La mano è invisibile, il disordine si vede

Gli Stati nazionali hanno perso potere, ma non sono stati sostituiti da nessun ordinamento. La teoria economica è dominata dagli ultraliberisti secondo cui il mercato si auto-regola, dimenticando che proprio i loro numi, Hayek e von Mises, affermavano che le azioni consapevoli dei singoli si compongono in indirizzi globali inconsapevoli
Rischiamo tutti di essere travolti dall'attualità, ma non è male ogni tanto riprendere alcuni temi di riflessione che non nascono dalla sollecitazione di alcun particolare fatto di cronaca. L'assunto di questa riflessione è che qualcosa o molto scricchioli da tempo nel teatrino del mercato globale e questi scricchiolii si sentano particolarmente in Europa. Per iniziare da una considerazione così semplice da apparire semplificativa si può ricordare che su un mercato operano i tre fattori classici della produzione: capitale, lavoro, materiali. Perché un mercato sia efficiente occorre che in esso si verifichi la libera circolazione dei fattori della produzione, cosa che manifestamente non si verifica oggi nel mondo, come in sintesi possiamo ricordare.
 
Per quanto riguarda la circolazione del fattore lavoro basti considerare che una linea di reti, filo spinato e fossati, corredata da un severo pattugliamento divide due paesi - gli Stati Uniti ed il Messico - che pure sono partecipi di un progetto comune di integrazione economica denominato Nafta e che un mare interno relativamente poco esteso (e quindi in condizioni normali attraversabile in barchetta) che divide Africa e Medio Oriente dall'Europa è reso intransitabile agli ospiti indesiderati mediante un pattugliamento navale, che assomiglia a un colabrodo nei fatti ma che si vorrebbe impenetrabile nelle intenzioni.
 
Per quanto riguarda la circolazione dei materiali, e quindi gli scambi commerciali, le intenzioni di liberalizzazione degli scambi internazionali, obiettivo posto nel lontano 1944 dagli accordi di Bretton Woods, è ancora ben lontano dall'essere realizzato. Il flusso di scambi nel periodo coloniale tra colonie e madrepatrie era ben più ampio e fluido di quanto non sia oggi lo scambio tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Proprio l'Europa ostacola e dilaziona il libero ingresso dei prodotti agricoli e sostiene con finanziamenti la propria agricoltura in modo da rendere impossibile una competizione sui prezzi anche sui prodotti che via via si liberalizzano. Intanto gli Stati Uniti non hanno mai abbandonato una manovra strategica di dazi e quote ed in Europa, nei riguardi della competizione della Cina, almeno in alcuni settori, si sono registrate le prime tentazioni protezionistiche. Inoltre, tenendo conto dello scacco persistente delle intese multilaterali si sta ritornando alle intese bilaterali, cioè "io do una cosa a te, tu dai una cosa a me".
 
Per quanto riguarda la circolazione dei capitali all'interno della stessa Unione Europea recenti azioni di contrasto all'acquisizione - effettiva o sognata - di imprese a capitale nazionale da parte di imprese di altri paesi sono emerse in Francia, Spagna, Polonia. In Francia, ma anche in Canada, stanno studiando misure di difesa di comparti produttivi che si vorrebbe definite di importanza strategica e per i quali quindi tutelare non la impermeabilità a interventi di capitali stranieri ma la prevalenza di capitali nazionali. Queste tendenze non trovano una risposta forte da parte della Commissione europea, che appare priva di autorità, ma solo da parte della triplice ultraliberista: i commissari al mercato interno, alla concorrenza, al mercato esterno (ruoli chiave nella Commissione), ricoperti nell'ordine da un irlandese, una olandese e un inglese.
 
Questi sono fatti, e altri se ne potrebbero citare, che, come sempre, si prestano ad avvalorare interpretazioni opposte. La prima di queste due interpretazioni contrapposte è quella ultraliberista che si richiama alle difficoltà che sempre si oppongono all'avanzata del nuovo e del razionale e che argomenta che più il cambiamento è significativo e liberatorio e più le forze oscure e gli interessi costituiti vi si oppongono. Lo scambio di ruoli tra destra e sinistra, con una destra che oggi sarebbe portatrice di istanze rivoluzionarie ed una sinistra che si sarebbe piegata alla conservazione, è la suggestiva conclusione di questo processo logico, o illogico.
 
