Antonio Lettieri ha avviato un dibattito partende dal discorso di Tony Blair al Parlamento europeo. L'importante non è tanto discutere sui fini, quanto concentrarsi sul "come" si possano relizzare
Premessa. Tonino Lettieri con la consueta apertura mentale ha avviato un dibattito sul discorso di Tony Blair al Parlamento europeo. Toni forti, dice Lettieri, ma "senza contrasti a sinistra". In effetti a sinistra i toni sono del "si, però", preludio giustificatorio al disimpegno ed alla certezza di restare dove siamo.
C'è una questione di fondo sollevata da Tony Blair: "ditemi che razza di modello sociale è quello in cui ci sono 20 milioni di disoccupati"
. e ove l'Europa perde colpi rispetto agli USA (produttività e innovazione) all'India (ricerca, brevetti, informatica) alla Cina (per bassi salari e dumping).
In Francia, Germania e Italia, sembra di essere nella condizione dell'URSS di qualche decennio fa, quando tentava invano di sfuggire alla sorte del "socialismo in un solo Paese" preso nella morsa tra democrazia politica e capitalismo rampante. Per così dire ci sentiamo assediati da "liberismi" di varia specie. Da quello primitivo della Cina, in parte dell'India e dei Paesi del Sud-Est asiatico e da quello sostenuto da un'alta qualità di regolazione dei Paesi anglosassoni e scandinavi. Nei Paesi scandinavi, che non hanno mai avuto ambizioni anticapitalistiche, si ottengono grandi risultati facendo leva sulla mobilità del lavoro (l'active manpower policy degli anni '60) e del capitale, spostandolo dai settori perdenti a quelli innovativi e di successo.
Qualcosa che abbiamo fatto in Italia, più o meno consapevolmente, tra l'agosto 1945 e l'inizio degli anni '70. Il periodo del miracolo italiano avviato da De Gasperi ed Einuadi con coprotagonisti Di Vittorio e la CGIL e Costa e la Confindustria.
Il nostro problema, con Francia e Germania, è ritornare a livelli di crescita elevati e stabili (2,5 - 3%) grazie al recupero di competitività, al nostro interno e verso il resto del mondo. Questa è la condizione indispensabile per il mantenimento non solo dell'equilibrio macro-economico ma soprattutto per realizzare il pieno impiego, l'assorbimento degli esclusi, il consolidamento ed il miglioramento dei nostri sistemi di welfare. Idee e propositi che furono espressi autorevolmente da Delors in qualità di presidente della Commissione e sui quali non abbiamo fatto abbastanza. Soprattutto quando dopo l'entrata in vigore dell'euro si imponeva un rapido passaggio del problema della crescita alle dirette responsabilità dell'Unione Europea.
La domanda diviene questa: perché il liberismo che ci circonda da ogni parte non ha le nostre angosce? Perché altrove si progredisce economicamente e socialmente e qui da noi si ristagna? Tentativo di risposta, audacemente semplice: chi è riuscito ad adattarsi al clima esterno (internazionale) ha risolto al meglio i propri problemi. Chi rifiuta di farlo, sta come stiamo noi.
A complemento si può dire che chi sa inserirsi in un processo di qualità della regolazione (non necessariamente omogeneo l'un l'altro: si pensi a Cina o Stati Uniti) riesce a far funzionare le cose. Chi invece fa una guardia sacrale a vecchie norme, vecchie regole, vecchi comportamenti, paga, come noi, il prezzo di quello che giustamente definiamo declino.
Per non cadere nel vizio tipicamente italico di vendere "filosofie buone" senza pronunciarsi sul decisivo problema del "come" realizzarle, meglio esporsi ai rischi dell'opposto: poca essenziale filosofia e forte accento sul "come" decidere e agire.
I pronunciamenti sul "come", possono essere concentrati su alcuni punti decisivi graduati per ordine di importanza rispetto alla possibilità di ottenere crescita, pieno impiego, riadattamento esauriente del welfare:
- efficienza ed efficacia dell'azione pubblica (con drastico abbassamento dei costi della burocrazia per unità di servizio);
- avvio ad un'economia basata sulle conoscenze e l'innovazione, decisiva per il recupero di competitività;
- maggiore efficacia della concorrenza, riduzione dell'assistenzialismo, diversa valutazione dell'impatto territoriale sulle decisioni.
- avvio ad un'economia basata sulle conoscenze e l'innovazione, decisiva per il recupero di competitività;
- maggiore efficacia della concorrenza, riduzione dell'assistenzialismo, diversa valutazione dell'impatto territoriale sulle decisioni.
