La pandemia mette a nudo la cattiva teoria economica

L’emergenza ha fatto adottare provvedimenti fino ad ora considerati inadatti a una corretta gestione dell’economia, ma l’analisi corrente li considera utili sono per l’emergenza, con l’obiettivo di tornare alla logica precedente non appena questa sia finita. Ma è un ragionamento che non manca di elementi paradossali e che non considera tre gravi difetti

Ogni politica d’intervento deve trovare una sua giustificazione, prima ancora che in un’analisi dei problemi con cui si deve confrontare, in una qualche riflessione sulle cause di questi problemi e in un’idea di interesse generale che indichi gli obiettivi che si intendono perseguire.

La gran parte delle analisi sviluppate sui problemi che si sono creati per effetto della pandemia guarda, piùo meno implicitamente, alla situazione che si ègenerata come la conseguenza del “cigno nero”, cioèdell’evento inatteso e imprevedibile. Una lettura che si sviluppa tutta nel breve periodo, cioèin un arco di tempo nel quale diventano particolarmente evidenti le contraddizioni tra la dimensione “economica”e quella della salute e della vita e dalla quale discende la convinzione che l’obiettivo della politica d’intervento non possa che essere quello del ripristino delle condizioni che c’erano prima dell’insorgenza della crisi sanitaria.

Un modo di analizzare i problemi che da un lato ripropone l’idea che ogni scelta fatta in funzione della tutela della salute incida negativamente sui livelli di attivitàdel sistema economico, cioèil tradizionale antagonismo tra obiettivi economici e non economici, ma dall’altro costringe ad ammettere che in una situazione di crisi pandemica ci si debba in qualche modo misurare con obiettivi normalmente trascurati, perché, secondo la teoria prevalente, mirati al consenso e/o a criteri estranei all’economia, come quello della salute e della vita.

La politica d’intervento che viene, di nuovo implicitamente, proposta si articola in due tempi. Nel breve periodo si accetta l’idea che si possano perseguire obiettivi ritenuti, prima della crisi sanitaria, fuorvianti come il sostegno al reddito delle parti della societàrese piùdeboli dal bisogno di controllo dell’epidemia. Si ammette, in sostanza, la necessitàdi una politica dell’emergenza, che puòfar ricorso a strumenti straordinari. Ma si riafferma - o almeno si vorrebbe riaffermare - che l’utilitàdi queste politiche èstrettamente finalizzata alla creazione delle condizioni economiche e sociali indispensabili per far ripartire i processi economici e, piùin particolare, la crescita del reddito. Una crescita che resta garantita, sempre secondo queste analisi, solo dalla creazione delle condizioni per il buon funzionamento del mercato.

Nel breve periodo, cioèin un contesto di assoluta emergenza, prevale la necessitàdi salvare l’inclusione. Un obiettivo che puòessere raggiunto attraverso strumenti diretti (e non attraverso la delega alle virtùdel mercato). Una volta che l’emergenza èfinita, l’orizzonte all’interno del quale le politiche vanno ridefinite cambia e la logica dell’”economia”deve tornare ad essere centrale. Ci deve essere insomma una cesura dal punto di vista delle strategie di intervento.

Una lettura fatta propria da tutte le istituzioni internazionali ma che non manca di elementi paradossali, il piùevidente dei quali puòessere individuato nel fatto che nel lungo periodo si dàper scontata l’idea che l’interesse generale di una determinata collettivitàcoincida con un mercato ben funzionante, mentre nel breve il riferimento èa un’altra idea di interesse generale e ad un benessere piùcomplesso e piùcomplessivo di quello economico. Una sorta di politica dei due tempi. Nella prima gli obiettivi sociali resi evidenti dalla crisi sanitaria e sociale possono avere uno spazio. Nella seconda no. Le politiche di spesa pubblica in disavanzo dopo essere state in tutti i modi demonizzate acquisiscono nuova cittadinanza, che diventa piena tuttavia solo nel momento in cui si trasformano da interventi di sostegno dei redditi della componente debole della societàin uno strumento di rilancio dell’attivitàdelle imprese che continuano ad essere considerate i soli motori dello sviluppo. E dunque solo perchéi beneficiari di queste politiche sono diversi nei due periodi.

Analisi di questi tipo si portano dietro tre difetti. Il primo ègiustificare il riferimento a due idee diverse di interesse generale, una per il breve periodo e la seconda per il piùlungo periodo. La risposta alla domanda del perchédi questa discontinuitàlogica, l’urgenza della crisi sociale, fa emergere il secondo difetto di queste analisi e cioèla scarsa attenzione a quanto sta succedendo ormai da decenni. Se èvero infatti che la crisi pandemica colpisce in maniera diversa la societàcreando nuove aree di debolezza, èanche vero che questo processo di divaricazione sociale si innesta su una tendenza di lungo periodo alla disuguaglianza che èstata e continua ad essere rapida, indiscutibile. E che èuna tendenza che sta mettendo in difficoltàin pratica tutte le democrazie fondate su istituzioni liberali. Se appare dunque ragionevole porsi un problema di inclusione nel breve periodo perchéci si trova in un contesto in cui questi processi stanno accelerando, come si puòaccettare che questo stesso problema scompaia dall’orizzonte della politica d’intervento quando si ragiona su un arco temporale piùampio?

