La nuova frontiera è cambiare il consumo

Finora il campo di azione e di attenzione della sinistra è stato quello della produzione, ma questa crisi è soprattutto crisi del modello di sviluppo e bisognerà concentrarsi su cosa e come consumare. Le tre categorie di beni: relazionali, privati, comuni
Nel grande dibattito sulle questioni aperte dalla crisi, forse per la prima volta, al tema del come e cosa produrre si affianca anche il tema del come e cosa consumare. Nelle versioni più varie: dalla necessità di un consumo “austero”, antitetico allo spreco consumistico, alla teorizzazione della necessità di beni nuovi e sostitutivi. Probabilmente ciò è dovuto al crescere della consapevolezza circa la natura della crisi in corso, crisi che almeno in Occidente ha assunto il carattere di una crisi da eccesso di capacità produttiva; un eccesso di capacità è impossibile colmarlo soltanto con una semplice riattivazione della domanda, ma richiede una profonda ristrutturazione sia della offerta che della domanda, cioè in termini più semplici, del modello di sviluppo nella sua globalità, sia dal lato della offerta che dal lato della domanda. L’esperienza concreta dimostra infatti che, senza individuare nuovi beni da produrre, sinteticamente una nuova domanda, la dinamica degli investimenti tende al ristagno, pur in presenza di una politica monetaria e fiscale particolarmente espansiva.
 
