La povertà non dev'essere un destino

Gli ultimi dati Istat ci dicono che 2.600.000 famiglie, oltre sette milioni e mezzo di persone, sono indigenti e che il numero è lo stesso di quattro anni fa, il che significa che la mobilità sociale è bloccata. Le forze di centro sinistra non possono eludere questo problema

Che dire degli ultimi dati sulla “povertà relativa” che l’Istat, dopo un ingiustificato letargo, ha finalmente deciso di tornare a misurare? La prima cosa da rilevare è che i poveri stanno fuori dalla “moda” politica. Al punto che, malgrado qualche marginale eccezione, non costituiscono argomento di dibattito pubblico. Infatti i dati Istat sono passati come acqua fresca. Nell’indifferenza pressoché generale. Le spiegazioni per questa afasia possono essere varie. Stando allo spazio che giornali e televisioni dedicano al cibo, alla tavola, alle regole alimentari, alla cura del corpo, sono indotto a pensare che la maggioranza degli italiani ritengano che la nostra sia ormai diventata la “società della dieta”. Purtroppo però anche nella “società della dieta” restano molti, troppi quelli che hanno fame. Tuttavia, essi non fanno notizia. Come mai?


A mio avviso, stiamo scontando il fatto che negli ultimi decenni si è verificato un significativo cambiamento culturale e politico nell’approccio alla questione della “giustizia sociale”. Mi riferisco in particolare: alla crescente espansione dell’individualismo, con il conseguente affievolirsi della determinazione a tradurre in azione politica il valore della solidarietà; al fascino esercitato dalle ricette “liberiste” su una parte consistente della cultura e degli uomini politici; alla crescente attenzione verso i ceti medi, motivata dal timore di perderne il consenso; all’aumento delle disuguaglianze in molti paesi (a cominciare dagli Stati Uniti), generalmente interpretato dalla vulgata mediatica come un indicatore di dinamismo economico e sociale e, dunque, un fattore di successo. Mentre esso era soprattutto l’effetto di spregiudicate ed arrembanti speculazioni finanziarie e di un grave affievolimento dell’etica pubblica. Come, del resto, hanno confermato i numerosi scandali societari degli ultimi anni. C’è poi da considerare una ragione antropologica. In una società che esalta i consumi superflui, il successo, la notorietà effimera, che antepone l’apparire all’essere, la povertà e la fame tendono ad essere nascoste. Persino da chi è costretto a subirle. Questo probabilmente spiega (anche se non giustifica affatto) perché la povertà non riesce ad assumere rilievo politico. Il risultato, comunque, è che essa non è percepita come un problema che riguardi l’intera società. Ma è considerato, di fatto, un problema dei poveri.

La conferma ci viene appunto dal rapporto Istat sulla “povertà relativa” in Italia nel 2006. L’istituto centrale di statistica ci dice infatti che dal 2002 (cioè da quattro anni) i numeri della povertà “sono rimasti sostanzialmente uguali, così come sono rimaste immutate le principali caratteristiche  delle famiglie in condizioni di povertà”. Tradotto significa che i poveri sono rimasti poveri. Significa anche che, sfrondate tutte le chiacchiere inutili, in Italia non esiste alcuna mobilità sociale. Il dato è particolarmente allarmante. Perché vuol dire che la povertà non è più una condizione nella quale si può cadere (in rapporto alle circostanze della vita), ma dalla quale si può anche uscire (aiutati da efficaci politiche di contrasto). Essa si è infatti tramutata in una sorta di “destino”. Un destino segnato dal luogo in cui si nasce, dalla famiglia a cui si appartiene, dal gruppo sociale da cui si proviene.


La constatazione è assai preoccupante e sembrerebbe lecito attendersi una appropriata reazione. Anche per la buona ragione che non stiamo parlando di un gruppetto limitato di persone. Parliamo invece di 2.623.000 famiglie. Vale a dire l’11,1 di qulle residenti. Parliamo di oltre sette milioni e mezzo di persone. Per l’esattezza 7.537.000, pari al 12,9 per cento dell’intera popolazione. Ad esse occorre poi aggiungere che quasi altri due milioni di famiglie sono in condizioni di indigenza (e comunque di grandissima difficoltà economica), perché si trovano immediatamente al di sopra della linea che stabilisce la soglia di povertà. Stiamo quindi  parlando di una quota rilevante di popolazione. Una massa enorme di persone che si aggira per i discount ed i mercati rionali cercando di risparmiare sul cibo, sul vestiario. Questa peregrinazione però non basta. Comunque non risolve. Infatti, malgrado tutti gli accorgimenti, esse fanno  sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese. Anche quando dispongono di un salario, oppure di una pensione. L’aspetto che colpisce è che, a differenza dei benestanti che in prevalenza amano mostrarsi in pubblico e dire la loro su tutto (inclusi gli argomenti di cui sanno e capiscono poco) questi sette milioni e mezzo di persone costituiscono per la stragrande maggioranza dei casi un esercito discreto, silenzioso. Perché? Per pudore? Per vergogna? In parte si. Ma probabilmente anche perché hanno la chiara percezione di essere un esercito che non dispone di ufficiali e comandanti e perciò si ritengono, non immotivatamente, del tutto abbandonati a sé stessi. Per di più sono senza strumenti, senza armi efficaci con cui combattere. Non è certo un caso se televisioni e giornali si disinteressano di loro.