Ma èil terzo difetto quello che ci deve fare piùriflettere. La diversitànegli obiettivi di breve e di lungo periodo delle letture (implicite) prevalenti in realtànasconde infatti qualcosa di piùimportante e meno ovvio. Le diversitàdegli obiettivi non hanno alle loro spalle un’idea di interesse generale differente. Quelle che sono differenti sono le collettivitàdi riferimento di queste due idee. Da un lato ci sono le collettivitànazionali che sono organizzate intorno a proprie regole specifiche (le Costituzioni, in primo luogo) e, dall’altro, c’èla collettivitàdefinita dal mercato, anch’essa definita da proprie regole formali ed informali.

Il problema ècostituito dal fatto che il primo obiettivo di ogni collettivitàè, come sottolinea Leon,  quello di non negare se stessa; di evitare che alcune sue parti possano non riconoscersi piùnelle sue regole formali ed informali e piùin generale nel suo modo di definire l’interesse generale. E dunque la contrapposizione tra gli obiettivi e le idee di interesse generale da essi sottese, èuna contrapposizione tra due collettività, tra le letture che ciascuna di essa dàdella realtà, e tra gli orizzonti temporali nel quale costruiscono la loro utopia.

Chi si pone dal punto di vista del mercato - che tra l’altro costituisce una collettivitàdai confini molto piùincerti - non puòche dare una risposta alla crisi che si sviluppa in due tempi. Il mercato non puònegare séstesso e neanche i suoi obiettivi e le sue regole se non nel breve periodo (anche se a costo di una qualche discontinuitàlogica). Se ci si pone viceversa dal punto di vista delle collettivitànazionali, la strategia di intervento di una collettivitànon puòche essere volta in primo luogo a garantire le condizioni per l’inclusione di tutti i suoi membri. All’interno di questa logica perde ogni consistenza l’idea che l’interesse generale coincida con il cosiddetto buon funzionamento del mercato. La crescita del reddito puòcertamente essere un obiettivo intermedio, ma non certo finale. Lo stesso orizzonte temporale èdiverso. Le collettivitàaffrontano i problemi con gli occhi delle generazioni che si succedono, e quindi avendo in mente un arco temporale piùlungo. Un arco di tempo all’interno del quale la contrapposizione tra crescita economica e salute perde una parte importante della sua drammaticitàcosìcome perde di senso l’idea che le politiche di breve periodo si devono porre obiettivi e individuino strumenti d’intervento radicalmente differenti da quelli di medio lungo periodo. Se il tempo a disposizione èmaggiore èsempre possibile arrivare a mediazioni che possono svilupparsi sia nell’immediato che col tempo. L’apparente contraddizione tra valori economici e della salute, se ci si pone in questa ottica, assume la forma di un contrasto tra i legittimi interessi di breve periodo di una parte della societàe quelli di lungo periodo di tutta la società.

In una societàideale, in cui cioèla distribuzione del potere èrelativamente egualitaria, il compromesso non solo èpossibile ma èprobabile che possa portare a scelte razionali. Le cose diventano tanto piùcomplesse quanto piùla distribuzione del potere nella societàèdiseguale. E dunque quanto piùalcuni interessi sono sovra-rappresentati rispetto ad altri o riescono ad incidere piùdi altri sulle decisioni che devono essere prese. Se si guarda al lungo periodo, in altre parole, la capacitàdi dare una risposta razionale ai problemi che si stanno ponendo ètanto maggiore quanto piùsi ècapaci di affrontare in maniera inclusiva i problemi creati dalle nuove eterogeneitàdelle situazioni create dalla pandemia e dall’accentuarsi delle diversitàe delle disuguaglianze. Se non altro perchéogni concentrazione significativa della distribuzione del potere e degli equilibri sociali, se assume un carattere strutturale, puòfinire col trasformarsi in una potenziale minaccia alla stabilitàe alla persistenza stessa di una collettivitànazionale.

Se ci si pone da questo punto di vista, quello che diventa centrale èdunque il problema delle disuguaglianze e dei modi in cui queste disuguaglianze si generano. Un problema che non puòtrovare le sue risposte in una crescita senza qualificazioni. Dove trovarle in primo luogo in un ripensamento del welfare che deve trovare il suo punto di partenza in ciòche èstato fatto in questi mesi e saràfatto nei prossimi. Mesi nei quali si èvisto che welfare e democrazia sono due facce che si tengono tra loro, come dice Giuseppe Amari. Un welfare di carattere piùuniversalistico dunque. Un welfare che non va inteso solo come uno strumento di difesa dei piùdeboli ma anche come strumento di lotta alle concentrazioni di potere che le regole nazionali ed internazionali tendono a creare attraverso un mercato che non èquello della concorrenza e della distribuzione del potere nella società, ma quello della competizione.

Il problema delle disuguaglianze deve trovare in secondo luogo le sue risposte in una politica istituzionale che ridisegni i rapporti di forza tra pubblico e privato e determini una nuova subalternitàdegli interessi dei grandi gruppi economici rispetto allo Stato e all’interesse generale. Una politica che tuttavia ridefinisca contemporaneamente la sfera pubblica e dei soggetti che si devono far carico dell’interesse generale. L’obiettivo potrebbe essere quello di attribuire un ruolo non marginale alla societàcivile nella gestione del welfare. Una ridefinizione indispensabile per non appesantire la componente burocratica del welfare, ma anche per creare le condizioni di un suo continuo arricchimento sul piano dei contenuti. La disuguaglianza va in terzo luogo combattuta con una politica fiscale che si ponga l’obiettivo di recuperare base impositiva sia nelle componenti forti della società, sia usando la stessa estensione del welfare a soggetti che prima ne erano esclusi perchéoccupati in maniera irregolare, come incentivo per fare emergere quella parte di attivitàeconomica che tende a sfuggire all’imposizione.

Giovedì, 11. Febbraio 2021
 

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