La manovra e le favole del governo

Qualche misura anti-evasione ripresa dall’odiato Visco, una randellata sugli statali. Interventi sui grandi patrimoni, neanche l’ombra. Riforme strutturali, inesistenti. Emerge chiaramente l’obiettivo di Berlusconi: raddrizzare un po’ i conti senza danneggiare l’elettorato di riferimento del centro-destra

Raddrizzare i conti senza danneggiare l’elettorato di riferimento del centro-destra. Ancora una volta la creatività economico-finanziaria del ministro dell’Economia è stata chiamata a dar prova di sé risolvendo questo rompicapo. La soluzione si presenta però sempre più difficile e il risultato sempre più deludente, nonostante la consueta offensiva mediatica per far apparire la manovra più efficace di quello che è e meno in contrasto con le lusinghe della campagna elettorale. Ma la mattina della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale la Borsa di Milano è andata giù, peggiore tra tutte quelle dei paesi ricchi, e i famigerati Cds (i derivati che coprono dal rischio di default) per il debito di Stato italiano sono schizzati in alto di 50 punti base in poche ore. Per i mercati ci vuole altro che il martellamento mediatico per nascondere la realtà. Non solo, ma mai come stavolta si sono avvertiti scricchiolii tra gli elettori, fedeli ma non creduloni.

 

Da questi segnali sinistri per il governo si dovrebbe desumere che la manovra di metà anno di Berlusconi e Tremonti sia destinata a segnare un passaggio cruciale del suo tragitto – quindi della politica italiana in generale – rivelandone il carattere velleitario e l’intima fragilità. Niente sarà più come prima per una coalizione senza un programma, incapace di darsi delle priorità (che non siano gli interessi contingenti del capo) perché priva di coesione.

 

Delle difficoltà si è avuta una dimostrazione goffa, ai limiti del ridicolo, con lo sconcertante balletto dell’approvazione “con riserva” al Consiglio dei ministri, dei testi continuamente modificati, delle dichiarazioni che smentiscono le anticipazioni, fino al paragone con Mussolini (dittatore “presunto” spogliato del potere dai suoi gerarchi) e al rimpallo di responsabilità con la presidenza della Repubblica: due gaffe motivate, più ancora che da ignoranza, della storia e della Costituzione, dal tentativo puerile di declinare le responsabilità.

 

In una simile situazione,che condannerebbe senza appello qualunque governo e travolgerebbe qualunque maggioranza, come è già avvenuto al centro-sinistra, la ricostruzione della verità dei fatti ha un valore fondamentale.

 

La realtà è che, per cominciare, il “rischio Grecia”, che esiste davvero, non è, come si racconta, il rischio che l’effetto di un default greco arrivi fino a noi, minacciamdo la stabilità dell’euro e dunque l’Europa stessa. Significa piuttosto che l’Italia è il paese più esposto al rischio default, subito dopo la Grecia e, per di più, il nostro avrebbe un impatto ben più catastrofico sull’Europa.

 

E’ quindi smentito chi ha proclamato fino a ieri che a) l’Italia ha subito conseguenze meno pesanti dei suoi partner; b) il governo Berlusconi ha condotto egregiamente la politica di contrasto alla crisi; c) il momento peggiore della crisi è alle spalle. Intanto però il messaggio che i sacrifici non sono colpa nostra ma dei greci imbroglioni e spendaccioni serve anche ad insinuare l’idea che, semmai una secessione fosse possibile, ci sarebbero ottimi motivi per separare le sorti del nord subalpino, accomunato alle regioni forti di oltralpe nel rigore e nella efficienza economica, da quelle non soltanto del meridione d’Italia ma di tutti i sud di Europa: quasi che, se si arrivasse a divide l’euro in nord-euro e sud-euro, come propone qualcuno, l’Italia potesse dividersi tra le due monete!

