La pensione delle donne tra equivoci e strumentalismo

Le reazioni alla sentenza della Corte di giustizia europea, peraltro valida solo per il settore pubblico, mostrano una generale scarsa conoscenza delle leggi che regolano l'età pensionabile. E comunque sarebbe il caso di intervenire sulle cause che spingono le donne ad abbandonare il lavoro, a cui nessuno pensa

La Corte di Giustizia in seguito ad un ricorso della Commissione europea ha sentenziato che “mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 (CE)”. L'art. 141 CE sancisce il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne e, come precisato dalla Corte, tale principio si applica anche alle prestazioni pensionistiche, laddove queste ultime abbiano natura retributiva.

 
E’ questo, secondo la Corte, il caso delle pensioni Inpdap ritenute pensioni di tipo professionale e non aventi valenza generale. In caso contrario, infatti, se il regime pensionistico ha una valenza generale (caso dell’Inps) che lo qualifica come regime legale piuttosto che professionale, è possibile invocare la deroga contenuta nella direttiva 79/7 che consente agli Stati membri di mantenere dei limiti di età diversi tra uomini e donne per l’età di pensionamento.

 

Si può discutere che il regime pensionistico Inpdap sia un regime professionale e non legale soprattutto dopo il processo di parificazione in corso tra pubblici e privati, ma questa è una linea adottata nei confronti di tutti i paesi.

 

Il dispositivo della sentenza, tuttavia, esclude che possa essere estesa anche al settore privato data la riaffermata valenza generale del regime pensionistico in questo settore. Diversamente da quanto affermato, quindi, non solo la sentenza ha valore solo nel settore pubblico, ma analoghi ricorsi contro la differenza nell’età di pensionamento di vecchiaia nel regime Inps sarebbero non accolti dalla Corte.

E’ evidente, tuttavia, come la sentenza ponga un problema politico generale, dato che una differenza nell’età di pensionamento delle donne tra pubblico e privato sarebbe poco giustificabile.

Il ministro Brunetta e altri politici e commentatori hanno sostenuto, in relazione alla sentenza, che le donne, in primis le lavoratrici statali, sono discriminate nelle pensioni più basse legate alla più bassa età di pensionamento.

 

Il ministro e gli altri commentatori dimostrano una profonda ignoranza delle regole pensionistiche del nostro paese. L’ordinamento Inpdap per le lavoratrici dello Stato e della Scuola fissa a 65 anni per uomini e donne l’età del pensionamento di vecchiaia (norma non modificata dal D.lg. 503/1993, che ha fissato negli altri settori il pensionamento delle donne a 60 anni). La legge 335 ha dato alle donne dello Stato e della scuola la possibilità di ottenere la pensione a partire dai 60 anni, fermo restando il limite di 65 anni per la pensione di vecchiaia, limite a cui una buona percentuale di dipendenti pubbliche arrivano. Chi si pensiona prima, nel settore pubblico, lo fa di propria iniziativa e senza alcun obbligo.

 

Ma la possibilità per le donne di andare in pensione dopo i 60 anni non è limitata solo alle lavoratrici dello Stato per effetto del loro ordinamento. Questa possibilità è goduta anche dalle lavoratrici private e da quelle pubbliche della Sanità e degli Enti locali in base alla legge 903/1977 (legge di parità di trattamento tra uomini e donne) che stabilisce che le lavoratrici in possesso dei limiti di età per la pensione di vecchiaia possono scegliere di continuare il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini (quindi fino a 65 anni). L’obbligo previsto dalla legge di comunicare al datore di lavoro l’intenzione di proseguire il rapporto di lavoro al meno 3 mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile è stato dichiarato incostituzionale (sentenza 498/1988), pertanto tutte le lavoratrici possono continuare a lavorare anche dopo il raggiungimento dei 60 anni di età.

 

Vi sono, inoltre, la legge 54/1982  che consente ai lavoratori e alle lavoratrici che non hanno raggiunto il massimo di anzianità contributiva (40 anni) di continuare il rapporto di lavoro fino ai 65 anni di età, e la legge 407/1990, modificata dal  D.lg. 503/93, che consente che anche in presenza del massimo di contribuzione, l’assicurato o l’assicurata possa restare al lavoro fino al raggiungimento dei 65 anni. In questi due casi il lavoratore deve dare comunicazione della sua intenzione almeno 6 mesi prima del compimento della normale età pensionabile.

 

In sintesi, le donne che oggi vogliono proseguire nel lavoro oltre i 60 anni lo possono fare, il punto vero è se lo vogliono o se, specie nel privato, gli è consentito di farlo dalle imprese. Se si esaminano tutte le norme pensionistiche, le donne non appaiono discriminate, ma bensì godono di vantaggi. Nel sistema retributivo possono arrivare fino ai 65 anni, ma possono scegliere di andare in pensione di vecchiaia al compimento dei 60 anni, mentre per gli uomini l’anticipo rispetto ai 65 anni è possibile solo in presenza di una contribuzione minima di 35 anni. Nel sistema contributivo gli uomini possono andare in pensione solo a 65 anni, con la possibilità di anticipare a regime a 63 solo con almeno 35 anni di contribuzione. Per le donne vi è la possibilità di andare in pensione a partire dai 60 anni, ma hanno la possibilità di continuare fino a 65. Nel sistema contributivo, inoltre, i coefficienti di trasformazione non rispecchiano la speranza di vita di uomini e donne, ma sono una media ponderata che favorisce le donne e svantaggia gli uomini.

 

Il problema allora non è quello di eliminare le discriminazioni per le donne presenti nel sistema pensionistico, ma semmai di valutare se i vantaggi presenti per le donne sono giustificabili dalla condizione complessiva della donna nel mercato del lavoro e nella società e se questi vantaggi potrebbero essere trasferiti dalle pensioni in altri settori in cui evidente è la discriminazione a carico delle donne.

 

Il ministro Brunetta farebbe allora meglio ad occuparsi delle norme relative alle retribuzioni e alle carriere delle donne, delle situazioni relative alle dimissioni forzate nel settore privato nel caso di gravidanza, ecc.. Potrebbe occuparsi di trovare le risorse per estendere il periodo e la percentuale di retribuzione nelle aspettative per maternità e per esigenze familiari e trovare le risorse per aumentare il numero di posti negli asili nido e diminuirne i costi.

 

In assenza di questo si parla solo di eliminare la possibilità per le donne di andare in pensione prima esclusivamente per fare cassa. Quanto alla Marcegaglia, dichiaratasi favorevole all’innalzamento dell’età pensionabile per le donne, i sindacati dovrebbero chiederle per coerenza un impegno da parte delle imprese Confindustria a non mettere fuori dall’azienda le donne che arrivano a 60 anni di età.

 

L’età pensionabile delle donne non è un tabù. Nel sistema contributivo un’età precoce di pensionamento si sconta duramente sull’importo della pensione, ma non si può ignorare che per una larga parte delle donne il pensionamento precoce è imposto da condizioni familiari e dalla mancanza di adeguate tutele sociali. Si intervenga su questo e si discuta poi dell’età pensionabile.

In ogni caso la drammaticità della situazione economica non pone certo in primo piano il problema pensionistico. In una situazione in cui è il lavoro di molte donne (oltre a quello di molti uomini) ad essere messo in pericolo e in cui si manifesta tutta la carenza del nostro sistema di ammortizzatori, di tante cose si può discutere salvo che di aumentare l’età pensionistica delle donne.
Martedì, 23. Dicembre 2008
 

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