La grande crisi e il soldato di Samarcanda

Se la sinistra non riesce a cogliere i nuovi termini imposti dal mutato scenario farà la fine del sodato che pensava di sfuggire alla morte e invece le andava incontro. Quattro punti fondamentali attorno ai quali elaborare una strategia

L’urto della grande crisi ha trovato le forze di ispirazione socialista in una posizione di grande debolezza: l’effetto di spiazzamento è stato generale, perché generale è stata l’incapacità di prevedere l’avvenimento.  Conseguentemente la sconfitta: nelle ultime elezioni europee, i partiti socialisti che più avevano fatto propria l’ideologia del mercato che si autoregola hanno pagato il conto più salato; ad un estremo i socialisti della terza via, come i laburisti inglesi, all’altro i socialisti scandinavi. In realtà, da tempo l’idea stessa della crisi era stata espunta dall’ordine delle possibilità, declassata ormai al livello delle tante turbolenze. La crisi quindi, non essendo stata prevista, non è stata neanche politicamente utilizzata, ed ha permesso alla destra di scorrazzare indisturbata.

Il fallimento della Lehman Brothers, nel settembre del 2008, acquista il valore di un evento simbolico; le cinque grandi banche d’affari di Wall Street sono uscite sconvolte dallo tsunami finanziario: tra fallimenti, acquisizioni, trasformazioni in bank holding companies per poter accedere al finanziamento di ultima istanza della Federal Reserve. Ma le cinque grandi banche d’affari (Lehman Brothers, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merril Lynch, Bear Stearns) hanno rappresentato, nella stagione liberista, la vera direzione strategica della globalizzazione del mercato dei capitali, magna pars, a sua volta, del più generale processo di globalizzazione: un evento quindi epocale, con epicentro Wall Street.

Eccesso di indebitamento, eccesso di capacità produttiva, eccesso di disuguaglianza sociale, così si potrebbero riassumere le ragioni che sottostanno alla esplosione dello tsunami finanziario. Ma l’eccesso di indebitamento, cioè del consumatore a debito americano, porta immediatamente al signoraggio del dollaro ed alla questione della moneta di riserva del sistema finanziario mondiale; l’eccesso di capacità produttiva, la marxiana epidemia della sovrapproduzione, riconduce alla anarchia degli spiriti animali che governa la dinamica dell’investimento, l’eccesso di disuguaglianza porta, a sua volta, al declino della potenza del lavoro.

Abbiamo davanti il ritorno della diseguaglianza degli anni venti, secondo la valutazione di Paul Krugman. Possiamo, in termini di diseguaglianza, risalire persino più indietro nei decenni, secondo il celebre diagramma di Pier Luigi Ciocca. La diseguaglianza attuale ha raggiunto un livello tale da rendere la spesa privata nettamente al di sotto dal garantire il pieno utilizzo della capacità produttiva, come indica emblematicamente l’industria dell’auto.

Se tali sono le ragioni strutturali della crisi attuale, la fase che si è aperta porterà a lungo i segni di tali cause ed imporrà sul tavolo della lotta politica e sociale questioni che, a destra, la lunga egemonia liberista aveva aggirato ed occultato, ritenendole un residuato della storia, mentre, a sinistra, si diffondeva l’illusione della politica come semplice assecondamento del mercato. Ricordate Antony Giddens che esortava ognuno a diventar impresario di se stesso!

La grande crisi rappresenta uno spartiacque tra la prima globalizzazione - apertasi nel 1989 - e la seconda globalizzazione, sia in termini economici che in termini politici. Il tramonto del liberismo significa in primo luogo il ritorno della politica, il riproporzionamento tra la potenza del mercato ed il potere della politica. Qualche anno fa Jurgen Habermas riteneva che la questione più importante che ci si doveva porre era quella di sapere se la forza del liberismo planetario potesse essere nuovamente posta sotto controllo, come era avvenuto con il capitalismo fordista. Oggi possiamo affermare che la politica riguadagna terreno. Fino a qualche mese fa, il centro del mercato erano gli Stati Uniti, il centro degli Stati Uniti era Wall Street, il cuore di Wall Street erano le grandi banche d’affari, il cuore delle banche d’affari erano i loro prodotti derivati: ora il cuore dell’America è tornato a Washington. Dopo la perestroika del socialismo reale, sembra iniziare la perestroika del capitalismo reale.

In Europa, la destra liberista è diventata rapidamente interventista, i campioni della deregulation sono diventati, nello spazio di un mattino, cantori del ruolo dello Stato, dell’imbrigliamento degli spiriti animali del mercato, filosofeggiano persino sulla riscoperta dell’etica negli affari. Non c’è stato il tempo neanche di argomentare seriamente sulle responsabilità liberiste della crisi, che il banco degli accusati è risultato immediatamente vuoto. La crisi è diventata una calamità naturale, da fronteggiare con sforzi congiunti; politicamente, la destra ha preso in contropiede la sinistra, è diventata rapidamente “keynesiana” appropriandosi della impostazione tradizionalmente socialdemocratica, ed ha lasciato la sinistra a mani vuote, confinandola ad una posizione sostanzialmente pauperistica e protestataria.

