La povertà delle nazioni

Crisi finanziaria, crisi economica e crisi alimentare: la crisi della fame investe un numero sempre maggiore di paesi. L'Onu calcola che l'aumento dei prezzi del cibo ha gettato nella povertà altri 100 milioni di persone e per il presidente della Banca Mondiale sono ormai 36 i paesi a rischio di "sollevazioni sociali" per questo motivo

Le crisi che, cumulandosi, pesano sul mondo sono molteplici. Quella economica, che nasce in America e si ripercuote dovunque. Quella politica e culturale di un’egemonia americana che si va sgretolando, grazie alla catastrofica presidenza di Bush, sotto ogni risvolto, compreso quello tradizionale militare tenuto in scacco dalle tecnologie più povere e dalle volontà (se volete, dalla fede e dal fanatismo) di chi resiste. Sopravvive – e, certo, non è poco – il dominio pervasivo dei serial televisivi: se andate su SKY, sulla RAI, su qualunque emittente locale o nazionale, nove produzioni su dieci sono statunitensi, modello Hollywood. E fanno cultura di massa.

E, poi, c’è la crisi di cui per ora si parla, forse, di meno ma che si va avviando a pesare sempre di più. La crisi della produzione alimentare: la fame che si allarga nel mondo. L’UNESCO, l’organismo dell’ONU per l’educazione, la scienza e la cultura, lanciando il primo di una serie di allerta angosciati che si stanno facendo angoscianti, dice che “se la comunità internazionale vuole mettersi in grado di fare i conti con i nodi di una popolazione in aumento a livello mondiale e dell’incombente cambiamento climatico, evitando frammentazione sociale e un irreversibile deterioramento dell’ambiente, allora l’agricoltura moderna dovrà radicalmente cambiare” (New York Times, 16.4.2008, S. Erlanger, U.N. Panel Urges Changes to Feed Poor While Saving Environment - Gruppo di esperti ONU sollecita cambiamenti profondi necessari per nutrire i poveri e salvare l’ambiente).

il succo di un rapporto importante steso da 400 esperti di tutti i paesi, sotto il coordinamento di Salvatore Arico, studioso italiano specialista delle biodiversità. In generale, sottolinea quello che le Borse hanno segnalato mese per mese gradualmente ma che ormai è esploso: nei paesi in via di sviluppo, il prezzo dei prodotti alimentari rappresenta oggi dal 60 all’80% della spesa per consumi: un costo che ne schiaccia ogni prospettiva, appunto, di sviluppo.

I paesi ricchi del mondo, noi, siamo squassati dalla crisi finanziaria, questi dall’allargamento della fame globale imposta dai prezzi delle derrate agricole. Da noi, per ora, si fa più scarsa la liquidità, calano investimenti e consumi e alza la testa un più di inflazione. Ma, nel cosiddetto Terzo mondo, incombe già un sovrappiù di affamamento. Certo, Cina e India mangiano di più e meglio ma larghissima parte dell’Africa nera, una bella fetta d’America latina e le steppe non russe dell’Asia centrale stanno davvero facendo la fame (Guardian, 15.4.2008, G. Monbiot, Credit crisis? The real crisis is global hunger. And, if you care, eat less meat - Crisi del credito? Ma la crisi vera è la fame globale. E se vi preoccupa, mangiate meno carne).

Tre, sintetizza tra gli altri Krugman (New York Times, 7.4.2008, P. Krugman, Grains Gone Wild -  Il grano che va male), sono i colpevoli: una domanda di beni alimentari che cresce, dicevamo (cinesi e indiani, appunto, con redditi e esigenze in aumento, si mettono a mangiare di più e, addirittura, a mangiare carne anche loro); il cambiamento climatico, che abbiamo lasciato scavallare senza mettergli briglie, va inaridendo aree del pianeta (produttive una volta) o lo va flagellando con inondazioni e siccità; e il terzo fattore è lo sviamento di parte già non irrilevante della produzione agricola dalle derrate alimentari ai biocombustibili.

Stima il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick (The Economist, 19.4.2008), che sono già trentatre i paesi del mondo a rischio di “sollevazioni sociali” a causa proprio della crisi dovuta alla diversione di coltivazioni dalle derrate alimentari alla produzione di combustibili agricoli.

