La 'flexsecurity' tra illusione e illusionismo

Il neologismo significa che bisogna conciliare maggiore flessibilità del lavoro con la necessità di massimizzare la sicurezza di tutti. Ma per applicarla in Italia bisognerebbe affrontare una serie di grossi problemi a cui nessuno sembra pensare

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Ridurre l’insicurezza

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Lucien Febvre sintetizza la condizione della vita premoderna con una frase laconica: “Peur toujours, peur partout” (Paura sempre, paura dappertutto). In effetti nei secoli bui l’umanità ha vissuto in una permanete situazione d’ansia e di paura. Il mondo oltre la siepe ha costituito una costante fonte di angoscia. I lupi nelle foreste, i briganti per strada, le malattie incurabili, i signori prepotenti, crudeli e senza scrupoli, la razzie dei soldati, la fame dappertutto.

 

Allora però ogni paura aveva un nome. Oggi essa corrisponde invece ad uno stato d’animo, ad una sensazione che, in qualche misura, appare inafferrabile. Quello che tende a prevalere è infatti un diffuso sentimento di insicurezza. Insicurezza per la vita metropolitana. Insicurezza per il lavoro e con esso per il proprio ruolo nella società. Timore di cadere nell’indigenza, di rimanere senza cure adeguate in caso di malattia, senza una pensione dignitosa nella vecchiaia. L’ansia per i figli che non trovano lavoro, o rischiano di perderlo. Queste apprensioni, queste preoccupazioni, sono naturalmente aumentate con il ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale che erano stati la più grande conquista europea del secolo scorso. Conquista che, negli ultimi decenni, è stata prima duramente criticata e poi rimessa in causa dalla dottrina “liberista”. Dottrina secondo la quale alla coesione ed alla solidarietà sociale si dovrebbe preferire la regola: “ognuno per sé e Dio per tutti”. Nella convinzione che questo è il solo modo perchè i singoli individui sentano la responsabilità di procacciarsi i mezzi di sussistenza ed un livello di vita decente. Dove tale cultura abbia portato il mondo ognuno è in grado ora di constatarlo.

 

I più moderati tra i devoti di quella ideologia si sono appoggiati anche ad alcuni dati reali. Come i cambiamenti demografici (meno nascite ed aumento della durata media della vita) soprattutto nei paesi ricchi. Con conseguenze non sempre facili per i bilanci pubblici. Oppure gli effetti della globalizzazione ed il loro esito sulle capacità competitive dei diversi sistemi produttivi ed in definitiva sul lavoro. In considerazione di questi ed altri aspetti, a partire dagli Stati Uniti, nell’ultimo quarto di secolo si è fatta strada l’idea che il rimedio risolutivo consistesse “nell’affamare la Bestia”. Si è cioè puntato sulla riduzione dei compiti in precedenza affidati allo Stato, scommettendo sulle capacità dei singoli individui e sulla “efficienza” del mercato. Quanto il mercato sia efficiente e capace di autoregolarsi lo stiamo tutti scoprendo a nostre spese.

 

Resta il fatto che nella maggioranza dei paesi occidentali, quasi per contagio, si è incominciato a ritenere un bene (una sorta di molla del progresso) l’aumento delle diseguaglianze e per essere sicuri che sulla strategia non sorgessero equivoci è stato avviato un progressivo ridimensionato dei programmi di spesa sociale. Il risultato di queste politiche è ora sotto gli occhi di tutti: siamo precipitati nella più grave crisi economica del dopoguerra.

 

Sappiamo che all’origine della crisi ci sono state le speculazioni finanziarie (incluse le scorrerie di molti lestofanti), ma c’è stato anche il progressivo aumento delle diseguaglianze in ciascun paese. Ad esempio in America, dove la crisi ha avuto la sua incubazione ed alla fine è esplosa, è dai tempi di Reagan che i salari hanno incominciato a perdere terreno e la ricchezza ad essere accumulata sempre più nelle mani di pochi. Le cose non sono precipitate prima perché le elités del potere si sono illuse ed hanno illuso di riuscire ad anestetizzare il problema semplicemente prospettando ai lavoratori i termini di un implicito scambio: vi paghiamo poco, in compenso potete indebitarvi molto.

