La quarta settimana e la mobilità sociale - Vittorio De Candia

La questione dei bassi salari non provoca solo difficoltà immediate, ma si ripercuote inevitabilmente sul modo di essere nella società - Incidenti sul lavoro, ormai non li sappiamo contare e orribilmente rischiamo di assuefarci, come se il sacrificio di troppe vite fosse uno spettacolo inevitabile
La quarta settimana e la mobilità sociale
 
La campagna elettorale in corso trova uno dei suoi temi nella questione salariale: alle iniziative del sindacato, quali la raccolta firme di CGIL, CISL e UIL rispondono le prese di posizione delle forze politiche (più il centrosinistra che il centrodestra, a dire il vero), che riconoscono il problema  e si propongono quindi di affrontarlo qualora vincessero le elezioni.
Al di là però della constatazione generale che non è bene che stipendi e salari siano troppo bassi, perché alla fine la domanda aggregata ne risente e quindi l'economia ne soffre, mi pare però che nessuno ponga mente a una considerazione più strettamente politica, che attiene direttamente ai diritti di cittadinanza.
Mi spiego. Se una famiglia ha difficoltà col suo reddito a soddisfare i bisogni primari (reali o indotti dalla società, qui non interessa approfondire), certamente non impegnerà parte delle sue risorse in impegni che ritiene non prioritari: tra questi ovviamente rientrano i cosiddetti consumi culturali (libri, teatro, cinema, musica, ecc.), perlomeno quelli di un certo tipo che non sono considerati necessari per restare al passo con la società. Inoltre, si farà fatica a far studiare per un tempo prolungato i figli, ben sapendo che dopo le scuole e l'università essi comunque saranno a carico o quasi, grazie alla precarietà lavorativa diffusa, ancora per un certo numero di anni.

Tutto questo porta coloro che sono nati in famiglie meno abbienti a condizioni di svantaggio sia nel corso del loro curriculum formativo, sia nella carriera lavorativa: ci sono ben precisi dati in proposito da parti dei vari istituti di ricerca (ISTAT, CENSIS fra gli altri) che dicono come la mobilità sociale in Italia sia ormai molto bassa; come crescano le disuguaglianze in termini di conoscenze tra ricchi, meno ricchi e poveri; come infine questi ultimi, pur magari essendo "capaci e meritevoli" non riescano a sviluppare le capacità, ne' a far valere il merito anche a causa di preparazioni culturali povere e imperfette, condannando (se nulla cambierà) non solo se stessi ma anche i loro figli a ruoli subalterni, imposti oltretutto dalla difficoltà, dovuta a questa povertà culturale, di potere decifrare e giudicare la valanga di messaggi spesso frammentari, contraddittori e codificati che i mezzi di comunicazione riversano tutti i giorni sulle nostre teste e nelle nostre orecchie.

In poche parole: queste persone non riusciranno ad essere cittadini a pieno titolo, perché non in grado di essere consapevoli del loro presente, dei loro diritti e doveri, del loro futuro. I bassi redditi non sono solo, in definitiva, una causa di sacrifici economici, ma anche un mezzo per creare inaccettabili disparità sociali.
Tutto ciò, che è una vera emergenza democratica e sociale, è o dovrebbe essere già noto da tempo; viene quindi da chiedersi (domanda retorica?) perché non appaia mai nella discussione politica. D'altronde, proprio per quanto si è detto sopra, i cittadini che vengono così declassati non sono in grado di far sentire la loro voce, vuoi perché non si rendono conto della situazione, vuoi perché non hanno spazi e luoghi per farsi sentire ne' spesso sono in condizione di trovarli o di crearli. Credo che dar voce e sostenere un cambiamento dello stato di cose sia un compito grave, che in questa situazione spetta (vista l'inerzia dei partiti) alle organizzazioni dei cittadini, ai "corpi intermedi" della società. Attendiamo che qualcuno batta un colpo.

Maurilio Menegaldo

 
Si chiamava Vittorio De Candia 
 
Ormai non li sappiamo contare e orribilmente rischiamo di assuefarci, come se il sacrificio di troppe vite fosse uno spettacolo inevitabile, naturale e fisiologico. E combattiamo per allontanare dalle nostre giornate il pensiero delle famiglie spezzate, dei figli e delle mogli abbandonate a uno strazio presto inghiottito dai silenzi della cronaca o dall’inerzia delle istituzioni.

 

Il lavoro è diventato una merce che costa sempre meno. Per risparmiare, la globalizzazione ha messo in concorrenza un miliardo e mezzo di lavoratori del pianeta che talvolta sembrano aver fatto proprio il punto di vista peggiore delle imprese: le norme contro gli infortuni sono un intoppo burocratico, una perdita di tempo, un aggravio dei costi. Se giri dalle nostre parti nei cantieri edili, lo senti ripetere come buongiorno e buonasera.

 

Le imprese lasciate libere di guidare il lavoro da sole, credono di migliorare la loro efficienza e competitività con anni di predicata e praticata deregulation. Ma è davvero moderna un’azienda dove gli imprenditori si adoperano per far star sempre peggio i lavoratori, non sapendo innovare e dove altro risparmiare? E’ moderno un paese dove si nasce a Bisceglie, si emigra a Reggio Emilia, si prende il lavoro in subappalto da una ditta di Biella e si precipita a None dal tetto dello stabilimento di una multinazionale della logistica?

 
Sono loro, le multinazionali, non il destino cinico e baro ad aver distrutto il valore del lavoro. Loro lo hanno polverizzato, non la mano invisibile e neutra del mercato. Loro lo hanno costretto a prendere la forma di una finta imprenditorialità che è maschera beffarda di una condizione di estrema debolezza contrattuale che ti illude di essere libero, ma in realtà ti condanna a subire ricatti sempre più pesanti.

 

I lavoratori oscillano tormentati. Quando le cose vanno bene, ignorano i sindacati e i loro attivisti. Quando le cose vanno male, li vorrebbero onnipresenti e dotati di grandi poteri di intervento. Molti imprenditori vedono i sindacati come cani in chiesa, ma li cercano per trattare la cassa integrazione o la mobilità in caso di crisi aziendale. Ne hanno bisogno e non li vogliono. La coalizione di questa schizofrenia parallela è all’origine della tragedia che viviamo. Nel 1980 un mio amico parlava di apocalisse operaia.

 

Vorrei ci venissero risparmiate le lacrime ipocrite di quei politici che, specie a destra, ieri inneggiavano alla deregulation e oggi invocano in Tv più severità nei controlli ispettivi sui posti di lavoro.
 
Mario Dellacqua

Sabato, 23. Febbraio 2008
 

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