Posto nei termini sottoindicati si tratta per ciascuno di questi punti di indicare soluzioni alternative a quelle esistenti. Ovviamente le indicazioni che seguono non hanno altra pretesa che quello di essere oggetto di riflessione per i decisori del quadro politico e sociale.
Efficienza ed efficacia dell'azione pubblica
Ecco un possibile elenco di soluzioni su cui riflettere:
1) delegificazione. Ammettere la desuetudine come via per abolire leggi obsolete. (es. età superiore ai 50 anni), con ovvio potere del Parlamento di decidere quali ripristinare;
2) mirare allo Stato Minimo (istruzione, sicurezza interna ed esterna, sanità);
3) uscire dal "formalismo" e "feticismo" giuridico. Si tratta di mutare le norme in funzione dei risultati, non di garantire la loro sopravvivenza o coerenza sacrali;
4) misure di progresso sulla qualità della legislazione (impatto della legislazione sulla realtà, semplificazione amministrativa, pianificazione strategica, nuovi criteri di governance gestionale nel settore pubblico, etc.) non debbono esaurirsi nell'astuzia formale di appendere altrettante "targhe" nelle stanze della presidenza del Consiglio o nel ministero competente. In Irlanda, tramite la semplificazione amministrativa, si riesce ad attirare investimenti esteri diretti. La nostra qualità in materia è talmente scadente che riesce a respingere piuttosto che attirare investimenti;
5) come misura prioritaria è quella di reingegnerizzare le procedure di attuazione delle leggi. A questo scopo occorrono ingegneri, esperti di organizzazione, magari capi officina che hanno come compito esattamente quello di riadattare costantemente i processi operativi. Come mostrano i fatti una tale capacità non è disponibile (anche per vincoli regolamentari di ogni genere) sia presso l'alta burocrazia che presso i giuristi, specie se formati al diritto pubblico e amministrativo;
6) le ristrutturazioni (panta rei) che sono un fatto permanente, in tutte le aziende produttive del mondo, non possono essere un'esclusiva del privato. L'efficienza pubblica deve basarsi sull'idea che la ristrutturazione è un compito permanente. Di qui i suggerimenti di governance provenienti da organismi internazionali ad adattare strumenti di regolazione flessibile in luogo della rigidità di leggi e regolamenti;
7) l'accento sulla mobilità dei fattori produttivi (lavoro e capitale), nel nuovo contesto "liberistico" (che non è facile mettere alla porta) fa parlare di "high-road" come forma non solo di competitività ma di aggiustamento per la sopravvivenza e sviluppo di un'impresa. Si stanno tentando forme di aggiustamento attraverso riduzione dei salari (si pensi all'esperienza tedesca o anche a quella americana degli anni '80, '90) che non sembrano andare molto lontano. Su questo punto la riflessione deve cominciare ex novo;
8) una tale trasformazione implica, come è evidente, profondi cambiamenti culturali e operativi. Nelle pubbliche gestioni occorre giungere ad accrescimento di poteri e libertà operative al management pubblico (smantellando norme amministrative e penalizzanti la libertà di decisione del management pubblico), a fronte di responsabilità misurate rispetto al conseguimento o meno dei risultati attesi. Di eguale importanza è il potenziamento delle rappresentanze sindacali, di azienda o esterne, per cooperare ad un disegno di innovazione. Una formazione seria su questi aspetti è molto più importante dei molti corsi (tutt'altro che finalizzati al miglioramento dell'organizzazione della produttività) e mirati invece a punteggi e promozioni. Paradossalmente i contratti pubblici contengono tutti gli elementi, di finalità e di strumentazione, mirati ad uno sviluppo produttivistico.
