La pazza corsa alla 'nomination' democratica

Persino i "superdelegati", maggiorenti desigati dal partito, potrebbero non essere decisivi per far prevalere la Clinton o Obama. Si aprirebbero in questo caso altri scenari, non molto felici per l'immagine del partito; e persino la concreta possibilità che la scelta finale venga affidata a due sole persone

Alla fine della terza settimana di febbraio, si comincia a parlare della possibilità che la Clinton si arrenda. Se la serie delle vittorie di Obama si conferma anche in Texas e in Ohio, il 4 marzo, potrebbe anche rinunciare alla corsa.

Non c’è più, infatti, la spinta inerziale dell’entusiasmo, il “momentum” sembra essere tutto dalla parte di Obama e cominciano a scarseggiare anche i quattrini per alimentare l’ondata delle centinaia di spot ed apparizioni televisive su cui la campagna si regge perché decine e decine di  milioni di dollari del tesoro di guerra che aveva accumulato almeno da due, tre anni, la Clinton li ha spesi sulle primarie di gennaio e febbraio, convinta che a metà mese ed a questo punto la corsa si sarebbe già chiusa e tutta a suo favore.

E anche il ritornello che è lei a vantare “esperienza” e lui no comincia ad apparire rugginoso: se l’esperienza è quella di aver fatto per otto anni la First Lady, non serve a molto se non per girare al buio la Casa Bianca…; e se l’esperienza è quella di avere fatto, poi, per altri otto anni il senatore, invece dei suoi due, le è servita a poco se non ad aver votato a favore, almeno in  prima battuta, di tutte le scelte catastrofiche di Bush in politica  internazionale e geo-strategica: ed è la grande maggioranza della base democratica che, ormai, lo dice…

Chi scrive crede poco, comunque, alla rinuncia di Clinton. Due o tre volte, in campagna elettorale, a chi le suggeriva di “contentarsi” magari del secondo posto nel ticket democratico, ha citato l’opinione come dire particolarmente spregiudicata del presidente Harry Truman, che fino all’aprile 1945 nell’ultimo mandato di F. D. Roosevelt era stato vicepresidente: quando spiegò che, a fronte della presidenza, la vice presidenza vale più o meno “quanto una sputacchiera”.

La senatrice non sembra intenzionata a mollare. E’ un mastino, anzi una mastina. Ha puntato il suo progetto di vita ormai da quattro anni sulla stanza ovale per sé – non pochi in America dicono anche come rivalsa per un marito, tanto sbarazzino nella vita privata quando un geniaccio più di centro che di centro-sinistra in quella pubblica del quale lei condivide linea e senso del far politica – e non si arrenderà prima di aver portato la battaglia fino all’ultimo round: quello della Convenzione democratica di fine agosto a Denver, in Colorado.

In questo caso si assisterà a uno scenario complicato e imprevedibile. Mentre, infatti, dai voti e dai sondaggi, appare già certo che l’alfiere dei repubblicani sarà il senatore dell’Arizona, John McCain, le cose potrebbero prendere una piega rischiosa per i democratici. L’esito finale sarebbe deciso in campo democratico dopo uno scontro pubblico, senza remissioni di colpi, anche bassi, e marcato da recriminazioni ed accuse. Perché il finale potrà non essere affatto deciso dai 3.253 delegati che, alla fine del processo, entro inizio giugno, saranno eletti nelle primarie – elezione che avviene con procedure diverse, a dir poco, bizzarra.

Proviamo a darle uno sguardo. Ogni Stato dell’Unione li sceglie con regole sue, diverse dagli altri…; e tra i democratici, al contrario che tra i repubblicani per cui vige la regola maggioritaria del chi piglia un voto di più piglia tutto, la regola prevede la ripartizione proporzionale dei delegati in base ai voti ottenuti e anche il “voto aperto”, non rare volte, a chi si dichiara indipendente e, perfino, repubblicano.

Ma, se arriveranno a un numero ancora non sufficiente, probabilmente non sceglieranno in ultima istanza i 796 cosiddetti superdelegati (con la morte di un deputato, 795 oggi: in tutto, dunque, la platea dei votanti alla Convenzione sarà di 4.048 delegati).