In sostanza, ed in sintesi,

• nel corso di quest’anno il prezzo delle derrate alimentari alla produzione è salito mediamente del 60%; quello del riso – l’alimento base di metà del mondo – del 68%; la soia costa oggi il 90% di più che nell’aprile 2007; grano, frumento e mais hanno registrato prezzi in crescita quasi del 140%;

• documenta la Banca mondiale che l’aumento di questi prezzi ha affondato nella povertà altri 100 milioni di esseri umani. In Europa occidentale, nei grandi paesi, aumenta in un anno la spesa per consumi alimentari, spropositatamente: in media, alla fine di quest’anno, a consumi uguali di una famiglia corrisponderà un costo maggiore dai 600 ai 900 euro;

• questa crisi è diversa, però, dalle altre recenti: infatti, stavolta, non sono colpite duramente solo, o quasi solo, le masse rurali ma anche le grandi masse urbane più povere;

• e, forse per la prima volta, è diversa, questa crisi, anche perché i dannati della terra e delle periferie urbane, se non altro grazie ai grandi mezzi di comunicazione di massa (anche i transistor all’orecchio dei mugiki delle steppe dell’Asia centrale), si rendono conto che questa non è la sorte loro destinata ineluttabilmente da un Dio vendicatore o dalla natura maligna;

• come già anni fa segnalava il premio Nobel indiano dell’economia, Amartya Sen (Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford University Press, 1983 - Povertà e carestie: un saggio su diritti e privazioni: mai tradotto in italiano), la carestia è una favola brutta: perché anche nel paese più affamato del mondo nessuno, in realtà, mai è morto e muore di fame se ha i soldi per comprare il cibo…; il libro di Sen, già nelle primissime righe, enuncia secca la tesi che poi dimostra nel libro: “La fame è caratteristica di una parte della popolazione che non ha da mangiare abbastanza. Non è mai una caratteristica della mancanza di cibo con cui sfamarsi”;

• anche le barriere all’export dei paesi poveri, erette a proteggere la produzione interna per ragioni talvolta protezionistiche o anche per assicurarsi riserve strategiche nazionali – i sussidi al cotone americano, la politica agricola europea – contribuiscono a tenere più bassi i prezzi, qui da noi; ma anche a mettere fuori mercato le produzioni dei tre quarti più poveri del mondo;

• nel breve termine, ha detto il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, ridestandosi dal suo consueto torpore, l’Organizzazione delle Nazioni Unite lancerà una task-force speciale con questo unico tema in agenda (UN NEws Center, 29.4.2008, Ban Ki-moon to lead task force to tackle global food crisis— Ban Ki-moon guiderà una task force per far fronte alla crisi alimentare globale (cfr. qui);

• e, intanto, da subito richiama quanti da anni hanno promesso di raddoppiare gli aiuti alimentari all’Africa (vi ricordate Tony Blair che, ai G-7 di tre e di due anni fa, andava in giro a far giurare gli altri sulla Bibbia che lo avrebbero fatto, come lo avrebbe fatto lui? e poi non fecero, in buona sostanza, niente…) a farlo davvero, subito, adesso, attraverso il programma alimentare mondiale della FAO;

• così come ricorda ai tanti che avevano giurato già vent’anni fa all’umanità tutta intera di aumentare i loro aiuti al Terzo mondo nell’ordine dello 0,7% del PIL che, quando è andata bene, sono restati fermi allo 0,1% - anche se trattandosi del tremebondo segretario dell’ONU non osa ricordar loro che l’impegno non lo avevano preso per compassione, carità, amore del prossimo; ma per mantenere l’ordine economico e sociale minimale necessario a garantire anche la loro pace;

• più a medio termine l’ONU, sempre attraverso la FAO, sembra voler incoraggiare (sembra perché Ban dice e non dice) i piccoli agricoltori dei paesi più poveri a liberarsi dalla dipendenza “eccessiva” dall’occidente che costa, in ogni senso, assai cara;