Illogico perché molta acqua è passata sotto i ponti da quando la scuola marginalistica viennese, poi trasferitasi non senza profonde mutazioni a Chicago, aveva scoperto e valorizzato l'approccio individualistico rispetto a quello classista nell'analisi economica, specificamente nel funzionamento del mercato, posizione che, gradualmente e soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino e della versione autoritaria del comunismo, è largamente accettata a sinistra, trovando supporto sia nel quadro più ampio degli indirizzi di filosofia postmoderni, sia nel rinnovamento degli indirizzi razionalistici. Anche la contrapposizione degli anni '30 tra Hayek e Keynes appare oggi datata, sì che non ci si può oggi richiamare tout court a radici così lontane per giustificare le profonde evoluzioni successive.
 
In realtà la sinistra ha fatto i conti con la storia e con l'evoluzione del pensiero sia sul terreno dell'economia, sia in quello più ampiamente comprensivo della filosofia, ma è la destra che questi conti non li ha fatti e continua a registrare come incidenti su un percorso virtuoso la valanga di difficoltà che sta travolgendo il modello ultraliberistico. Tale modello è entrato in crisi non a causa di resistenze, che in verità non si sono ancora pienamente coordinate sul piano della ricerca economica e quindi di proposte alternative, ma piuttosto per la crescente evidenza della impossibilità di realizzare e far accettare un modello economico che resta un sogno irrealizzato di ordine mondiale somigliante sempre più a un assoluto e irrecuperabile disordine.
 
E veniamo alla seconda interpretazione. Il modello keynesiano era centrato sul ruolo dello Stato, che proprio in contrapposizione con la parallela esperienza del comunismo autoritario sovietico, assumeva un ruolo non già di proprietario dei mezzi di produzione, ma di indirizzo attivo della dinamica del mercato, allo scopo di evitarne i pur possibili (e storicamente documentati) occasionali ma tragici fallimenti. Ben consapevole dell'evoluzione in corso e del graduale esaurirsi del ruolo della nazione, lo stesso Keynes ed i governi di indirizzo keynesiano in sella negli anni '40 progettarono e realizzarono un graduale processo di trasferimento del potere al livello della concertazione internazionale. Questo processo, che ha incontrato molte difficoltà, si è interrotto nell'arco degli anni '70, senza dar luogo, nei trent'anni successivi ad alcun modello alternativo efficiente, con l'aggravante che quel poco di autorevolezza che le istituzioni internazionali avevano acquisito si è disperso, ed oggi ne resta poco o niente.
 
Siamo quindi da troppo tempo in una situazione di disordine internazionale nel quale non c'è stato alcun trasferimento ma solo la perdita di potere degli Stati nazionali, appena mitigata da deboli e labili intese regionali (tipo l'Unione Europea). Questa perdita di potere a ben vedere è stata una perdita secca, poiché nessuno ne ha tratto vantaggio. E' vero infatti che i grandi gruppi economici hanno conquistato una grande (o assoluta?) libertà di azione, ma in realtà, al di là del conseguimento di utili anche elevati ma assolutamente non stabilizzabili nel tempo, essi non mostrano, ne potrebbero mostrare, interesse a "governare il mondo".
 
Siamo quindi tornati alla favola della "mano invisibile" che regolerebbe l'economia, sulla cui cialtroneria gli stessi Hayek e von Mises avevano posto una pietra tombale, quando sostenevano che la miriade di azioni consapevoli dei singoli consumatori (tuttavia costituenti la sola realtà fattuale sulla quale basare le analisi del mercato) si compongono in scelte complessive inconsapevoli (poiché non mediate). Consigliavano quindi Hayek e von Mises che lo Stato monitorasse attentamente la dinamica del mercato e che intervenisse poco, in punta di piedi e quando necessario, esattamente come consigliava Keynes (e forse, concediamolo, non tutti i keynesiani).
 
Nella guazza nella quale ci troviamo da tempo parrebbe necessario che i teorici dell'ultraliberismo intervenissero nei confronti dello Stato nazionale (che resta l'unico mediatore visibile al momento) nello stesso modo: poco, in punta di piedi e quando necessario, in attesa di ricostruire un credibile sistema sostitutivo di mediazione efficace, che gli ultraliberisti hanno contribuito e contribuiscono ad affossare, da tempo e quotidianamente. A ben vedere sfugge loro proprio l'argomentazione principe dei loro adorati Hayek e von Mises e cioè che le azioni consapevoli dei singoli si compongono in indirizzi globali inconsapevoli.
 
Lunedì, 24. Aprile 2006
 

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