Devo confessare di avere aperto questo libro con pregiudizi - accentuati da una copertina che ritrae lAutrice alla sua scrivania, con aquila americana in brillanti sul colletto del tailleur dordinanza di segretaria di stato - che la lettura ha soltanto in parte dileguato. Soprattutto il sospetto di fornire al presidente eletto un insieme di consigli che non corrisponda al mandato per il cambiamento che ha ispirato la campagna elettorale di Barack Obama. In altre parole, un Memo in linea di continuità con la politica estera di Bill Clinton di cui la Albright è stata la principale artefice. Un rifiuto fin troppo scontato, ex post, delloperato di George W. Bush, tuttavia tale da eludere lesigenza di una radicale revisione critica imposta dal declino del potere degli Stati Uniti in relazione ad un mondo ormai multipolare - unanalisi da tempo anticipata da studiosi quali, ad esempio, David Calleo e Paul Kennedy, ma che ormai rischia, con qualche esagerazione, di entrare a far parte della conventional wisdom americana - che lestremismo presente soprattutto nel primo mandato di Bush, ha soltanto aggravato, rendendolo più visibile.
Prevedibilmente, il giudizio sulla politica del presidente uscente, opportunamente corredato da pesanti riferimenti alla sua dipendenza presso che totale da Richard Cheney, Donald Rumsfeld e Karl Rove (Condoleezza Rice non viene presa in considerazione, forse per solidarietà femminile), non potrebbe essere più spietato (cfr. in particolare pp. 13 - 19). Costituisce, invece, una piacevole sorpresa, uno degli aspetti più pregevoli del suo Memo, la capacità dellA. di contrapporvi una intelligente e persino generosa lettura alternativa del punto di vista e delle ragioni cattive, ma anche buone, di coloro che alla politica degli Stati Uniti tendono a contrapporsi. Ad esempio, lesposizione delle ragioni storiche riconosciute alla resistenza palestinese, nella loro contrapposizione alle politiche di Israele e di Washington (pp. 253 e sgg.), ancor più lanalisi della politica iraniana, con una significativa riabilitazione di Mossadeq (pp. 238 e sgg.), per lucidità e perspicacia dovrebbero costituire lettura obbligatoria non soltanto per il presidente entrante, ma per chiunque voglia affrontare i problemi di quella parte del mondo.
Purtroppo le cure prescritte non risultano allaltezza delle diagnosi e le prognosi ne soffrono di conseguenza. Manca una valutazione realistica e, di conseguenza, una qualsiasi prescrizione del come gli Stati Uniti possano liberare la politica israeliana dalla chimera di una sicurezza asserita a spese della maggioranza palestinese. Parimenti ci si aspetterebbe una disponibilità maggiore a sottoporre a critica una politica di contrapposizione, in forma di sanzioni o altro, nei confronti di Teheran, da parte di chi mostra la capacità di cogliere le dinamiche evolutive in atto nella società iraniana, destinate a indebolire il regime al potere (a condizione di non soccorrerlo dallesterno, cadendo nelle provocazioni di Ahmadinejad).
Per restare nella stessa parte del mondo, lA. mostra eguale consapevolezza della complessità della situazione afgana (di cui per la verità dice poco o nulla), delle contraddizioni che si riflettono sulle due missioni internazionali lISAF per ricostruire e proteggere il paese, Enduring Freedom per sconfiggere non si sa più bene chi ma eguale difficoltà ad ammettere lurgenza di una reimpostazione dellintera presenza internazionale, rinunciando al tradizionale piagnisteo americano sulla riluttanza degli alleati a combattere. Per amore di verità va segnalato che, in questo caso la posizione della Albright, sia pure per reticenza, appare comunque più accorta di quella del candidato Obama. Il quale, forse per bilanciare la richiesta di ritiro dallIraq, in campagna elettorale si è appiattito sul così detto surge del generale Petraeus aumento della presenza militare americana, dialogo con le diverse comunità etniche - senza cogliere come cruciale, sia dal punto di vista etico che politico, la salvaguardia dellincolumità della popolazione civile.
Qui si tocca un nodo profondo della politica estera americana che costituisce la sfida più importante al rinnovamento promesso dal nuovo Presidente. Storicamente, la condizione per superare le resistenze isolazioniste, sempre presenti soprattutto nellAmerica profonda che Obama ha cercato di raggiungere con successi non indifferenti (a partire dalle primarie dellIowa), è quello di operare interventi militari con il minor numero possibile di vittime americane. Ove i sacrifici sono risultati eccessivi, anche perchè non premiati da una vittoria militare, come in Vietnam e ora in Iraq, il contraccolpo nellopinione pubblica è stato fortissimo. La condizione per evitarlo è luso prevalente e imperfettamente discriminante dellaviazione, dai bombardamenti di Belgrado - fino al meritorio intervento moderatore degli alleati europei (dalla stessa Albright e dal suo portavoce in altra sede rinfacciato proprio allItalia) - alle incursioni degli Apaches, che precedono lo snidamento di veri o presunti terroristi e Talebani. Se alla perdurante riluttanza al sacrificio di forze americane si rifletta anche sul ricorso sempre più esteso a mercenari privati e ad un reclutamento economicamente incentivato delle truppe regolari si sommasse una crescente sensibilità per la popolazione civile coinvolta, ciò determinerebbe un vero e proprio cortocircuito, quantomeno temporaneo, nelloperatività delle forze armate americane. Del resto si sono intravisti alcuni segnali nella campagna elettorale di Obama e nelle manifestazione contrarie alla guerra Iraq, di dimensioni insolite in un contesto americano. La stessa Albright sente il bisogno di intitolare il capitolo dedicato allAfghanistan e allIran: One Iraq is Enough (pp. 225 e sgg.).