 

Nasce infatti nel contesto di questo sottinteso baratto la possibilità per gran parte degli americani di contrarre mutui ben oltre il valore del proprio appartamento, o di indebitarsi, praticamente senza limiti, con le carte di credito. Quando però, alla fine, il sistema è andato in “tilt” tutto si è afflosciato. Con le note drammatiche conseguenze per l’economia reale. Molti hanno perso la casa, ancora di più sono stati coloro che hanno perso il lavoro e, dunque, l’assistenza sanitaria. Numerosi Fondi pensione, attratti dal miraggio di poter aumentare facilmente il patrimonio con impieghi speculativi, hanno fatto bancarotta; lasciando centinaia di migliaia di persone senza pensione.

 

Di fronte a questo disastro anche non pochi devoti dell’ideologia “liberista” si sono ravveduti, o convertiti. E non hanno esitato ad invocare e sostenere un costoso programma di sostegno della domanda con massicci aiuti di Stato. Programmi, sia detto per inciso, estremamente più onerosi per le finanze pubbliche di quanto non sarebbe costato assicurare, da anni ed a tutti gli americani, un adeguato sistema di assistenza sanitaria e di protezione sociale. Per di più senza nessuna seria garanzia che le ingenti spese pubbliche che oggi si è costretti a sostenere possano funzionare. Siano cioè in grado di produrre i risultati auspicati. Infatti i pronostici restano incerti. Per lo meno fino a quando non verrà strutturalmente affrontato anche il problema della riduzione delle diseguaglianze. Cioè fino a quando non si incomincerà ad invertire la tendenza che ha incoraggiato la scriteriata polarizzazione dei redditi.

 

E’ evidente che per perseguire tale risultato possono essere attivati una molteplicità di mezzi. Tuttavia quelli essenziali sono sicuramente due: una contrattazione efficace dei salari ed una tassazione davvero progressiva. D’altra parte, come spiegavano ampiamente i vecchi manuali di economia, la tassazione è un elemento cruciale delle politiche redistributive. Anche perché dall’entità delle entrate dipende la capacità di spesa pubblica. Incluso l’ammontare delle risorse destinate al finanziamento della spesa sociale.

 

Come si sa, per incominciare a dare una risposta a questi problemi il presidente Obama, subito dopo il suo insediamento, ha preso, tra l’altro, un paio di decisioni. La prima, per così dire, di “moralità pubblica” e nello stesso tempo un chiaro segnale agli americani per rimarcare che le diseguaglianze non sono un valore. Ma, al contrario, un disvalore sociale ed economico. Essa consiste nella fissazione di un tetto di 500 mila dollari delle retribuzioni annue per i top-manager delle aziende di Wall Street che hanno ricevuto o riceveranno fondi pubblici. A prima vista potrebbe sembrare solo una decisione esemplare, ma tutto sommato simbolica. In realtà non lo è affatto. Basti pensare che, solo nel 2008, ed a dispetto della crisi, i bonus di fine anno a Wall Street hanno superato i 18 miliardi di dollari. O che, dal 2000 ad oggi, (cioè in soli otto anni) la finanza allegra di inizio millennio ha regalato a broker e manager di hedge fund americani 330 miliardi di dollari. Una cifra sufficiente da sola a finanziare quasi la metà dell’intero piano varato da Washington per il salvataggio dell’economia. Una pioggia d’oro che, oltre tutto, non comprende le stok-option e le buonuscite miliardarie distribuite con generosità dalle banche d’affari, proprio negli anni in cui innescavano il raggiro e la bomba ad orologeria dei subprime. Il presidente americano ha motivato la decisione dicendo tra l’altro che è sua ferma intenzione impedire che “a sostenere il fardello della crisi siano più le vittime che non i responsabili”. Obiettivo più che ragionevole. Sia dal punto di vista etico che politico e sociale.

