La fortezza America

Il discorso di George Bush sullo Stato dell'Unione tratteggia un paese concentrato su se stesso, tanto da rendere più restrittiva anche la politica dell'immigrazione

Il messaggio sullo Stato dell’Unione, che Bush ha indirizzato al Congresso il 21 gennaio, cade all’inizio di un anno alla fine del quale hanno luogo le elezioni per il rinnovo del mandato presidenziale. Bush, ma chiunque altro in qualunque paese del mondo lo avrebbe fatto, ha quindi avuto occhio soprattutto alla scadenza elettorale. Evidentemente occorre andare al di là di questa scontata verità per leggere se nel messaggio ci sia anche qualche cosa di più, oltre all’imbonimento dell’elettorato e che cosa.

Il messaggio è diviso in due parti la cui estensione, nell’ambito dei 50 minuti di durata dell’allocuzione, è esattamente eguale. La prima parte ha un solo tema: la lotta al terrorismo. La seconda parte invece è molto composita, manca di un baricentro identificabile, sfiora diversi problemi, rinviando ad una scadenza prossima, tra 15 giorni, momento indicato per la presentazione al Congresso del bilancio previsionale. In quella sede, in un contesto molto meno celebrativo, si verificherà il vero confronto tra le posizioni del presidente repubblicano (ma non necessariamente di tutti i repubblicani) sull’equilibrio del sistema economico americano e sulle sue prospettive di sviluppo e quelle del variegato, ma al momento assai meglio compattato schieramento dei democratici.

Il confronto sarà molto aspro, poiché, pur evocando, ma una sola volta e su un tema marginale (la proposta di alleggerimento del costo di medicinali agli anziani) lo spirito bipartisan, Bush è andato dritto per la sua strada lungo tutto il contorto percorso della sua allocuzione proponendo senza mezzi termini la sua America, in contrasto con una caricatura di quella che potrebbe essere l’America dei suoi avversari.

Tuttavia è nella prima parte che, a mio avviso, emerge una visione molto netta ma anche molto speciale ed assai poco condivisibile della lotta al terrorismo. Si compiace Bush ad affermare (e una salva di applausi “a scena aperta”, cioè a interruzione del filo del discorso, sottolinea il consenso di parte dell’uditorio) che “sono trascorsi 28 mesi, dall’11 settembre 2001, ormai oltre due anni senza un (nuovo) attacco sul suolo americano” e che invece “gli assassini sono continuati in…” e qui una serie di citazioni di alcuni dei luoghi degli attentati fuori dagli Stati Uniti.

Questo è il punto dell’allocuzione nel quale emerge con maggiore nettezza il concetto della “fortezza America” e dell’impegno prioritario alla sua difesa, certamente legittimo, ma al quale Bush collega poi ripetutamente, giustificandola, la presenza in tutte le parti del mondo di “uomini e donne la cui vigilanza protegge l’America”.

Nell’ultima frase della prima parte del discorso si sottolinea, sì, che “L’America è una nazione che ha una missione, che deriva dai nostri principi basilari”, ma, ci si domanda, quali sono questi principi? L’ovvia sintesi offerta da Bush è che essi si riassumono nella “leadership della causa della libertà”, ma nel leggere il testo nel suo insieme si ha più l’impressione di una riedizione dell’isolazionismo storico del Partito Repubblicano, che ha tanta presa nell’elettorato più conservatore del paese e sulle famiglie dei caduti in combattimento.

Senza andare al ricordo nefasto della “Deutschland uber alles”, si percepisce la ricorrente preoccupazione di ricondurre le iniziative verso Afganistan, Iraq, Libia, Iran – alcune di guerra, altre di trattativa, alcune in atto, altre annunciate – alla prioritaria difesa della fortezza America. Lo stesso tema ricorre, significativamente, in un passo particolare della seconda parte del discorso, là dove si annuncia la nuova politica verso gli immigrati: non più la selezione delle richieste di accesso e la concessione di ingressi a tempo indeterminato o correntemente rinnovabili, ma la concessione di permessi temporanei (a tempo determinato e, si suppone, difficilmente rinnovabili), riforma motivata sia “per proteggere la sicurezza nazionale”, sia per “connettere l’offerta di lavoratori stranieri che vogliano occupare (un posto di lavoro) con la domanda di imprenditori (americani) che non trovino nessun cittadino americano che aspiri ad occupare (quel) posto”.