Personalmente sono convinto che per correggere una situazione sociale sempre più degradata è necessario avviare una riflessione critica su alcuni aspetti della cultura politica. A cominciare da quella del centrosinistra. In particolare su due questioni cruciali. La prima riguarda il fatto che le politiche sociali del centrosinistra, di norma, si fondano sul principio dell’universalismo. Vale a dire sul convincimento che diritti, protezioni, sostegni, debbano essere ugualmente riconosciuti a tutti. Indipendentemente dalle differenti condizioni materiali in cui ciascuno si trova effettivamente. Si dovrebbe invece incominciare a riconoscere che fino a quando si immaginava che la crescita e la ricchezza fossero praticamente illimitate, questo approccio ai problemi sociali poteva anche avere un senso. Mentre ora non ne ha affatto. In particolare in Italia, in un quadro di risorse limitate (considerati la dimensione del debito pubblico ed il costo del servizio sul debito) l’efficacia delle politiche sociali dipende strettamente dalla capacità di stabilire un rapporto equilibrato ed accettabile tra “universalismo” e “selettività”.


Il caso di della povertà lo richiede in modo assolutamente evidente. Le situazioni di “povertà relativa” comprendono infatti coloro che non ce la fanno, o fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, assieme a quanti sono in condizioni di “povertà assoluta”. Vale a dire tutti coloro che autonomamente non dispongono di un paniere minimo di beni e servizi ritenuti indispensabili per la sopravvivenza. Ad essi debbono infine essere aggiunti quanti si trovano in situazione di “povertà estrema”. Come i senza tetto ed i senza tutto. Trattandosi di situazioni tra di loro assai diverse è evidente che le politiche, la strumentazione ed i soggetti da coinvolgere negli interventi, per risultare efficaci, non possono che essere a loro volta diversificati. Perciò la stella polare di ogni concreta politica di contrasto alla povertà non può essere che quella dell’ “universalismo con selettività”. Che significa: “alcuni diritti devono essere riconosciuti a tutti, mentre ci deve essere selettività nelle politiche di sostegno”, in relazione alla diversità dei bisogni.

La seconda riguarda la politica fiscale. Negli ultimi tempi, della riduzione delle tasse si discute molto. A tenere viva la discussione contribuiscono non poco i disinvolti lamenti e le reiterate grida di angoscia degli elusori ed evasori. Il fatto che colpisce però è che anche una parte consistente del centrosinistra si dichiari favorevole ad una riduzione “indiscriminata” delle imposte.  Le spiegazioni per questa anomalia possono essere diverse. Probabilmente pesa una attrazione per discutibili congetture di politica economica, oppure un intenerimento per gli strilli ed i piagnistei, o infine un banale calcolo elettorale. C’è infatti chi ritiene, non del tutto a torto, che i ricchi sentono assai più dei poveri le ingiustizie di cui si credono vittime. E la loro capacità di indignazione non conosce limiti. Sicché anche un discreto numero di politici del centrosinistra è diventato non insensibile a questo aspetto.


Bisogna fare attenzione però. Soprattutto avere bene presenti le conseguenze delle proprie scelte. Assecondare le pretese dei benestanti equivale a sbarrare la strada per ogni vera azione di contrasto della povertà. Le spiegazioni sono persino banali. La prima è che lotta alla povertà richiede risorse. Se si esonerano i ricchi chi la dovrebbe finanziare? I poveri? Sarebbe un modo come un altro per rendere esplicito che la lotta alla povertà non viene considerata una urgenza e soprattutto una necessità. La seconda  è che una riduzione indiscriminata delle imposte aumenta anziché diminuire le disuguaglianze. Che, come quasi tutti sanno, è invece la condizione per contrastare la povertà. Queste considerazioni non debbono tuttavia oscurare un aspetto della politica fiscale che è invece cruciale nella lotta alla povertà. Mi riferisco alla necessità di ridurre il prelievo sul reddito fisso (salari e pensioni); sia per ridurre l’ingiustificata ed abnorme differenza di detrazioni riconosciuta al reddito fisso rispetto a tutti gli altri redditi, sia per attenuare il rischio e le situazioni di effettiva povertà che coinvolgono una parte non marginale di lavoratori dipendenti e pensionati.
In conclusione non posso fare altro che limitarmi ad un auspicio. L’auspicio è che le forze di centrosinistra (si tratti di quelle impegnate nella nascita di un nuovo partito, oppure di quelle orientate alla unificazione di partiti esistenti, o infine di quelle alla ricerca di una loro rifondazione)  riescano a trovare il tempo e soprattutto la voglia per una riconsiderazione critica della propria proposta politica. In modo da ricostruire la speranza che si riesca finalmente a porre su basi  concrete l’azione di contrasto alla povertà.
Lunedì, 8. Ottobre 2007
 

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