 

Occorre poi avere chiaro che è certamente vero che tutta l’Europa è chiamata a raddrizzare i bilanci per contrastare la sfiducia dei mercati, rientrando dall’esposizione finanziaria conseguente al ripianamento in deficit degli squilibri provocati dalla crisi, ma alcuni devono farlo con difficoltà molto maggiori. Prima tra tutti l’Italia giacché, pur non avendo immesso risorse significative nell’economia per affrontare la crisi presente, paga tuttavia il prezzo: a) della più pesante eredità del passato; b) di una minore capacità (attesa) di far leva sui dividendi della crescita futura, non essendo in vista alcun sostanziale recupero di produttività e di competitività di sistema. Perciò, non dobbiamo fare come fa tutto il resto d’Europa ma molto di più, perché stiamo molto peggio.

 

Vengono in ballo qui le responsabilità di chi non ha voluto, né saputo, affrontare adeguatamente e per tempo la crisi. Si tratta di un aspetto cruciale. L’evoluzione della crisi era prevista e risulta dagli atti ufficiali, già un anno fa: “Superata la crisi, il nostro paese si ritroverà non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato – fisico e umano – depauperato dal forte calo degli investimenti e dall’aumento della disoccupazione. Se dovessimo limitarci a tornare su un sentiero di bassa crescita come quello degli ultimi 15 anni, muovendo per di più da condizioni nettamente peggiorate, sarebbe arduo riassorbire il debito pubblico e diverrebbe al tempo stesso più cogente la necessità di politiche restrittive per garantirne la sostenibilità.” (29/05/09, Banca d’Italia, Assemblea Ordinaria, Considerazioni finali).

 

Ancora prima (G20, Londra, 2 aprile 2009) i partecipanti si erano impegnati a “stabilire la scala degli sforzi necessari a ripristinare la crescita”, avvertendo però la necessità di “garantirne la sostenibilità fiscale di lungo termine”. Il nostro governo ha preferito non fare né una cosa né l’altra. Ha deciso di non investire risorse per sostenere la crescita, nell’idea di godere della ripresa mondiale che gli sforzi altrui avrebbero generato (comportamento opportunistico, da “free-rider”, contro cui i documenti internazionali hanno pronunciato, invano, severi moniti). Così facendo non ha allontanato però di un millimetro i rischi del default. La crescita, senza i dovuti stimoli, sarebbe arrivata più tardi e risultata più debole, rendendo più pesanti gli effetti sul deficit (e sul debito).

Questa prospettiva era chiara, soprattutto agli italiani, se è vero che le misure adottate infine dall’Europa erano state concepite dapprima a via XX settembre. Perché in quelle stanze era ben chiaro, fin dai primi cento giorni del governo Berlusconi, fin da quando (giugno 2008) la creatività finanziaria di Tremonti si era dovuta esercitare sulla necessità di trovare la copertura per le promesse della campagna elettorale, su quale lama di rasoio ci si stava muovendo e come il rischio di deflagrazione nell’area euro di un default nazionale avesse il cuore in Italia. Non era, come si vede, un destino inevitabile, né uno shock importato dall’esterno senza responsabilità nazionali. Al contrario, vi sono rilevanti responsabilità nazionali nella crisi internazionale dei debiti sovrani.

 

Se dunque non fosse stata condotta nel peggiore dei modi la politica di contrasto, la manovra avrebbe avuto un’altra dimensione. Ma anche adesso, nonostante i danni di una politica sbagliata con i costi che ne sono derivati, sarebbe stato possibile affrontarla in modo del tutto diverso. Sarebbe stato cioè possibile cogliere l’occasione della crisi per forzare la mano intervenendo in modo radicale su alcuni nodi strutturali della nostra società e della nostra economia. Bonificare la palude dell’evasione. Inaugurare una politica industriale per favorire la competitività “alta”. Disboscare la giungla delle rendite corporative. Altro che stringere il cappio intorno agli impiegati dello Stato e ai pensionati e scaricare i tagli sugli enti locali. Ma torniamo qui al punto da cui siamo partiti: questo governo si regge su una base di consenso eterogenea il cui cemento, fino ad ora, era costituito proprio dalle promesse che quei nodi non sarebbero stati tagliati. Il presidente del Consiglio può togliersi la soddisfazione di negarlo con violenza di fronte ai telespettatori (mediamente più orientati verso il centro-sinistra) di un programma come Ballarò, ma non potrebbe deludere i suoi fan smentendo nei fatti le promesse di impunità, o l’elogio dell’egoismo sociale.

