La ragione delle armi, le armi della ragione

La sinistra non può accettare la dottrina Usa che teorizza l'arbitrio per battere il terrorismo

Miriam Mafai ha manifestato un forte scetticismo nei confronti dell’appello di Emergency “Fuori l’Italia dalla guerra” (La Repubblica, 25 Settembre 2002). Il pacifismo assoluto, di tipo ideologico, che lo ispira, infatti,a suo giudizio non può reggere alla dura prova della politica. Gino Strada ha replicato addossando proprio alla separazione tra etica e politica la responsabilità principale del mondo ingiusto e violento che è davanti ai nostri occhi.
Il tema non è nuovo, ma oggi indubbiamente rischia di prendere una piega drammatica, suscettibile di mettere in discussione alcuni cardini della politica occidentale. Il tema, dunque, come chiede lo stesso fondatore di Emergency, merita un dibattito ampio, serio e molto franco. Mi sia permesso, allora, di richiamare un piccolo saggio di un grande filosofo tedesco, Immanuel Kant, "Per la pace perpetua. Un progetto filosofico" (Editori Riuniti, Roma 1997, prefazione di Norberto Bobbio, a cura di Nicolao Merker).

Il progetto kantiano di pace perpetua prende forma nell’estate del 1795, all’indomani della Pace di Basilea che sancisce il riconoscimento della Francia repubblicana da parte della Prussia. All’elaborazione del progetto, quindi, non sono estranee le speranze di pacificazione e fratellanza universale fiorite sulla scia dei successi della rivoluzione giacobina. In questa temperie storica Kant fonda il pacifismo giuridico moderno e apre la strada, nel contempo, al pacifismo democratico che si svilupperà nel secolo successivo. Kant, infatti, affida alla istituzione di una comunità giuridica fra gli Stati il superamento di quell’anarchia internazionale che è la causa prima delle guerre. Ma vincola questo processo a una clausola democratica, che esige la trasformazione degli Stati dispotici in Stati ispirati al principio della separazione e limitazione dei poteri (o “repubbliche”).

Il fondamento ultimo della posizione kantiana è la condanna della guerra da parte della ragione moralmente legislatrice, il suo categorico imperativo di considerare la pace come un dovere immediato. La storia dei popoli dimostra, tuttavia, che tale dovere può entrare in rotta di collisione con le regole della prudenza politica e della ragione di Stato. Ebbene: la risposta che il filosofo tedesco dà a questo problema rappresenta, come afferma Norberto Bobbio, “una delle più rigorose e coerenti teorie della subordinazione della politica alla morale, ovvero della impossibilità di introdurre una qualsiasi distinzione tra politica e morale”.

Il buon politico kantiano è pertanto colui che agisce mosso dalla consapevolezza di un dovere, non da solo calcolo di utilità. È colui che privilegia i principi rispetto ai fini. Tra chi (come Sant’Agostino o Erasmo da Rotterdam) dissolve la politica nella morale, e chi (come Hobbes o Hegel) dissolve la morale nella politica, il punto di vista di Kant è del tutto originale. Esso riconosce l’esistenza di ambedue le sfere, e ritiene però che solo il politico che si sottopone a un imperativo etico è un politico efficace, soprattutto rispetto al perseguimento di fini ultimi come quelli della civilizzazione e della pace, ovvero dell’assicurazione a tutti gli individui di una condizione stabile di sicurezza.

Questo paradigma sarà rovesciato poco più di un secolo dopo da un altro insigne pensatore tedesco, Max Weber. Per Weber la dimensione dell’agire politico e quella dell’agire morale sono radicalmente alternative. Nella prima conta esclusivamente la valutazione delle conseguenze delle azioni (“etica della responsabilità”), nella seconda esse sono giudicate in base alle intenzioni, indipendentemente dal loro esito pratico (“etica della convinzione”). E a segnare la sostanziale incompatibilità tra i due ordinamenti normativi provvede il ruolo della violenza. Essa, secondo Weber, è l’essenza stessa della politica (“La politica come professione”, in "Il lavoro intellettuale come professione", Einaudi, Torino 1976).