Questi 795 superdelegati sono detti super anche se ciascuno di loro poi ha un voto soltanto, come tutti gli altri, perché designati d'ufficio, in base allo Statuto del partito: ex presidenti (Carter e Clinton), vicepresidenti (Mondale, Gore), ex candidati alla presidenza (Kerry), governatori di Stati, senatori (i democratici sono 51), deputati (232, adesso) e, diciamo così, qualche decina di “maggiorenti”: i membri della direzione del partito, diremmo noi; ed i suoi “riconosciuti” statisti, ecc., ecc., o, anche,  pochissimi grandi benefattori.

Si tratta di gente che ha versato milioni di dollari alle casse del partito, non però tanto a titolo individuale (come il miliardario Buffett, ad esempio: mentre i superdelegati repubblicani sono tali proprio in base ad una specie di tariffario) ma a nome di qualche organismo collettivo: come Richard Michalski. Che peraltro non è miliardario ma vice presidente della Federazione sindacale dei metalmeccanici (i “machinists”: 720.000 aderenti) che hanno contribuito con diversi milioni di dollari a pagare i costi della Convention stessa, a Denver. Per “riconoscenza” è stato designato come superdelegato il presidente del partito democratico, il governatore del Vermont, Howard Dean, designazione poi ratificata dalla direzione. Michalski ha già dichiarato che alla Convention è impegnato a votare per Clinton, perché così ha deciso a maggioranza l’assemblea del sindacato. Ma in linea di principio non sarebbe neanche tenuto a farlo, una volta che è stato designato

Coi risultati delle primarie del Wisconsin e delle Hawaii, Obama ha messo da parte 1.318 delegati e Clinton 1.245: anche se, come sempre, i numeri restano un po’ ballerini (sul sito ufficiale della Convention, vengono aggiornati lentamente solo quando è stata raggiunta una conclusione in qualche modo di sostanziale consenso). Ma le primarie da celebrare sono ancora molte e di delegati da eleggere in numero ancora particolarmente copioso c’e il mucchio del 4 marzo, tra gli altri Stati, nel Texas e nell’Ohio.

Il problema è che il traguardo è a 2.025 delegati, la metà più uno della platea degli aventi diritti al voto alla Convenzione. E anche se Barak Obama, quello dei due che oggi è più avanti li vincesse tutti – e ad essi aggiungesse poi tutti i superdelegati, due o trecento dei quali comunque già “impegnati” a votare Clinton – superebbe quella soglia appena di qualche testa. O, più probabilmente,  non ci arriverebbe ancora.

Ora, la prima tappa cruciale che porterà alla decisione finale è quella che, subito dopo la conclusione delle primarie, ai primi di giugno, dovrà prendere il Comitato nazionale democratico (DNC). Perché due elezioni primarie, quelle in Michigan ed in Florida, sono state tenute in modo “illegittimo”, anticipando le date concordate e decise da mesi dallo stesso Comitato — e all’unanimità, Obama e Clinton allora d’accordo ambedue.

Obama è stato alle regole: non ha proprio concorso e perciò non ha preso delegati. Clinton ci ha ripensato, ha fatto comunque campagna specie in Florida e ha così vinto, per default, tutti i 313 delegati dei due Stati ribelli. Ed, ora, chiede al Comitato, quando si aprirà la Convenzione, di far decidere alla Commissione per la verifica poteri di ammettere al voto questi suoi delegati. E, in ultima istanza, lo chiede alla Convenzione stessa. Oggi, con  quei 313 delegati “illegali”, si porterebbe lei in testa alla conta.

Ora, la Convenzione è sovrana. Sarà una durissima battaglia legale se a quel punto quei voti, ammessi, dovessero diventare decisivi. Sarebbe una battaglia legale all’ultimo delegato, potrebbe trasbordare di fronte ai tribunali (ma quali? quelli della Florida? e con quali tempi?). E ancora una volta l’America rischierebbe di essere paralizzata sui voti della Florida… come quelli che nel 2000, contati o scontati secondo i desiderata del governatore dello Stato fratello del candidato repubblicano, diedero una vittoria comunque fasulla a George Bush su Al Gore….