A marzo, la banca centrale della Cina ha scosso il mondo finanziario proponendo un nuovo assetto del sistema monetario mondiale: i diversi paesi leghino la quotazione delle valute ad un paniere che non ha come unico protagonista il dollaro, ma i “diritti speciali di prelievo” del Fondo Monetario. La proposta è abbastanza analoga a quella che fece Keynes a Bretton Woods. La grande crisi pone sul tavolo uno dei suoi primi effetti, la questione cioè della eccessiva influenza degli Stati Uniti sulla disponibilità di valuta e di condizioni di credito, la questione del dollaro globale. A Bretton Woods il rappresentante degli Stati Uniti, Harry Dexter White, poteva replicare a Keynes che in definitiva era stato il suo paese soprattutto ad aver vinto la guerra; oggi sono in tanti a poter ricordare agli Stati Uniti di essere l’epicentro della crisi più distruttiva del capitalismo degli ultimi due secoli.

Se le cause della grande crisi possono essere ricondotte ai tre eccessi: eccesso dell’indebitamento, eccesso di capacità produttiva, eccesso di disuguaglianza, proprio analizzando tali cause è possibile delineare le coordinate della riflessione, volta a fissare i termini di un riposizionamento teorico e strategico della sinistra politica e sociale. Su almeno quattro questioni dominanti: geoeconomia e possibile ruolo del continente europeo in un mondo multipolare; nuovo modello di sviluppo e ruolo dello Stato; nuova questione sociale e ruolo del lavoro; forma-partito.

1) La pressoché inevitabile fine del “dollaro globale” propone con ben altra urgenza la questione del ruolo dell’euro, e quindi, la questione dell’avanzamento dell’integrazione politica dell’Europa, mentre le destre spingono su un ripiegamento nazionalistico, protezionistico xenofobo.

2) Il declino presente è globale e sincronizzato; non si esce da questo declino a colpi di esportazioni, come è avvenuto, per alcuni, in passato. Sostiene Joseph Stiglitz che “la strada di una nuova prosperità a colpi di esportazione” è bloccata proprio dalle caratteristiche della crisi attuale: fine del consumatore a debito americano e sincronia mondiale della crisi stessa.

Dalla fase di stimolazione, diventerà necessario passare alla fase dell’intervento diretto dello Stato, un’altra dose della medicina keynesiana. Qui emergerà, più che sulle politiche di stimolazione o di salvataggio, l’alternativa tra il ruolo dello Stato come stratega dello sviluppo oppure dello Stato come scudo degli interessi costituiti. Il tema del nuovo modello di sviluppo e dello Stato come stratega, stà già emergendo con tutta la sua forza. Il fascino di Obama, in fondo, sta nel lasciare intravedere già questa fase.

3) Il ritorno della disuguaglianza ha come causa dominante la caduta della potenza   politica e sociale del lavoro. Già Modigliani aveva dimostrato il valore non solo socialmente, ma anche economicamente positivo di una distribuzione egualitaria del reddito. La ricostituzione del potere negoziale del lavoro rappresenta quasi la prova regina della utilità della forza della Sinistra.

La globalizzazione è in primo luogo una politica del lavoro alla scala del mondo. La nuova configurazione della questione sociale è data dal fatto che un miliardo e mezzo di operai della nuova industrializzazione sono stati messi in competizione - hanno accerchiato - il mezzo miliardo di operai della vecchia industrializzazione.

Inoltre accanto ad una forte polarizzazione tra le diverse qualità del lavoro - lavoratori Microsoft e lavoratori McDonald’s - abbiamo davanti l’approfondirsi di due grandi fratture: tra chi è coperto e chi è scoperto contrattualmente, tra chi beneficia e chi è privato di ammortizzatori sociali. Le cosiddette riforme liberiste - minor protezione del diritto, in nome delle esigenze del mercato - hanno accentuato tutti i termini delle contraddizioni. Salire al livello di tali contraddizioni diventa imprescindibile, per poter operare una riconquista della forza contrattuale del lavoro. Senza ridisegnare nuove forme di protezione, come suggerisce Robert Castel, partendo dalla metamorfosi del lavoro, cioè dal passaggio dal lavoro-posto al lavoro-percorso, la sinistra non riuscirà ad accumulare la forza necessaria per governare gli esiti della crisi.

4) Infine la forma-partito. Dopo le riflessioni, realistiche, di Kats e Mayr sulla evoluzione del partito politico, sul suo progressivo impoverimento, dopo la grande stagione del partito di massa, la domanda che sorge spontanea è se problemi giganteschi come quelli che la crisi materializza, possano essere affrontati dalla sinistra con macchine politiche sostanzialmente mediatico-elettorali e con ottiche, in buona sostanza, nazionali.

La risposta alla crisi del partito di massa con i più o meno mascherati partiti del leader e connessi spin doctors ha portato soltanto alla attuale evaporazione delle forme organizzate che, d’altronde, non terrebbero il campo neanche in tempi di bonaccia. La via si è rivelata una semplice fuite en avant: ricorda la metafora del soldato di Samarcanda, che fuggendo avanti, pensava di sfuggire alla morte mentre in realtà gli andava incontro.

L’esplodere della crisi riporta oggi il discorso ai suoi termini fondamentali; affrontare i problemi che la crisi propone rende necessario un partito capace di combattere sia sul terreno elettorale, ma soprattutto sul terreno della mobilitazione sociale e culturale.

La rinascita necessaria di un grande partito della integrazione sociale può avvenire solo su nuove basi, se tale partito assuma cioè come caratteri distintivi e non solo coreografici ed in tutte le sue implicazioni, la configurazione della nuova questione sociale, la nuova dimensione sopranazionale, continentale - lo Stato federale europeo come utopia concreta - e scelga di porsi al centro di una costellazione di forze, nuove ed antiche, che fanno della partecipazione il modo concreto di affrontare la precarietà, l’insicurezza, la vulnerabilità, della vita di oggi.

Sabato, 25. Luglio 2009
 

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