Le circostanze di fatto ed i dibattiti a livello europeo mi spingono a ritornare sull'ormai sfinito cavallo di battaglia della programmazione.
Stiamo assistendo nell'arco temporale comunque limitato del governo Monti a situazioni decisamente paradossali. In un mondo politico affetto da gravi miopie (ma stando alle ultime notizie meno a Bruxelles che a Berlino e meno a Roma che ad Arcore) fioriscono piani e scelte di politica economica che hanno la caratteristica di poter esercitare i propri effetti, non tutti necessariamente positivi, nel periodo medio-lungo. L'elenco è nutrito: val la pena di ripercorrerlo brevemente perchè l'affastellarsi di notizie, conferenze stampa, proclami e commenti potrebbe aver fatto perdere il filo d'Arianna anche all'opinione pubblica più attenta.
Potremmo cominciare con la riforma del mercato del lavoro e la concomitante scoperta degli "esodati". Secondo la ministra l'efficacia della manovra si esplicherà "nel tempo" accompagnata da un "attento monitoraggio" e da "rettifiche in corso d'opera". Un discorso analogo vale per il piano energetico. Gli incentivi alle energie rinnovabili stanno avendo efficacia in un periodo relativamente breve, come dimostrato non solo dal ruolo preminente del fotovoltaico, ma soprattutto dal sorgere di un filone molto innovativo nella fabbricazione dei pannelli. Però i nuovi provvedimenti relativi ai rigassificatori, al ciclo rifiuti organici/biocombustibili per la produzione di energia elettrica e calore, nonché alle perforazioni petrolifere sotto costa in Adriatico richiederanno qualche anno per esplicare i propri effetti. Continuiamo la nostra rassegna citando l'aumento delle facilitazioni fiscali per ristrutturazioni abitative (rivisitazione del berlusconiano Piano Case, a suo tempo fallito). Dato e non supposto che esse esercitino un forte impulso nei confronti del settore edilizio, saranno necessari anni per valutarne la portata ed anche controlli rigorosi per evitare scempi ambientali.
A livello europeo e nazionale si continua a parlare di potenziamento del piano infrastrutture, riesumando fantasmi di perdute pianificazioni, con delibere CIPE rimaste lettera morta. Ancora una volta si tratta di programmazione a medio-lungo termine. Considerazioni analoghe valgono per i piani di dismissioni (o, con terminologia più ambigua, di valorizzazione) delle unità immobiliari pubbliche, con creazione di società veicolo. Sorge immediato il penoso ricordo del fallimento clamoroso dei tremontiani SCIP 1 e 2, la cui società veicolo era (udite! udite!) di diritto olandese. Speriamo bene: ma anche questa operazione si svolgerà in un arco temporale non brevissimo.
Il moltiplicarsi di piani da parte di un governo che per le sue parziali radici neo-liberiste e per la brevità della vita politica che gli è stata fissata dovrebbe essere il più lontano da questo strumento metodologico pone due interrogativi e porta ad una proposta che nel linguaggio che sta divenendo usuale definiremmo "provocatoria".
Il primo interrogativo è il seguente: perchè nel quadro di un modello moderatamente liberista (come dimostrerebbe la fiducia nelle liberalizzazioni, nelle semplificazioni, nella sburocratizzazione, nello snellimento della P.A. tramite il delicato strumento chirurgico della spending review) questo governo produce di fatto a gettito continuo piani di intervento, non privi almeno formalmente di una struttura organica, i cui effetti non potranno che verificarsi ben oltre le sue più ottimistiche previsioni di durata? A chi - come me - è sempre stata sostenitrice della tesi secondo la quale l'attività sia pubblica che privata per essere efficace deve svolgersi con un'accurata programmazione, la risposta al quesito è immediata. Perchè se si vuole che il governo del sistema economico non consista in una sequenza di spot massmediatici, ma in un'azione volta a modificare e migliorare le tendenze naturali di un mercato sempre più capriccioso e inaffidabile, non è possibile fare altrimenti. Paradossalmente chi fosse contrario alla programmazione dovrebbe ricorrere ad essa per smantellarla.....
Il secondo interrogativo è più complesso. La sensazione che comunicano i Piani dei singoli dicasteri (ai quali potremmo aggiungere quelli della sanità, della scuola, della difesa, etc.) è che non appare chiara la loro interdipendenza e quindi il loro inserimento come tasselli di un disegno di programmazione globale. Può darsi che ciò sia voluto e che dipenda dalla opportunità di non acuire la conflittualità metodologica fra i due Atlanti che sorreggono il fragile mondo bocconiano. Non si può sfuggire però alla constatazione che ciò costituisce una limitazione grave. Vi pare possibile che un bravo designer di interni elabori le sue creazioni prescindendo dalla struttura abitativa di riferimento (una villa nel verde? Un panfilo? Un attico cittadino?). In assenza di un piano globale quelli settoriali - oltre tutto probabilmente non sincroni - al cessare del governo politico da cui sono stati elaborati potrebbero crollare come un castello di carte.