Ma torniamo al punto. Che succede se, l’8 giugno, il giorno dopo l’ultima delle primarie (Puerto Rico)  alla riunione del DNC, e ormai ad una ventina di giorni dalla Convenzione, quando tutti i risultati saranno stati acquisiti e pubblicati, senza numeri conclusivi, la decisione toccasse – secondo statuti del partito – ai superdelegati? L’idea rende nervosi molti di loro, ma secondo chi scrive è anche molto improbabile…

Perché anche se , alla fine, cedendo alle pressioni fortissime del loro “popolo di riferimento” votassero tutti per il candidato che a casa loro ha preso più voti, riflettendo così le proporzioni del voto popolare, non cambierebbero l’equilibrio finale. E che succede, poi, anche se uno dei due, Clinton o Obama, riuscisse a prendersi i superdelegati tutti per sé e non raggiungesse neanche così in modo per tutti accettabile la soglia critica dei 2.025 delegati necessari ad ottenere la nomination?

Secondo tradizione e storia del partito, a quel punto, il peggio che potrebbe accadere sarebbe una lotta ad oltranza trasmessa in diretta televisiva per ore ed ore all’America, tra accuse e recriminazioni reciproche, nel sollazzo e a conforto del candidato repubblicano. Ma anche l’alternativa, quella che chiamano una “brokered Convention”, non sarebbe affatto un granchè: è la Convenzione gestita; evento raro ma non inedito in cui la Convenzione delega i maggiorenti del partito, essi stessi spesso neanche eletti magari, a scegliere loro una specie di male minore che s’impegna poi ad approvare all’unanimità; soluzione che qualche volta è stata inevitabile per tirar fuori dallo stallo una prospettiva impallata e un partito impantanato. Adlai Stevenson nel 1956 fu l’ultimo candidato democratico eletto così: però, poi, a novembre perse di brutto con Eisenhower, regalandogli il secondo mandato presidenziale.

E’ a questo punto – mentre il candidato ormai unico dei repubblicani sarà libero di concentrare il fuoco sul partito avversario, coi democratici che si starebbero ancora azzannando l’un l’altro: anche se non tutti i repubblicani amano McCain perché, in genere, pur essendo un conservatore di ferro troppi di loro non lo considerano abbastanza neo-con, soprattutto per quelli che loro chiamano i temi sociali e che noi chiameremmo etici o di costume – che la Convention democratica potrebbe fare ricorso a un’altra antica sua tradizione.

Scenderebbero in campo, cioè, gli “anziani” del partito. Le Convention democratiche hanno molto a che spartire, e non solo nella terminologia che hanno adottato, coi caucus indiani: le riunioni all’aperto, ed aperte a tutti componenti della, o delle, tribù congregate, in cui tutti parlavano e erano chiamati a decidere, ma alla fine forse decidevano di delegare la scelta – l’augh! – finale, all’anziano più anziano. E gli anziani che sarebbero, forse, accettabili a entrambi i finalisti della corsa delle primarie,  a questo punto sembrano poter essere solo due, i due premi Nobel per la pace del partito: l’ex presidente Jimmy Carter e l’ex vice presidente Al Gore che, non a caso, si sono tenuti finora rigorosamente neutrali.

Ha detto il presidente del Comitato democratico nazionale, Howard Dean, che in realtà “se per marzo od aprile non emerge chiaro, come tutti dobbiamo sperare, un candidato vincente dovremo rinchiuderci insieme ai due candidati e trovare noi un accordo. Perché non ci possiamo proprio permettere una convenzione gestita” (Time Magazine, 21.2.2008, "Dean grida (ma con calma) che bisogna “accordarsi”,).

Al dunque sono proprio i delegati non eletti che potranno (potrebbero) evitare al partito lo scontro pubblico; decidendo di decidere loro o delegando a pochi tra loro – due soltanto, magari – la scelta per tutti.

Ma proprio per questo molti tra i delegati eletti e la miriade di attivisti del partito che lavorano in rete, su mille blog, hanno messo sotto osservazione proprio i superdelegati: per garantirsi che le loro scelte siano “trasparenti” (un blog dedicato, come si dice, intitolato proprio Superdelegate Transparency Project) verifica che secondo la concezione della democrazia delegata i superdelegati rispettino la volontà espressa, democraticamente appunto a maggioranza, dagli eletti dello Stato che rappresentano. Altri invece, vogliono che agiscano indipendentemente, ognuno secondo coscienza, come ufficialmente è loro diritto.

In un modo o nell’altro, o nell’altro ancora, il braccio di ferro ci sarà. Speriamo solo che non vada tutto a vantaggio di John McCain.

Venerdì, 22. Febbraio 2008
 

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