 

Per questo, quanto alla lotta all’evasione, non ci si poteva aspettare un cambio di rotta. La sola ricetta in campo è il condono, promesso e rimangiato come al solito - in un’altalena destinata a durare fino all’ultimo - per fare poi il suo ingresso trionfale in Parlamento.  Per questo, le poche misure di contrasto dell’evasione (che ripristinano in parte quelle introdotte da Visco e cancellate nei primi cento giorni da Tremonti) sono rubricate come “adeguamento alle disposizioni adottate in ambito comunitario in tema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo”: come dire, di nuovo l’Europa, di nuovo le Torri Gemelle. Per il resto, solo qualche dejà vu, come il coinvolgimento dei Comuni, il riordino del catasto, il censimento degli immobili fantasma, e tanta informatica. Misure ragionevoli, in qualche caso anche efficaci, ma non si sfugge alla sensazione che l’obiettivo sia quello di far pagare ancora di più e più in fretta chi già paga, lasciando in pace i veri furbi, quelli che nell’informatica trovano semmai l’humus ideale per l’evasione in grande stile, quelli che gli investimenti immobiliari sanno dove farli (fuori dai confini).

 

Quanto agli incentivi alla crescita, si sfiora il ridicolo quando Berlusconi, piccato per l’inaspettata freddezza confindustriale, invita (intervista a “Mattino 5” del 27/05) a “leggere con maggiore attenzione i 54 articoli della manovra, a partire dal primo capitolo (in realtà l’ultimo!) sulla competitività economica e sostenibilità finanziaria”. Ci sarebbero anche, prosegue il presidente del Consiglio “norme che introducono rilevanti novità strutturali, proprio in chiave di sviluppo: contratti di produttività” (defiscalizzazione degli aumenti di salario collegati all'incremento di efficienza delle imprese definiti, nel testo della legge, “alla tedesca”) “fiscalità di vantaggio per le nuove imprese nel Sud, zone a zero burocrazia”. Peccato che la contrattazione aziendale segua il ciclo della crisi (ricordate le fanfare che hanno accompagnato la detassazione degli straordinari?) e che la maggior parte delle regioni del Sud, essendo in deficit nel campo della sanità, si sia vista sottrarre i fondi FAS con cui avrebbero dovuto realizzare quelle misure.

 

Ci vuole una certa faccia tosta a far passare queste misure come “riforme strutturali per lo sviluppo e la competitività”, anche se sono un passo avanti rispetto al primo testo fatto circolare in cui era previsto solo il finanziamento delle “Attività socialmente utili” dei disoccupati campani (cambiale Caldoro) e il tante volte promesso ripianamento di “Roma capitale” (cambiale Alemanno).

 

Questo è quanto. Anche per lo sviluppo, come per i contratti pubblici, si salta un (altro) giro. E le rendite? Tre quarti della manovra, si è detto, gravano su pubblici dipendenti, pensionati e enti locali. Sono questi i privilegiati da colpire per primi. L’altro quarto, al netto degli introiti (alquanto magri) della cosiddetta lotta all’evasione, viene da una sfrondatina all’apparato pubblico che conferma una volta di più le inclinazioni di fondo di questa maggioranza. Si va da un lungo elenco di enti e fondazioni culturali cui chiudere i rubinetti dei contributi, all’accorpamento nell’INPS di due enti previdenziali (marinai e postelegrafonici), mentre ne sopravvivono altri che pagano pensioni d’oro pur segnando un deficit colossale. C’è, insieme alla soppressione di qualche ente evidentemente fuori posto (come quelli agricoli sopravvissuti per quarant’anni all’istituzione delle Regioni), anche quella dell’Isae, da riportare all’ovile del ministero dell’Economia perché le previsioni sono roba da cartomanti, soprattutto quando smentiscono l’ottimismo del Superministro (pur trovando riscontro nei più autorevoli istituti internazionali, oltre che nei fatti, semmai con qualche peggioramento).

