Vittorio - ed è ancora vivissima all'epoca della Costituente. Infatti, ritenendosi obbligati ad assomigliare più al cauto Nestore che all'audace Achille, i padri della Repubblica riprodurranno nel quarto comma dell'art. 39 del testo costituzionale un'immagine di sindacato che sembra estratta dall'album di famiglia.

La norma conferisce al sindacato la facoltà di partecipare ad un organismo collegiale - di natura più pubblicistica che privatistica - abilitato a negoziare trattamenti economico-normativi minimi, inderogabili e generalmente vincolanti, ma riafferma il principio per cui la fonte del potere del sindacato continua a risiedere nella sua membership. Insomma, come ama sostenere la Cisl - benché nemmeno là sia predominante nei fatti quella che Aris Accornero chiama la cultura dell'iscritto - un sindacato rappresenta innanzitutto gli iscritti anche quando dispone degli interessi dei non iscritti; per questo, la quota del suo potere decisionale all'interno dell'organismo unitario di negoziazione deve, secondo la medesima norma, essere proporzionata alla sua consistenza associativa.

L'escamotage non sarà geniale; ma perlomeno è ingegnoso. Adottandolo, i costituenti volevano statuire che un sindacato polarizzato intorno ad una soltanto delle sue componenti genetiche non è né un minus  né un plus, ma un aliud: un altro da sé. In effetti, la norma traccia un identikit del sindacato che - dirà Vittorio Foa - lo rappresenta "come libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato". E' una rappresentazione di equilibrio accettabile, perché contrasta tanto il privilegiamento ideologico - targato Cisl - del modello associativo quanto l'accentuazione - ideologizzata dalla Cgil - del sindacato come movimento o strumento di classe: neanch'essa è stata mai in grado di mettere in discussione la natura associativa del sindacato.

In effetti, per quanto la bipolarità possa insospettire o infastidire, essa trova spazio e sviluppo nella costituzione materiale non già in contrapposizione con la costituzione formale, bensì malgrado l'inattuazione del progetto di ordinamento sindacale che quest'ultima ha disegnato. Infatti, nei limiti consentiti dalle tecniche disponibili il diritto vivente gli ha dato esecuzione.

Così, il contratto collettivo post-corporativo vivacchia in uno stato di minorità, come un'anatra azzoppata. Anzi, si può scommettere che la gente non ci crederebbe se le dicessimo che i contratti collettivi nazionali i cui periodici rinnovi costano in genere mesi od anni di trattative e molte ore di sciopero sono paragonabili ad uno smisurato serbatoio idrico sprovvisto dell'impianto atto a trasformare l'energia potenziale dell'invaso in energia cinetica ed assicurare la distribuzione della corrente elettrica anche nelle abitazioni situate nelle più remote contrade. Ci prenderebbero sul serio soltanto i poveri-cristi a cui è toccata l'esperienza di restare al buio e, a causa del loro isolamento, per farsi un po' di luce hanno dovuto accontentarsi di accendere il cerino della contrattazione individuale. Tutti gli altri, invece, è probabile che ci guarderebbero trasecolati. Non a torto, del resto.

Sanno che il sindacato è entrato anche nello Stato-apparato con tali e tante ramificazioni che un maestro del realismo giuridico italiano della statura di Massimo Severo Giannini non potè esimersi - benché non avessero raggiunto le dimensioni e le articolazioni attuali - dal qualificare i maggiori enti esponenziali degli interessi delle categorie economico-professionali, incluse quelle imprenditoriali, come amministrazioni pubbliche parallele alle amministrazioni statali.

Sanno che la transizione dalla rappresentanza sindacale di tipo politico-istituzionale e dunque di diritto pubblico - acquistata a prezzi proibitivi in età corporativa - alla rappresentanza di tipo privatistico-associativo ossia particolaristica e dunque di diritto comune - privilegiata nell'età successiva - è rimasta incompiuta.

Sanno che lo Statuto dei lavoratori ne sancirà l'incompiutezza nell'ampia misura in cui disciplina la formazione e il ruolo degli organismi sindacali endo-aziendali mediante scarne regole che assegnano il massimo risalto al rapporto tra sindacato e lavoratori, lasciando sullo sfondo il principio associativo di matrice privatistica che presiede ai rapporti tra sindacato ed iscritti.

Sanno che in seguito alla crescente opacità di tale principio la rappresentanza sindacale si è congedata dal modello della rappresentanza volontaria di cui discorrono i manuali di diritto privato, diventando una sottospecie della rappresentanza politica di cui discorrono i manuali di diritto costituzionale.

Per questo, fanno fatica a capire come e perché l'appartenenza del sindacato al diritto comune dei gruppi privati, mentre non gli è mai bastata a dissuadere il sindacato dal cercare di insediare la contrattazione collettiva nell'area del diritto pubblico, possa invece bastare per legittimare il sindacato ad alzare barricate per bloccare incursioni nel suo territorio d'elezione ad opera del diritto pubblico. Dopotutto, è incontestabile che l'essere e l'agire del sindacato interessano allo Stato almeno quanto l'essere e l'agire dello Stato non lasciano indifferente il sindacato.

La simmetria, però, regge soltanto in linea di principio. Di fatto, può prevalere - e da noi ha finora prevalso - la pretesa del sindacato di acquisire diretta o indiretta rilevanza endo-statuale e, al tempo stesso, restare fuori dell'ordinamento dello Stato.
Secondo un'erratica storiografia sindacale, se l'atteggiarsi del sindacato "come libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato" - per dirla con Vittorio Foa - ha giocato un ruolo così contraddittorio nella vicenda italiana ciò dipende dal suo smodato protagonismo. Volta a volta, l'accento cade sulla sua  astuzia o sulla sua arroganza. Sulla sua impudenza o sul suo narcisismo. Sulla sua deferenza ed insieme sulla sua diffidenza nei confronti dell'autorità dello Stato.

A mio avviso, invece, ciò che da noi ha contato di più è il fatto che - in presenza di uno Stato insicuro di sé, che gode di scarsa fiducia ed ha molto da perdonare per essere per essere perdonato - la correlazione tra l'interesse dello Stato e quello del sindacato al rispettivo modo d'essere e d'agire non poteva essere perfettamente biunivoca. Essa ha finito per cedere sotto il peso del dato storicamente prevaricante che senza la libertà sindacale esercitata nelle forme tipiche del diritto dei privati non si realizzano conquiste sociali, ma la libertà dei privati non basta da sola a difenderle contro il rischio di  manipolazioni o arretramenti. Per questo, il sindacato italiano del dopo-costituzione era particolarmente geloso della sua libertà e - pur atteggiandosi, per dirla ancora con Vittorio Foa, come "soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato" - non tollerava regole eteronome. Insomma, vedeva dappertutto rigurgiti cripto-corporativi.

Come dire che non vale a pena di dissimulare che la metabolizzazione dell'ibridismo si è arrestata a metà strada. Anzi, è più conveniente parlarne senza falsi pudori come di una contraddizione irrisolta, anche se vantaggiosa.


 

Martedì, 9. Novembre 2004
 

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