 

La seconda riguarda il riconoscimento del diritto all’assistenza sanitaria gratuita a quattro milioni di bambini. Come “primo passo” per l’assistenza sanitaria estesa a tutti. E proprio per rendere praticabile questo progetto ha confermato anche il proposito, già anticipato in campagna elettorale, di aumentare del 10 per cento la aliquota relativa ai redditi più elevati. Redditi che riguardano oltre il 5 per cento degli americani.

 

E’ probabile, anzi è pressoché certo, che queste misure dovranno essere ulteriormente adeguate ed integrate. Tuttavia esse sono indicative della direzione di marcia intrapresa. In particolare della volontà di incominciare a correggere il dissennato aumento delle diseguaglianze. Che nell’ultimo quarto di secolo non aveva praticamente mai trovato resistenze. Sono perciò misure che confermano la volontà di rottura, di radicale cambiamento del nuovo presidente americano rispetto ad una politica responsabile (e comunque) complice del disastro attuale. Non sarà assolutamente facile. Perché molti segnali fanno intendere che il suo cammino sarà per gran parte in salita.

 

In ogni caso, soprattutto in presenza delle novità che si stanno delineando nella politica americana non può che sorprendere che in Italia il tema di una diversa e più equa redistribuzione del reddito sia invece del tutto assente dall’agenda del dibattito pubblico. Tanto più perché questo silenzio pesa, e non poco, anche sulle concrete possibilità di correggere effettivamente il corso delle cose e possibilmente avvicinare una fuoriuscita dalla crisi.

 

E’ una rimozione francamente incomprensibile. Tanto più che l’Italia è alle prese sia con un serio problema di diseguaglianze (in materia seguiamo solo gli Stati Uniti e precediamo tutti gli altri principali paesi sviluppati), che con una spesa sociale nettamente inferiore al resto dell’Europa. In particolare per quanto riguarda le misure di protezione del lavoro e di sostegno alle famiglie in difficoltà. Punto già critico in passato, ma tanto più grave ed acuto in un periodo nel quale centinaia di migliaia di posti di lavoro vengono messi in causa.

 

Oltre tutto, si dovrebbe tenere conto che proprio in riferimento alle “politiche per il lavoro”, nel recente passato e nel quadro della cosiddetta “strategia di Lisbona”, la Commissione Europea ha pubblicato un “Libro verde” intitolato: “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”. Come è noto, lo scopo dichiarato del Libro verde è stato quello di aprire un dibattito in tutti i paesi della Ue per discutere sul modo di far evolvere il diritto del lavoro al fine di conseguire una “crescita maggiore e sostenibile” con “più posti di lavoro e di migliore qualità”. E quindi anche retribuiti meglio.

 

Secondo il Libro verde la modernizzazione del diritto del lavoro costituisce “un elemento fondamentale per garantire la capacità di adattamento dei lavoratori e delle imprese” all’impatto della globalizzazione e dell’invecchiamento demografico della maggior parte dei paesi europei. La modernizzazione implica perciò una “sfida” con cui i mercati del lavoro europei si debbono misurare. Sfida che, sempre secondo il Libro verde, consiste nel “conciliare maggiore flessibilità con la necessità di massimizzare la sicurezza di tutti”. In pratica una specie di “quadratura del cerchio” che la Commissione ha sintetizzato con il neologismo flexsecurity.

 

Neologismo che, a livello europeo, negli ultimi due anni è diventato una sorta di parola d’ordine, ma che in alcuni paesi (a cominciare dall’Italia) si presenta come un problema di difficile soluzione. Perché esprime la contemporanea necessità di introdurre efficaci elementi di protezione in mercati del lavoro sempre più flessibili, nei quali aumenta inevitabilmente la precarietà e l’insicurezza dei lavoratori, con un parallelo aumento della spesa sociale. In effetti “la ricerca della flessibilità sul mercato del lavoro – annota lo stesso Libro verde – ha generato una crescente diversità delle forme dei contratti di lavoro, che possono essere molto differenti dal modello classico di contratto, sia dal punto di vista della sicurezza dell’occupazione e del reddito, che da quello della stabilità relativa delle condizioni di lavoro e di vita che vi sono associate”.