In questo modo la fortezza America viene preservata, sia con azioni di guerra o di trattativa nel mondo, sia con restrizioni alla stabilizzazione di lavoratori stranieri sul suolo americano. Il richiamo alla difesa della causa della libertà appare quindi piuttosto una copertura per interventi selettivi, cioè non verso qualunque paese non democratico, ma verso quelli di essi che appaiono “minacciosi”, piuttosto che verso qualsiasi paese che non onori i principi della democrazia.

Su queste posizioni è chiaro che il Partito democratico, il partito di Roosevelt – che portò l’America a sfidare – senza ancora essere direttamente sfidata - il nazifascismo, avrà qualche cosa di assai poco bipartisan da dire, iniziando dalla valutazione della veridicità e della portata delle presunte minacce, tema sul quale, anche in questo indirizzo sullo stato dell’Unione, Bush è apparso piuttosto evasivo.


L’incipit della seconda parte del messaggio di Bush tenta, brevemente e senza molta convinzione, di attribuire alle riduzioni fiscali operate dalla sua amministrazione il merito della recente, ancora incerta e breve, ripresa dell’economia americana, che per gran parte del mandato di Bush è tuttavia rimasta in uno stato di profonda recessione. I recenti dati della ripresa hanno per Bush il seguente significato: “Tali cifre confermano che il popolo americano usa il suo danaro meglio del governo e voi (la maggioranza del Congresso) avete fatto bene a restituirglielo (mediante le riduzioni fiscali)”.

Questo singolare ritorno al laissez faire, tramontato cent’anni or sono, non è solo un espediente elettoralistico, ma invece e sorprendentemente una bussola per orientare la futura azione di governo dell’Amministrazione Bush.

Nel seguito infatti il messaggio di Bush è un mix di intenzioni “caritatevoli” e promesse elettoralistiche, legate però dal filo persistente tessuto da un’amministrazione che vuol limitarsi ad assecondare le spinte del mercato, perseverando da una parte nelle riduzioni della pressione fiscale, ma nello stesso tempo incrementando il disavanzo di bilancio, previsto per il 2004 nella misura del 4%: ciò che si risparmia oggi con le riduzioni fiscali viene quindi bilanciato dall’aumento del deficit dello Stato, da mettere in conto debito da saldare da parte della generazione futura.

Nel merito si rinuncia ancora una volta ad istituire un sistema nazionale pubblico di assicurazione contro le malattie ma si monetizzano subito riduzioni fiscali a favore di anziani e figli, che hanno un immediato impatto sulle convenienze delle famiglie (nella prospettiva del voto di novembre), poiché la famiglia viene elevata al rango di interlocutore principale del governo, un certo tipo di famiglia, da rafforzare con una ampia apertura di credito (in forma di incentivi fiscali e monetari) verso le associazioni di volontariato, particolarmente quelle basate su un credo religioso, qualunque credo purché religioso, accompagnate da una serie di buone intenzioni e incentivi a favore dei figli, degli anziani, degli ex carcerati.

Ma tutto ciò può sostituire una strategia dello sviluppo della società americana, che non viene in alcun modo richiamata nell’allocuzione di Bush? Si può restringere il campo di osservazione ai problemi della famiglia americana in un mondo complesso nel quale le disparità si accentuano e le istituzioni internazionali, che sorsero dopo la seconda guerra mondiale con obiettivi di equità e sviluppo (Fondo Monetario, Banca mondiale, Organizzazione del Commercio e perfino le Nazioni Unite) versano in uno stato di crisi profonda? Si può risolvere la percezione del mondo al di là dei confini degli Stati Uniti in soli termini di difesa della fortezza America, come indicato nella prima parte del messaggio presidenziale?

Pertanto la seconda parte del messaggio di Bush, apparentemente disorganica e generica, ribadisce una visione isolazionistica di quello che fu in altri tempi “il sogno americano”, una visione arida e egoistica, nell’ambito della quale non trova neppure spazio una prospettiva per i cittadini americani meno fortunati, vecchi, giovani, omosessuali, ex carcerati, drogati, immigrati, tutti oggetto di limitate azioni caritatevoli, elargite con parsimonia ed a patto di una devota adesione alla magica triade del conservatorismo bigotto: patria, famiglia, religione.

Sabato, 24. Gennaio 2004
 

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