Da molte parti, tuttavia, tende a permanere l’illusione pseudokeynesiana che sia sufficiente anche una semplice redistribuzione del reddito per riavviare lo sviluppo della macchina produttiva; ma, al di là anche di sacrosante ragioni di equità distributiva, la profondità della crisi esclude l’efficacia, se non puramente momentanea, di una tale misura.
Fa il paio con tale illusione anche quella di pensare che, senza un intervento pubblico diretto, - lo Stato imprenditore e non solo regolatore -, senza cioè keynesianamente una socializzazione delle decisioni principali di investimento, si possa riavviare una dinamica positiva dello stesso processo di investimento. 
Se la fase della crisi in cui progressivamente stiamo entrando, quello cioè di una necessaria ridefinizione dell’insieme del modello di sviluppo - Keynes, preconizzava negli anni trenta che ad un certo punto l’evoluzione della crisi avrebbe proposto/imposto la questione politicamente suprema della socializzazione dell’investimento, sancta sanctorum del sistema capitalistico -, il tema del modello di consumo, a cui finalizzare sia le politiche distributive che le scelte produttive, diventa il tema discriminante per una Sinistra che voglia rovesciare anche per questa via la subordinazione totale che il capitalismo nella fase liberista ha impresso al rapporto, per dirla sinteticamente, mercato/politica, o meglio ancora, di affidare allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli alla piena autoregolazione del mercato
Un nuovo modello di consumo come parte essenziale della tematizzazione di un nuovo modello di sviluppo, apre inoltre al movimento consumerista, in grande crescita, una occasione straordinaria per consolidare e sviluppare una presenza profonda e duratura nella vita della società italiana; presenza non semplicemente ridotta, come in gran parte è avvenuto fino ad oggi, alla sua azione concentrata principalmente sulle disfunzioni del mercato, ma capace di affrontare il nodo del modello di consumo. Ma ciò diventa possibile solo se il movimento consumerista pone al centro l’espansione dei bisogni di vita collettiva come strategia di sviluppo. Il salto a cui è chiamato il movimento consumerista si configura dunque come particolarmente innovativo: e la crisi prospetta una occasione storica.
L’alternativa utopica al capitalismo ha avuto storicamente come riferimento esclusivo il lavoro salariato, e come obiettivo il controllo, attraverso la conquista del potere, dei mezzi di produzione; il tema della produzione ha dominato totalmente la scena, relegando il tema del consumo ad una semplice conseguenza delle scelte produttive, alla classica intendenza.
Il nuovo riferimento, l’espansione dei bisogni di vita collettiva, cioè di una socialità collettiva a cui funzionalizzare lo sviluppo delle forze produttive e in grado di ridurre progressivamente il lavoro necessario, può diventare un terreno su cui le forze consumeriste possono assurgere ad un ruolo protagonista e politicamente strategico, e non di semplice vertenzialità sociale.
Tale nodo, per essere affrontato, implica un lavoro particolarmente impegnato per dare un ordine al discorso sul consumo, andando oltre la facile dicotomia tra consumo di lusso e consumo di sopravvivenza, fino a prospettare un rovesciamento d’importanza del tempo di consumo rispetto al tempo di lavoro, rovesciamento reso ormai possibile dalle attuali potenzialità messe a disposizione dalla rivoluzione tecnologica.
Avviare una riflessione su una nuova semantica del consumo diventa necessario proprio come precondizione della definizione di una politica che voglia affrontare il tema del modello di consumo, almeno per due ragioni di fondo: da una parte demistificare la ideologia del cittadino-consumatore come soggetto passivo, diffusa a piene mani e diventata quasi luogo comune e di cui la pubblicità è il corollario conseguente; dall’altro superare una visione elementare del consumo, ridotto al semplice dualismo tra consumo di lusso e consumo di sopravvivenza. 
L’atto del consumo, sostiene motivatamente l’antropologa Mary Douglas, non solo rimanda ad un preciso codice di comportamento e di comunicazione sociale, ma si configura come una scelta che riguarda il tipo di società in cui vivere, un atto in cui si esprime e attraverso cui si forma il carattere e l’identità dell’individuo del nostro tempo.
I beni che quotidianamente consumiamo possono essere distinti in tre grandi famiglie: beni privati, beni comuni, beni relazionali. La distinzione è importante sia perché è proposta a partire da un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, sia perché ognuno di questi tre beni ha una sua specificità, una sua vita, un suo particolare ”modo di produzione”.  La distinzione ci permette inoltre di sottrarci alla dittatura di quella che Walter Benjamin chiama “teologia del mercato”, che ha nell’homo oeconomicus il suo archetipo concettuale.
Il fundamentum divisionis tra questi beni ha anche una sua intrinseca valenza politica proprio perché rimanda al modo in cui ognuno di questi beni viene prodotto e consumato. Tale fondamento rappresenta in definitiva l’identità culturale e politica, il principio distintivo di queste tipologie di beni, e regge l’autonomia culturale e politica delle tre configurazioni economico-sociali, in specie dei beni pubblici e del terzo settore. 
I beni privati, come si sa, sono prodotti secondo la logica del profitto, la vita del bene è regolata dalla legge della domanda e della offerta, il prezzo misura i termini dello scambio: uno scambio tra equivalenti, dicono gli economisti; uno scambio senza mutualità, dice Paul Ricoeur. L’impresa capitalistica, rappresenta il meccanismo, ordinato gerarchicamente, attraverso il quale i beni privati vengono prodotti.
I beni comuni, come li definisce Stefano Rodotà, sono ”quei beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati, sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo. A titolarità diffusa. A fruizione collettiva. A gestione socialmente partecipata”. Proprio la dimensione collettiva porta non tanto al di là della dimensione proprietaria, ma ”all’opposto della proprietà”; bene comune trova riferimento nell’articolo 43 della Costituzione. 
Si può dire che il 2011, con la vittoria dei referendum, sia stato l’anno della affermazione dei beni comuni, della affermazione popolare di una idea destinata ad incidere sempre di più nella agenda politica futura. 
I beni relazionali solo di recente sono assurti alla categoria di tertium genus. E’ stata Marta Nussbaum la prima a teorizzarne la natura, sulla scorta del pensiero di Aristotele; ma è con la riflessione in particolare di Pierpaolo Donati che i beni relazionali hanno acquistato un profilo sempre più definito. 
I beni relazionali appartengono ad una terza famiglia di beni; per spiegarne il “modo di produzione” può tornare utile l’immagine degli assi cartesiani, presa in prestito dallo stesso Ricoeur: sulla ascissa la gratuità, l’agape; sull’ordinata la reciprocità, la cooperazione, la philia.  La reciprocità configura non uno scambio fra equivalenti, ma un giusto bilanciamento tra valori d’uso. Nella Banca del Tempo, per esemplificare, un’ora di tempo ha un valore uguale per tutte le attività scambiate.
Il bene relazionale si colloca all’incrocio dei due assi cartesiani, e proprio perciò l’aspetto relazionale è costitutivo - variamente - della produzione dello stesso bene relazionale. Variamente, perché vario può essere il punto in cui concretamente si realizza l’incrocio tra i due assi. I beni relazionali, sostiene Donati, non hanno equivalenti monetari e non sono soggetti alle leggi dei mercati: sono gli stessi individui che li producono e li fruiscono assieme.
Una constatazione empirica ci dice che i beni relazionali sono in grande crescita nelle nostre società postfordiste; come ci dice che la coesione sociale di una comunità poggia prevalentemente sulla estensione e sulla qualità dei beni relazionali e dei beni comuni. L’altruismo, come ci ricorda Amartya Sen, ha anche un valore economico.
Il paradosso evidenziato dalla attuale crisi, - saturazione dei beni privati, grande domanda dei beni pubblici e dei beni relazionali - indica la traiettoria di una via, da approfondire e sviluppare, per costruire un nuovo modello di consumo, parte costitutiva di un nuovo modello di sviluppo, che abbia al centro il tema della socialità collettiva.
(Questo articolo è stato pubblicato anche su Rassegna Sindacale)
Domenica, 15. Aprile 2012
 

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