Giungiamo dunque alla proposta conclusiva. I grandi Piani nazionali che hanno avuto uno straordinario successo sono stati contemporanei o successivi agli anni del boom. La loro principale caratteristica è consistita nella sostanziale continuità della classe politica, al di là di quell'apparentemente rapido mutare dei governi, che ha indotto commentatori superficiali di questa generazione a cianciare di gestione caotica del potere. La programmazione, dopo i vivacissimi dibattiti iniziali, faceva capo a strutture tecnico-politiche abbastanza durevoli alla cui operatività parlamentare partecipava attivamente l'opposizione comunista. In quel periodo i tre quarti della legislazione di politica economica venne approvata da maggioranze di tipo definito "consociativo". Già nei primi anni del dopoguerra il Paese trasse grandi benefici dal Piano Sinigaglia, che gettò le basi della siderurgia italiana, dalle ristrutturazioni dell'intera rete ferroviaria (che dopo mezzo secolo è rimasta immutata o è diminuita, a parte le tratte della grande velocità). Si sono poi succeduti il Piano energetico nazionale, le grandi infrastrutture viarie, come l'Autostrada del Sole e la Roma-L'Aquila e quel Piano sanitario nazionale che, al di là della mala gestione di singoli comparti, colloca tuttora la sanità italiana, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, al secondo posto nel mondo.
L'efficacia della programmazione è dunque condizionata dalla continuità operativa. Gli stop and go, le modifiche in corso d'opera, le inversioni di tendenza allontanano gli obiettivi in un tempo indefinito. Abbiamo ricordato altra volta le "incompiute": la Salerno-Reggio Calabria, gli ospedali non fruibili, le scuole non completate, gli aeroporti abbandonati. L'avvento, dopo il sodalizio competitivo, del bipolarismo pugnace accompagnato dal localismo campanilistico, hanno creato una frattura negativa tra la gestione politica e quella tecnico-amministrativa degli interventi programmatori. La lunga stagione berlusconiana, pur dominata da una maggioranza più predona che padrona, ha fatto regredire la programmazione di film di classe C, con sempre minori agganci con la realtà e stupefacenti alternanze decisionali. La dirigenza amministrativa ha assistito con sgomento agli scontri più o meno epici fra Brunetta e Tremonti.
All'epoca della continuità della classe dirigente, la soluzione ai problemi qui indicati era stata trovata in una delega del potere di promozione e di controllo ai cosiddetti "Grand Commis": la burocrazia infatti non aveva ancora conosciuto, proprio per il lungo regno democristiano, la brutalità dell'attuale spoil system. In un sistema che sembra bipolare ma è in realtà multipolare, con partiti liquidi e spinte movimentiste, paradossalmente è ancora maggiore l'esigenza di un organismo tecnico di alta qualità e indipendenza che scandisca le tappe di attuazione dei programmi concordati, ne corregga le deficienze al mutare di variabili esterne, ne controlli rigorosamente la tempistica ed eviti i turbamenti corruttivi. Un'indicazione in questo senso sembra emergere, a livello di Ue, nelle nuove funzioni attribuite alla Bce per la programmazione della politica monetaria. Questo organismo potrebbe essere incardinato in un ministero o godere della piena autonomia di una authority; appare dunque l'unica soluzione atta ad evitare sperperi di risorse e tempi biblici nella realizzazione delle opere.
Non vorrei che questa proposta si presti ad equivoci interpretativi. Non si tratta di affidare ad un pugno di tecnici le scelte programmatiche: gli obiettivi e in larga misura gli strumenti vanno decisi dalla politica. Con un'avvertenza però: nelle conferenze dei servizi, nell'appello alla pubblica opinione e nelle votazioni referendarie i partecipanti debbono avere non solo uguali informazioni, ma anche analoghe capacità di comprendere correttamente le implicazioni delle scelte in termini di costi e benefici. Si potrebbe obiettare che il ruolo dell'organismo da noi ipotizzato genera automatismi e rende più difficili i mutamenti. Questa è, semmai, un'argomentazione a favore di un'attenta ponderazione iniziale, evitando quelle soluzioni che per la loro radicalità estremistica finirebbero per essere abrogate all'alternarsi della classe politica al governo. Occorre osservare che nei Paesi a democrazia compiuta, una volta individuate le scelte supportate da un largo consenso (quali la fiscalità redistributiva o il ruolo del settore pubblico come stimolo allo sviluppo) le soluzioni tecniche sono di fatto vincolate dalle scadenze temporali e dalle risorse disponibili.