La globalizzazione democratica di Rodrik

Nel suo nuovo saggio l'economista sviluppa le idee elaborate in questi ultimi anni e formula una serie di proposte per tentare di conciliare il ruolo dello Stato nazionale, che considera tutt'altro che esaurito, con un'economia per cui i confini non hanno più significato

La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.

Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri.  Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei. I primi sono designati dalle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale ed hanno potere di veto sulle azioni da intraprendere. Gli altri sono eletti dall’assemblea generale e restano in carica due anni. I membri dell’assemblea dell’ONU sono rappresentanti degli Stati e non dei popoli.

Per inciso, una breve considerazione sull’Unione europea. Un caso speciale di integrazione economica e monetaria costruita sulla base di due approcci: quello funzionale comunitario e quello intergovernativo. L’obiettivo è quello di diventare una Unione politica. Ha un parlamento regolarmente eletto ma i suoi poteri sono limitati rispetto a quelli di una grande democrazia liberale. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ed è, allo stesso tempo, massimo organo esecutivo – in radicale contrasto con il principio della separazione dei poteri.  Di conseguenza la sua struttura istituzionale, come uscita dai Trattati di Lisbona, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale, evidenzia un grosso deficit democratico al quale non si riesce a porre rimedio.  L’UE è riuscita ad assicurare ai Paesi membri un lungo periodo di pace ma non riesce a giocare un ruolo primario negli affari internazionali, nel governo della globalizzazione, nelle politiche sociali e redistributive per non parlare delle politiche di stabilizzazione a senso unico.

Come si è ingarbugliata la situazione con l’accelerazione della globalizzazione? Questa è avvenuta sotto l’egemonia della governance neoliberista, ossia, della politica tesa a delimitare l’intervento dello Stato, sull’assunto non dimostrato che i mercati siano perfettamente efficienti ed in grado di risolvere tutti i problemi che incontrano.  Intanto bisogna ricordare: 1) il crollo nell’agosto 1971 del sistema di Bretton Woods a cambi fissi e, nell’impossibilità di raggiungere un nuovo accordo tra i principali paesi del mondo, l’adozione del sistema a cambi flessibili; 2) nel 1976 il premio Nobel per l’economia veniva conferito a Milton Friedman, esponente apicale della Scuola di Chicago, un anno dopo la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) che segnano l’affermarsi del welfare State nei Paesi europei e l’inizio dei 40-45 anni vergognosi di egemonia neoliberista in Europa oltre che in America. Le idee neoliberiste trovano attuazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rispettivamente con l’ascesa al potere di Margareth Thatcher e Ronald Reagan.  3) Prima ancora, già a partire dalla metà degli anni sessanta, in Europa era nato il c.d. mercato degli eurodollari creato principalmente dai paesi mediorientali produttori  di  petrolio, che è venuto crescendo in maniera incontrollata specie dopo i due shock petroliferi del 1973 e 1979. Il forte aumento non solo del prezzo del petrolio ma anche di altre materie prime ha posto serie difficoltà di stabilizzazione monetaria e finanziaria in molti paesi del mondo. Ricordo che gli Accordi di Bretton Woods prevedevano controlli sui movimenti di capitale in fatto mai implementati in modo efficace. Ma dopo il crollo del 1971, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la situazione non consente controlli di sorta. La risposta europea del 1992 è quella sbagliata. Nel 1992 l’UE in coerenza con la libertà di stabilimento delle imprese formalizza la piena libertà dei movimenti di capitali che l’Italia mette in atto in anticipo nel 1991.

Nel 2008 anche i paesi avanzati si accorgono di essere vittime della globalizzazione finanziaria ma solo nel 2012 il FMI, che fino ad allora aveva contribuito a determinare il c.d. Washington Consensus, cambia posizione e chiede di stabilire nuovi controlli sui movimenti di capitale. Come osserva Rodrik con la piena libertà dei movimenti si facilita l’indebitamento, si aumentano più facilmente i consumi che gli investimenti; aumenta la instabilità finanziaria perché molti capitali si muovono liberamente nel mercato globale non necessariamente per promuovere lo sviluppo equo e sostenibile ma anche per cogliere occasioni di profitto a breve termine.  Prevale la veduta corta (shortism).

Ma ci sono anche due conseguenze principali della globalizzazione: la prima è la concorrenza economica tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo. Detta concorrenza ha dei vantaggi e degli svantaggi. Favorisce i consumatori dei paesi ricchi ma danneggia i lavoratori nei limiti in cui le imprese che producono gli stessi beni importati a prezzi più bassi sono costrette a chiudere e licenziare i loro dipendenti. La seconda conseguenza è la concorrenza fiscale. In un contesto di piena libertà dei movimenti di capitale, molti paesi per attirare investimenti dall’estero abbassano le tasse sui profitti delle imprese e il che va scapito anche della possibilità di finanziare l’attuazione dei diritti sociali ed economici. Anzi è proprio questo l’obiettivo dei neoliberisti: ridurre la spesa per i welfare e l’attuazione dei diritti sociali che è aumentata a loro giudizio, a livelli insostenibili. 