 

In sostanza, dunque, la protezione sociale deve essere in grado di garantire la “sicurezza” per questi lavoratori. Sicurezza che la “flessibilità” mette appunto in causa. Equazione che si presenta particolarmente complicata da risolvere per quei paesi, tra i quali l’Italia, che in materia di protezione sociale continuano tranquillamente a pensare che si possano fare “le nozze con i fichi secchi”.

 

Vediamo di capire il perché, cercando di restare alla larga da contrapposizioni ideologiche che alzano molta polvere ed in compenso spiegano piuttosto poco. Per tentare di conciliare flessibilità e sicurezza, nel caso italiano si devono superare diversi ostacoli. Il primo (anche se in teoria non dovrebbe essere il più difficile) è che manchiamo della strumentazione necessaria persino alla conoscenza delle dinamiche occupazionali e per la valutazione dell’efficacia delle politiche. Mancano infatti sia un sistema informativo nazionale del lavoro (perché i sistemi informativi sono regionali e, per di più, non sono nemmeno in grado di comunicare tra di loro) che le misure (inclusi i mezzi) per valutare l’efficienza e l’utilità delle politiche che, di volta in volta, vengono adottate. Si tratta di sistemi organizzativi e di controllo presenti in tutti i principali paesi europei. Ma, forse poiché ci riteniamo “Un paese di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori”, abbiamo fin’ora preferito affidarci all’estro, alla creatività, anziché perdere tempo con strumenti organizzativi o di valutazione dell’efficacia delle decisioni prese. Il risultato ovvio è che nel campo delle politiche del lavoro (come purtroppo in tanti altri) le decisioni sono spesso prese sotto la spinta di mode ed opinioni che, alla prova pratica, si rivelano largamente infondate. Non di rado, finiamo così per “buscar el levante por el poniente”. Purtroppo, quasi sempre senza la fortuna toccata a Cristoforo Colombo. Che è andato “a sbattere” nell’America.

 

Come detto però a questa eccentricità si potrebbe anche porre rimedio. Basterebbe volerlo. Resta comunque da fare i conti con lo scoglio più grande e più impegnativo. Che è il reperimento e la mobilitazione delle risorse economiche necessarie per assicurare un sistema di protezione sociale nel quale la flexsecurity possa poggiare su una base realistica. Bisogna dire infatti che chi Italia parla di flexsecurity  come di una cosa che esigerebbe solo un po’ di buona volontà concertativa, se è in buona fede, non sa bene di cosa sta parlando. Cerchiamo di capire il perché.

 

Come forse molti sanno, la flexsecurity  ha origine nei paesi scandinavi e segnatamente in Danimarca. Essa si fonda su tre capisaldi: a) flessibilità nel mercato del lavoro (in entrata ed in uscita), nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni di lavoro; b) sistema di protezione sociale di tipo universalistico (e particolarmente generoso); c) meccanismi di sicurezza occupazionale, fondati su politiche attive del lavoro (workfare), con obblighi e sanzioni reciproche.

 

Per ipotizzare l’introduzione di uno schema simile in Italia è quindi necessario superare almeno tre ordini di problemi. Primo, un radicale cambiamento del modello di protezione sociale; secondo, un cospicuo aumento della spesa sociale; terzo, una più diffusa propensione a coltivare “virtù civiche”. La ragione è facilmente intuibile. In ogni caso è sufficiente qualche confronto tra il sistema danese (che in una certa misura può essere considerato paradigmatico) con quello italiano.

 

In Danimarca il sistema di protezione sociale è universalistico, in Italia è invece settoriale, categoriale ed a volte persino aziendale (si veda il caso Alitalia e non solo). La flessibilità è alta e settorialmente poco differenziata in Danimarca, mentre in Italia è segmentata riflettendo la proliferazione di contratti di lavoro, con flessibilità formalmente solo al margine (per i nuovi assunti) anche se in realtà alta e diffusa (per il peso abnorme di piccole e piccolissime imprese sull’intero sistema produttivo). Ancora. Un sistema di sicurezza sociale particolarmente generoso in Danimarca (90 per cento del salario con un tetto di 22.300 euro lordi annui; per una durata massima 4 anni; inoltre, l’indennità di disoccupazione è riottenibile (con 6 mesi di lavoro nell’arco degli ultimi 36).