 

Dove non arriva la barbarie sociale arrivano le sottili vendette. La Protezione civile, pietra di uno scandalo colossale, resta invece “offshore” (si impone solo il concerto del Superministro dell’Economia che evidentemente vuole essere della partita), come restano intatti gli altri poteri paralleli nutriti dal sistema che ruota intorno alla Presidenza del Consiglio, fino al balletto della soppressione delle province, esca lanciata a Fini e Casini ma indigesta per la Lega.

 

Interventi sui grandi patrimoni, nessuno. Dopo l’abolizione dell’ICI sulle rendite più alte e della tassa di successione sui grandi patrimoni, il primo più elementare intervento in questa materia consisterebbe nel loro ripristino (insieme con l’aumento dell’aliquota sulle transazioni finanziarie), ma si cancellerebbe un’intera campagna elettorale. All’Italia di Tremonti e Berlusconi rimane così il triste primato di essere l’unico paese al mondo in cui i grandi patrimoni sono fiscalmente esenti e spesso invisibili. Eppure il ministro dell’Economia non esita a nascondersi, con una buona dose di impudenza, dietro il ritornello della “manovra europea” e del “così fan tutti”. Tutti tassano i patrimoni, tutti effettuano prelievi dalle fasce più abbienti. Tutti hanno imparato la lezione del fallimento delle ricette dell’ultra destra (di cui l’Italia è rimasta unico paladino): togliere ai poveri per dare ai ricchi non solo non fa aumentare la torta ma sottrae domanda pagante (che alimenta l’economia) per nutrire le rendite che alimentano le grandi speculazioni dell’economia di carta.

Dunque, han tutti fatto scelte diverse, compresi i governi della destra europea (non poco diversa da quella italiana). Era possibile un’altra manovra. E sì che qualcuno si è perfino domandato come mai non si sia pensato di far cassa con la concessione delle frequenze su cui viaggiano tv digitale e telefoni cellulari, come se fosse “materia disponibile”.

 

Tirando le somme, diradate le nebbie degli artifici propagandistici, appare chiaro che Tremonti è in tutto e per tutto il ministro di Berlusconi. Le frizioni sono accidenti momentanei, la sostanza dell’intesa è solidissima. Il guaio, non solo per la coppia che tiene in mano il governo del nostro paese ma per tutto il paese, è che il fondo del barile sembra sia stato davvero raschiato del tutto.

I pezzi più odiosi della manovra, quelli socialmente più iniqui, quelli più spudoratamente ispirati a fanatismo e faziosità di parte, corrono il rischio di non farcela in Parlamento. L’arrivo della ciambella di salvataggio del condono migliorerà un poco i saldi ma avrà il significato di mettere la testa sotto la ghigliottina per la speculazione sugli andamenti futuri. Sperare che i gestori degli hedge fund (che nell’immaginario hanno preso il posto degli gnomi di Zurigo di una volta) si bevano la storiella della grande efficacia della fatturazione telematica contro l’evasione è puerile.

Per questo il passaggio dei prossimi sessanta giorni è cruciale. Per questo dietro i pericoli per le sorti del governo si intravede il profilo di una crisi istituzionale senza precedenti nell’Italia repubblicana (e il riaffiorare della memoria delle bombe del ’92 – ’93 non appare solo una singolare coincidenza).

 

In questo passaggio la parte che Tremonti spera di giocare (per Berlusconi oltre Berlusconi) non è certo secondaria. Ma non è con un’intervista (come quella al Corriere del 31/5, giustamente definita “da imperatore dei Marziani”) in cui si dipinge come l’ideologo di un mondo di libertà totale, con acrobazie dialettiche da imbonitore da fiera, facendo finta di non sapersi riconoscere allo specchio, né con la furbizia di circondarsi di tecnici “sopra le parti” (purché ostili, quale che sia il motivo, agli ex ministri di centro-sinistra) che si può riscrivere la propria storia politica, con buona pace di chi lo dipinge come un “tecnico”, uomo per tutte le stagioni. E un ministro di lungo corso come Tremonti di storia politica ne ha accumulata abbastanza.

Giovedì, 17. Giugno 2010
 

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