Come sappiamo, due approcci sostengono la teoria del commercio internazionale: il libero scambio basato sui costi e vantaggi comparati a maggiore beneficio di tutti e il mercantilismo, ossia, il controllo da parte del governo del commercio estero per accumulare saldi commerciali positivi e massimizzare la ricchezza dei paesi più efficienti. Schematizzando: I liberisti sostengono i consumatori; i mercantilisti i produttori. Secondo Rodrik, “i liberisti e i mercantilisti possono convivere a livello globale ma la felice coesistenza è finita”.  Ricorda che tuttora il FMI considera il controllo sui liberi movimenti di capitale come “estrema ratio” anche se esso resta una premessa necessaria per la stabilità finanziaria. Anche a questo riguardo Rodrik ricorda la rilevanza dei fattori interni ai singoli paesi (approcci diversi alla regolamentazione) soprattutto per far capire che non tutti i guai vengono dalla globalizzazione. In particolare nei PVS mancano le premesse e i presupposti interni che possono assicurare la stabilità finanziaria interna. In alcuni PVS –come in Italia – ad esempio, non manca il risparmio ma il problema è che i risparmiatori non di rado preferiscono investirli in paesi maggiormente stabili. 

La situazione è complicata dal fatto che molti paesi che agiscono sulla scena mondiale si trovano in fasi di sviluppo differenziate a seconda che affrontino problemi di prima industrializzazione oppure di passaggio da fasi di industrializzazione a quella di economie terziarizzate e/o di servizi avanzati e di istituzioni politiche in grado di gestire questi passaggi.    Secondo Rodrik, in generale – anche in termini politici – puntare sui servizi non paga. Anche in Italia, ad esempio, il settore è molto frammentato e in gran parte arretrato sia nel settore privato che in quello pubblico; pesa ancora il dualismo geografico Nord-Sud, dimensionale (grandi e PM imprese); e non ultimo, quello tra zone urbane e quelle rurali. La crescita più rapida di alcuni PVS è dovuta a processi di prima industrializzazione che consentono di trasformare velocemente contadini in operai mentre passare da servizi arretrati ed inefficienti a servizi ad alta produttività richiede personale altamente qualificato, con vasta gamma di competenze, e capacità istituzionali diversificate e, quindi, formazione permanente.  Esemplare secondo Rodrik il caso indiano. 

Ci sono anche gli squilibri fondamentali nelle bilance commerciali dei diversi paesi. Più vicino a noi c’è il caso Germania che accumula grossi surplus commerciali sacrificando e non espandendo la domanda interna che beneficerebbe anche gli altri Paesi membri. Paradossalmente e per motivi diversi, anche l’Italia gestisce una bilancia commerciale attiva per alcuni punti di PIL perché la stagnazione dell’economia e della domanda interna non attiva una corrispondente domanda di beni importati.

A proposito del caso Cina, che Rodrik riprende diverse volte, a me sembra interessante il confronto tra Cina e Russia: due dittature che hanno seguito percorsi diversi nella transizione da economie a pianificazione rigida ad economie di mercato o sedicenti tali. È interessante la verifica della tesi di alcuni teorici dello sviluppo secondo cui ci sarebbe un rapporto diretto tra liberalizzazione dell’economia e della politica e, quindi, della democrazia. La Russia ha messo in atto una transizione caotica e disordinata disperdendo il più grande patrimonio pubblico della storia. La Cina è riuscita ad assicurare una transizione ordinata a scapito della liberalizzazione politica.  In occasione del quarantennale (1978-2018) delle riforme economiche avviate Deng Xiaoping,  è stato sottolineato come l’economia cinese sia cresciuta, come noto, a tassi sostenuti ma “credere che la democrazia sia lo stadio ultimo e in qualche modo naturale dello sviluppo è stato un errore”. Al contrario Xi Jinping tenta di convincere i suoi concittadini della logica opposta: è perché la Cina non è una democrazia che l’economia ha potuto svilupparsi così in fretta e ha consentito alla stragrande maggioranza dei cinesi di uscire dalla povertà. Ma si contano tuttora circa mezzo miliardo di poveri. Si tratta di uno scambio equo? Spetta ai cinesi dirlo ma non solo a loro perché come sappiamo il mondo non può assistere indifferente alla compressione dei diritti fondamentali civili e sociali ovunque ciò si veirifichi.