 

L’indennità di disoccupazione in Italia è invece pari al 60 per cento del salario precedente per i primi 6 mesi, al 50 per cento per il 7° e l’8° mese ed al 40 per cento dal 9° al 12 mese. La durata è di 8 mesi per i lavoratori con meno di cinquant’anni e di 12 mesi per gli over 50; i requisiti di riammissibilità sono di 1 anno sugli ultimi 2, più una settimana. Infine, le politiche attive del lavoro possono contare in Danimarca su servizi per l’impiego ed una pubblica amministrazione particolarmente efficienti. Cosa che purtroppo non si può dire per l’Italia. Il risultato delle due diverse politiche di protezione sociale è che in Danimarca le persone a rischio di povertà, pari al 31 per cento scendono all’11 per cento dopo i trasferimenti sociali, mentre in Italia si passa dal 27 per cento prima, per fermarsi al 21 per cento dopo i trasferimenti. Dieci punti in più.

 

Naturalmente le differenti prestazioni presuppongono anche un diverso livello di spesa pubblica. Infatti in Danimarca la spesa per prestazioni sociali sul Pil arriva al 30,1 per cento (di cui l’11,3 per cento per pensioni), mentre in Italia la spesa si ferma al 26,4 per cento (di cui ben il 16 per cento per pensioni). Il che significa che, al netto delle pensioni, la spesa sociale in Danimarca raggiunge il 18,8 per cento del Pil, contro 10,4 dell’Italia. Divario che si conferma, anche se con proporzioni minori, anche con i principali paesi europei.

 

Se infatti prendiamo in considerazione la spesa sociale pro-capite in PPS (parità di potere d’acquisto, che eliminano le differenze di prezzo tra paesi), fatto 100 l’indice per l’Europa a 27 (dati 2005), l’Italia arriva a 102, l’Austria raggiunge 136, il Belgio 136, la Danimarca 140, la Finlandia 112, la Francia 132, la Germania 124, i Paesi Bassi 136, la Gran Bretagna 118. Insomma, per quanto riguarda la spesa sociale, l’Italia arranca nelle zone basse della graduatoria europea. Appena al di sopra dei nuovi paesi ultimi entrati.

 

Inutile sottolineare che maggiori spese richiedono maggiori entrate. Non a caso in Danimarca il prelievo fiscale raggiunge il 51,2 per cento del Pil rispetto al 40,8 per cento dell’Italia. E’ ovvio che se queste disparità dovessero persistere, non si capisce assolutamente su quali basi si potrebbe realisticamente fare anche da noi un discorso, con un minimo di fondamento, intorno alla flexsecurity.

 

Si deve concludere che il percorso italiano verso la flexsecurity, senza radicali cambiamenti nella progressività fiscale (incominciando magari a fare pagare di più chi fin’ora, in proporzione, ha pagato meno e contemporaneamente tassare di più i patrimoni e le rendite e meno il lavoro), come nella entità della spesa sociale, non può nemmeno iniziare. Tenuto conto che non si tratta di applicare una “ricetta”, magari escogitando qualche piccolo adattamento nazionale. Come si fa, a volte, con le ricette della cucina tipica. Per dare infatti un minimo di fondamento al proposito sono indispensabili sia le risorse che un profondo mutamento di cultura politica e di valori. Per far evolvere il paese verso obiettivi di sviluppo e di eguaglianza, con una parallela crescita della coesione sociale e delle virtù civiche.

 

Non è, del resto, senza significato che l’indice Gini (che misura l’entità delle disuguaglianze) sia del 24 per cento in Danimarca per salire fino al 33 per cento in Italia. Valore significativamente più alto rispetto a tutti i principali paesi europei. Probabilmente non è la sola spiegaz

Venerdì, 12. Giugno 2009
 

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