Kant, in conclusione, assume la pace come valore costitutivo della politica, laddove Weber vede la forza coma suo elemento consustanziale. E il Novecento, sotto questo profilo, è stato sicuramente un secolo “weberiano”. Ora, quali sono le radici della rottura avvenuta tra il momento in cui Kant ha sintetizzato il punto più alto dello sviluppo del razionalismo illuministico nel proprio progetto di pace perpetua, e il momento in cui Weber deve prendere atto con disincanto, alla soglia del secolo scorso, della natura della politica e della sua irriducibilità ai dettami dell’ordinamento morale?

Marco Revelli ci ha proposto non molto tempo addietro ("Le due destre", Bollati Boringhieri, Torino 1996) una linea interpretativa di questi dilemmi che a me pare di viva attualità. Una linea interpretativa che mette l’accento, in particolare, sui processi - economici, sociali e culturali – che hanno portato ad una frammentazione dell’unità del genere umano in una pluralità di organismi nazionali tra loro separati e conflittuali. E che hanno portato a una riduzione della politica all’universo delle azioni “strumentali”, garantite nei loro risultati, in ultima istanza, dall’impiego della forza come mezzo obbligato.

Non è allora ingenuo e privo di senso riflettere sulla lezione kantiana oggi, in una situazione in cui Bush e Blair cercano di stabilire un nesso necessario tra la difesa dei valori democratici e la guerra contro l’Iraq. Questo nesso fa acqua da tutte le parti. Perché, come ha messo in evidenza Massimo L. Salvatori (La Repubblica, 16 Settembre 2002), la lista dei paesi oggetto della “guerra morale” dovrebbe allungarsi a dismisura, e non potrebbe limitarsi all’Iraq. E perché, adottato con coerenza questo tipo di logica, che mescola confusamente, appunto, etica della responsabilità e etica della convinzione, ne verrebbero il caos e la catastrofe mondiale.

In realtà, ha ragione Massimo L. Salvatori, l’ideologia universalistica della guerra per la moralità e la democrazia altro non è se non la copertura di uno specifico obiettivo strategico: l’abbattimento del regime di Saddam finalizzato ad un disegno di nuovi equilibri nella decisiva regione medio-orientale, che USA e Inghilterra ritengono di poter ottenere con un intervento militare chirurgico.

Ora, anche ammesso che il fine giustifichi i mezzi, chi giustifica il fine? Quali sono, inoltre, i criteri che consentono di distinguere i fini buoni dai fini cattivi? Non è lecito domandarsi, ancora, se i mezzi cattivi possano corrompere fini buoni?

La politica e la cultura italiana si sono divise nella risposta a questi vecchi ma ineludibili interrogativi di Norberto Bobbio, schierandosi chi nelle file del pacifismo etico o istituzionale, chi in quelle dei seguaci e degli ammiratori del realismo weberiano. È già accaduto nel 1991, durante la guerra del Golfo e, più recentemente, nel corso dell’impegno armato dell’Alleanza atlantica in Serbia. Ma resta una contraddizione di fondo, destinata ad acuirsi. Per un verso, infatti, sul finire del passato millennio è emersa una nuova coscienza collettiva, sebbene ancora in modo lento e tortuoso, che non tollera la violazione dei diritti umani fondamentali. Per un altro verso,l’”ingerenza umanitaria” si svolge il più delle volte sotto il cielo dell’arbitrio. Anzi l’arbitrio, nella dottrina dell’attuale amministrazione americana, viene teorizzato come coessenziale alla funzione planetaria degli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo.

È accettabile questa rovinosa prospettiva dalla sinistra europea (e italiana)? Il terreno principale dello scontro non è oggi, al contrario, proprio quello di “globalizzare la giustizia locale”, stabilendo una sovranità superiore? L’ONU non è certo nemmeno l’embrione di un governo “kantianamente” universale. Somiglia spesso alla venerabile Società delle Nazioni, paralizzata dai veti incrociati delle grandi potenze.

Ma dalla constatazione di questa impasse non si può concludere che la sola cosa che si può fare è quella di sostituire la legittimazione mondiale che non c’è, e nella perdurante assenza sulla scena internazionale di un forte soggetto politico europeo, con il potere assicurato dall’imperatore.

In ogni caso, come Norberto Bobbio, so “che se anche tutti i contadini del mondo si unissero per far piovere, la pioggia, qualora cadesse, non dipenderebbe dalle loro invocazioni. Non ho dubbi, invece, che se tutti i cittadini del mondo partecipassero ad una marcia della pace, la guerra sarebbe destinata a sparire dalla faccia della terra”.

Martedì, 3. Settembre 2002
 

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