Tornando ai liberi movimenti di capitale che spesso destabilizzano la situazione di molti paesi, servirebbe un nuovo sistema di controlli ma perché questi possano essere efficaci dovrebbero essere pervasivi e onnicomprensivi piuttosto che chirurgici e selettivi. Ma c’è un’altra complicazione da considerare: diversi paesi adottano sistemi diversi di controllo più o meno complicati e più o meno efficaci e siamo in una fase dell’economia mondiale che rende più difficile un approccio cooperativo. USA e UE hanno problemi di bassa crescita. Non hanno più la forza di dettare le regole. Trump non apprezza il multilateralismo e ripiega sugli accordi bilaterali. La Cina e l’India hanno enormi difficoltà di ricollocazione della manodopera dalle zone rurali a quelle urbane, continuano a crescere ma anche loro enfatizzano problemi di sovranità nazionale.

 Il G20 e la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) non sembrano consapevoli di questo radicale cambiamento e della necessità di governarlo. Abbiamo detto dell’approccio del FMI ma a fronte della concorrenza fiscale e degli squilibri fondamentali nelle bilance dei pagamenti servirebbe una Tax Authority come teorizzata da Vito Tanzi e una più decisa attività di coordinamento da parte del FMI.  Sul ruolo di questa istituzione vedi articolo di Barry Eichengreen su il Sole-24 Ore del 30-08-2009 dove riassume le quattro missioni che il FMI dovrebbe perseguire per assicurare crescita sostenibile nella stabilità:

1) assistere i paesi che per motivi interni entrano in crisi finanziaria;

2) svolgere la funzione di riserva globale utile in particolare ai paesi poveri;

3) assicurare una supervisione macro prudenziale facendo previsioni e lanciando allarmi sui rischi per la stabilità finanziaria globale;

4) mettere in guardia i paesi ricchi dai rischi connessi alle loro politiche nazionali.

Il ruolo guida di supervisore macro prudenziale, di nuovo ed in generale, non è ben visto dai paesi membri restii a cedere sovranità ad un ente multilaterale.

Nel cap. X Rodrik riprende i sette criteri che aveva elaborato nel suo libro La Globalizzazione intelligente del 2011:
1) i mercati devono essere profondamente integrati in sistemi di governance democratica in modo da consentire non solo misure di stabilizzazione finanziaria ma anche sistemi fiscali redistributivi, reti di sicurezza e programmi di previdenza sociale;
2) l’organizzazione della governance democratica”. Mi sembra difficile organizzare una governance democratica se i suoi componenti gli Stati-nazione non sono democratici;
3) “non esiste ‘una sola via’ per la prosperità”;
4) “i paesi hanno il diritto di proteggere le proprie regolamentazioni e istituzioni”;
5) I paesi non hanno il diritto di imporre ad altri le proprie istituzioni;
6) lo scopo degli accordi economici internazionali è di stabilire norme sui traffici per gestire l’interazione fra istituzioni nazionali;
7) nell’ordine economico internazionale i paesi non democratici non possono contare sugli stessi diritti e privilegi di cui godono le democrazie.

A parte la contraddizione insita nell’accostamento di termini alternativi, una governance democratica mi sembra altamente improbabile ai livelli sovranazionali di cui ci stiamo occupando – del resto confermata dal punto settimo. Infatti è chiaro che beni pubblici globali come la stabilità finanziaria, il commercio internazionale equo, divieto e/o assenza di dumping sociale, riduzione degli squilibri fondamentali e riduzione delle diseguaglianze non possono essere forniti se non c’è un alto grado di cooperazione a livello mondiale. E lo scenario prevedibile non sembra gran che incoraggiante se uno pensa all’abbassamento del livello di cooperazione a livello nazionale per effetto delle politiche populiste e sovraniste che, contrariamente alla propaganda politica, abbassano il livello di coesione sociale.

Più che negli ultimi due capitoli dove Rodrik propone il ripensamento delle sinistre e lo Stato innovatore, il commercio internazionale equo e il ripensamento della democrazia, il cuore del problema e la risposta fondamentale quanto difficile sta alle pp. 230-32 dove Egli propone che i cittadini pensino in maniera globale: “più ognuno di noi penserà a se stesso come un individuo di mentalità cosmopolita e manifesterà al proprio governo preferenze improntate ad essa, meno avremo bisogno di rincorrere la chimera di una governance globale”. È utopia? Si ma necessaria. E non mancano esperienze concrete che elenca nelle pagine citate e altri segnali per cui lo schema potrebbe funzionare. Ne cito uno solo: siamo in una fase di grande trasformazione economica planetaria a cui partecipano non solo le grandi multinazionali ma anche piccole e medie imprese che sempre più numerose si inseriscono nelle c.d. “catene mondiali del valore”. Cresce la interdipendenza economica non solo tra i paesi che scelgono volontariamente processi di crescente integrazione ma anche tra quelli che pensano di rimanere autonomi. Questo processo ha funzionato in Europa e potrebbe funzionare anche a livello globale.

Dani Rodrik
Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata
Einaudi 2019

@enzorus2020


 

Domenica, 14. Aprile 2019
 

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