• bisognerà adottare, suggerisce, coltivazioni più estensive, in questi paesi, di certo; ma anche più intensive: magari tornando a concimi tradizionali invece che ai costosissimi concimi chimici di importazione. E passare, si capisce gradualmente, ad una produzione più volta a soddisfare i bisogni interni che un’esportazione resa comunque difficile dal protezionismo altrui che mette in condizioni di non competitività l’export agricolo;

• l’altra novità di questa crisi, per ora, è che avanza e colpisce davvero dovunque. Nei posti più impensati, anche. Negli Stati Uniti, certo non uno dei paesi più carenti di derrate alimentari nel mondo, la più grande delle catene di distribuzione, la Wal-Mart, annuncia che intende razionare la vendita di riso a due sacchetti da 20 libbre a persona per impedire alle scorte di volatilizzarsi… Un gran brutto segnale – anche se al momento forse esagerato – di allarme (Guardian, 23.4.2008, A. Clark, Spectre of food rationing hits US— Lo spettro del razionamento alimentare colpisce gli USA).

Chi scrive, modestissimamente, è convinto che prima o poi qualcuno di sufficientemente autorevole e sufficientemente credibile ritroverà il coraggio di strillare alto e forte che il re è nudo davvero… Che bisogna tornare, come spiegavano già i grandi filosofi morali e grandi economisti del ‘700 inglese – in primis proprio Adam Smith – a regolamentare  finanza ed economia ai fini del “bene comune”.

Il fatto è che speranze e condizioni di vita dei cittadini del mondo sono legate a filo doppio alle fortune e alle fisime di un sistema, quello monetario e finanziario, guidato dal sentito dire, dal chiacchiericcio, dal pettegolezzo e/o dalle cartomanti – oggi come quando, duemila anni fa, prima di decidere si consultavano gli aúguri: non è raro che il FMI, per dire, sbagli previsioni di crescita dal 100 al 200%... – il tutto condotto da specialisti-professionisti (si fa per dire) di Borsa  che hanno fatto una carriera – estremamente lucrosa – del gestire i soldi degli altri con l’etica tipica di chi è roulette-dipendente e la presunzione qualche poco spocchiosa degli onniscienti che dicono che bisogna lasciar fare al mercato.

Non era quel che insegnava Adam Smith: tutt’altro. Avrebbe dissentito ferocemente, checché ne dicano i suoi tardi epigoni e replicanti della scuola di Chicago. Per lui era insensato non dare regole al mercato e tanto più lasciare che il mercato le imponesse a se stesso. Non ci credeva proprio, Adam Smith, al neo-liberismo cui il mondo si è piegato dopo Milton Friedman, Ronald Reagan, Margaret Thatcher e… Silvio Berlusconi: i quattro cavalieri – di diversa portanza e importanza, si capisce – dell’Apocalisse dei giorni nostri. Lui non credeva alla deregulation (un mercato non regolato non potrà essere mai, neanche in tendenza, un libero mercato davvero) e non credeva all’autoregolamentazione. Impossibile, spiegava. Perché

“L’interesse dell’uomo d’affari, in qualsiasi particolare branca del commercio o dell’industria, è sempre in qualche aspetto differente e persino opposto a quello del pubblico. (Perché) è sempre suo interesse ampliare il mercato e ridurre la concorrenza… (la prima cosa, magari, anche utile per il pubblico) ma la seconda sempre contraria all’interesse pubblico…

    (Per questo) la proposta di ogni nuova legge o regolamentazione commerciale proveniente da questa classe dovrebbe sempre essere ascoltata con grande cautela e non dovrebbe mai essere adottata prima di lungo e attento esame, cioè considerata non soltanto con la più scrupolosa ma con la più sospettosa attenzione.

    Essa viene da una classe di persone il cui interesse non coincide mai esattamente con quello del pubblico, la quale ha generalmente interesse a ingannare e persino a opprimere il pubblico e la quale di fatto, in molte occasioni, l’ha ingannato e oppresso” (Teoria sulla Ricchezza delle Nazioni,  Opere Scelte 2006, ed. Il Sole 24 Ore, Libro Primo, cap. 11, p.393, ultimissime righe).

Mercoledì, 14. Maggio 2008
 

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