Egualmente segnale di mutamenti più profondi è la trattazione riservata dallA. ai temi del disarmo e della non proliferazione nucleare (pp. 141 e sgg.). Per la prima volta, che io ricordi, una persona che ha avuto una posizione di grande responsabilità nella politica estera americana rievoca luso dellarma nucleare a Hiroshima e a Nagasaki come parte di un elenco di atrocità umane. LA. si riallaccia poi alla volontà manifestata da Eisenhower a Camp David e da Reagan a Reykjavik (a sproposito in questo contesto, forse per patriottismo di partito, cita anche Kennedy e Johnson) di giungere ad un disarmo nucleare totale, precisando come un movimento in tale direzione costituisca la condizione principale per restituire legittimazione ed efficacia applicativa al Trattato di non proliferazione nucleare.
Tuttavia, pur citando la posizione egiziana favorevole a porre la questione dellarma atomica iraniana nel contesto di un denuclearizzazione del Mediterraneo (quindi, stato d Israele compreso) e il contraddittorio avvallo di quella indiana, Madeleine Albright non esclude un intervento armato contro lIran. Come lA. medesima non smantella la logica della guerra al terrorismo come possibile giustificazione di altri interventi militari nei confronti di un fenomeno che, per sua natura e per la recente esperienza irachena, dovrebbe escluderli, privilegiando altri mezzi di prevenzione e di difesa. Rinunciare a quella logica, come a quella dellAsse del Male e degli Stati Canaglia - surrogati di una minaccia prima eliminata e poi ridimensionata, malgrado gli sforzi di Putin, dalla caduta del Muro - significa minare alle fondamento lo stesso assetto istituzionale ed economico della politica estera e militare americana. Un poco troppo per la signora Albright, per lintellighentsia legata al partito democratico (un nome per tutti: quello di Joseph Nye), per Bob e Hillary Clinton e forse per lo stesso Obama. Salvo Wilson e Roosevelt, vincitori di due guerre mondiali, i presidenti democratici hanno tradizionalmente trovato necessario mostrarsi più tosti dei loro rivali repubblicani di fronte allopinione pubblica nelle emergenze e di fronte agli interessi che nella guerra investono (il complesso militare-industriale secondo la nota denuncia del generale-presidente repubblicano, Dwight Eisenhower).
Lutilità del Memo della Albright consiste nella sua capacità di sintetizzare una notevole comprensione del mondo, ma anche i limiti nellinnovazione politica che il suo partito ritiene di non potere e di non volere travalicare, nel solco di una tradizione che risale alla Seconda guerra mondiale. La nomina di Hillary Clinton costituisce la conferma di una simile impostazione da parte del neo-presidente che si gioverà in ogni caso della lettura delle belle pagine in cui la Albright usa la sua notevole esperienza per guidarlo nei meandri dei rapporti istituzionali e mediatici in cui qualsiasi presidente degli Stati Uniti è chiamato ad inoltrarsi (cfr. pp. 27-127).
Se tutto ciò basti a soddisfare le non piccole aspettative del resto del mondo; soprattutto, ad affrontare realisticamente le sue rapide e tumultuose trasformazioni; persino a corrispondere alle ambizioni dello stesso presidente, non è affatto detto. Non vi è dubbio che, per una molteplicità di ragioni, lelezione di Barack Obama abbia suscitato la speranza di un mutamento di dimensioni storiche che, ad esempio, James Carroll, editorialista del Boston Globe, (cfr, International Herald Tribune, 9 gennaio 2009, p.7) confronta con le decisioni assunte da Mikhail Gorbaciov, smantellando limpero sovietico e il Muro di Berlino. E possibile che Obama abbia ambizioni delle stesse dimensioni e anche il senso della storia necessario per sostenerle. Anchegli è favorito dalle circostanze determinate dalla guerra irachena e, soprattutto, dal crollo dellegemonia di un modello di sviluppo. Tuttavia, diversamente da Gorbaciov, egli ha alle spalle non le macerie di un impero sconfitto, che forse non è mai stato tale, ma soltanto il declino di una grande potenza con ambizioni imperiali che si è illusa di avere vinto la Guerra fredda e che stenta ad accorgersi dellavvento di nuovi protagonisti della politica e non soltanto delleconomia mondiale. A suo merito, va detto che lA. intitola un capitolo Americas Place in the Asian Century, anche se, mi viene da dire, si sente costretta a dotare il suo libro del sottotitolo: How We Can Restore Americas Reputation and Leadership.
Nel paese più multietnico e più multireligioso del mondo, il nazionalismo, talora il ricorso alla minaccia esterna, costituiscono un collante da cui è difficile prescindere. In politica nulla richiede più coraggio del riconoscimento della propria pur relativa debolezza, di non travalicare i limiti che essa impone. Obama ne sarà capace ? E, qualora lo voglia, sarà in grado di contenere e sconfiggere le forze, spesso apparentemente avverse, che si scateneranno in difesa dello status quo ?