2) mirare allo Stato Minimo (istruzione, sicurezza interna ed esterna, sanità);
3) uscire dal "formalismo" e "feticismo" giuridico. Si tratta di mutare le norme in funzione dei risultati, non di garantire la loro sopravvivenza o coerenza sacrali;
4) misure di progresso sulla qualità della legislazione (impatto della legislazione sulla realtà, semplificazione amministrativa, pianificazione strategica, nuovi criteri di governance gestionale nel settore pubblico, etc.) non debbono esaurirsi nell'astuzia formale di appendere altrettante "targhe" nelle stanze della presidenza del Consiglio o nel ministero competente. In Irlanda, tramite la semplificazione amministrativa, si riesce ad attirare investimenti esteri diretti. La nostra qualità in materia è talmente scadente che riesce a respingere piuttosto che attirare investimenti;
5) come misura prioritaria è quella di reingegnerizzare le procedure di attuazione delle leggi. A questo scopo occorrono ingegneri, esperti di organizzazione, magari capi officina che hanno come compito esattamente quello di riadattare costantemente i processi operativi. Come mostrano i fatti una tale capacità non è disponibile (anche per vincoli regolamentari di ogni genere) sia presso l'alta burocrazia che presso i giuristi, specie se formati al diritto pubblico e amministrativo;
6) le ristrutturazioni (panta rei) che sono un fatto permanente, in tutte le aziende produttive del mondo, non possono essere un'esclusiva del privato. L'efficienza pubblica deve basarsi sull'idea che la ristrutturazione è un compito permanente. Di qui i suggerimenti di governance provenienti da organismi internazionali ad adattare strumenti di regolazione flessibile in luogo della rigidità di leggi e regolamenti;
7) l'accento sulla mobilità dei fattori produttivi (lavoro e capitale), nel nuovo contesto "liberistico" (che non è facile mettere alla porta) fa parlare di "high-road" come forma non solo di competitività ma di aggiustamento per la sopravvivenza e sviluppo di un'impresa. Si stanno tentando forme di aggiustamento attraverso riduzione dei salari (si pensi all'esperienza tedesca o anche a quella americana degli anni '80, '90) che non sembrano andare molto lontano. Su questo punto la riflessione deve cominciare ex novo;
8) una tale trasformazione implica, come è evidente, profondi cambiamenti culturali e operativi. Nelle pubbliche gestioni occorre giungere ad accrescimento di poteri e libertà operative al management pubblico (smantellando norme amministrative e penalizzanti la libertà di decisione del management pubblico), a fronte di responsabilità misurate rispetto al conseguimento o meno dei risultati attesi. Di eguale importanza è il potenziamento delle rappresentanze sindacali, di azienda o esterne, per cooperare ad un disegno di innovazione. Una formazione seria su questi aspetti è molto più importante dei molti corsi (tutt'altro che finalizzati al miglioramento dell'organizzazione della produttività) e mirati invece a punteggi e promozioni. Paradossalmente i contratti pubblici contengono tutti gli elementi, di finalità e di strumentazione, mirati ad uno sviluppo produttivistico.
Qui c'è poco da innovare dal punto di vista delle norme, ma solo da organizzarsi sul "come" riuscire a praticarle nel quadro di un sistema di relazioni industriali produttivistico.
Economia basata sulle conoscenze. Competitività all'interno verso l'esterno
L'impatto della Globalizzazione preme ovunque sulla capacità competitiva di tutti gli Stati-Nazione. Il nostro ritardo di adattamento ci costa una sostanziale stagnazione e recessione con pesanti esiti sulla qualità dell'occupazione come sul sistema di welfare.
Il tema della ricerca, dell'innovazione e dello sviluppo delle conoscenze, pensiamo di risolverlo accrescendo le risorse disponibili allo scopo. Il successo in materia dipende dal fatto che per i 2/3 provvedano risorse private dell'impresa e per 1/3 l'azione pubblica. Ma non basta questa indicazione quantitativa. L'esperienza mostra che occorre liberarsi da un'idea del "fai da te".
Il Politecnico di Zurigo, che produce ottimi risultati, è costituito per la metà da ricercatori svizzeri, per l'altra metà da "cervelli" opportunamente attirati. Una prima riflessione riguarda il fatto di riuscire ad internazionalizzare la nostra ricerca. Meglio se a provvedere a grandi centri, si parta con il piede "internazionale" come è stato più volte già richiesto all'Unione Europea (e qui il caso di ricordare Delors ancora una volta). Liberarci dall'idea del "fai da te" è dunque una condizione per ottenere i risultati che conseguono i Paesi che importano i "cervelli".
Un impatto della globalizzazione, già da tempo visibile anche da noi, porta a considerare come indispensabili le soluzioni di internazionalizzazione e delocalizzazione di tutto o parte dell'attività produttiva. La realtà già dimostra (si prenda il Nord-Est o l'esempio di qualche grande azienda a conoscenze avanzate), che per sopravvivere e svilupparsi non vi sono altre possibilità disponibili: né per noi, né per alcun altro Paese. Questa è l'indicazione chiara che, per il momento, anche se spiacevole, l'unica medicina è quella della hitgh-road. Riflettere è necessario per sconfiggere pregiudizi ai quali è saggio non abbandonarsi.
Eguaglianza nei poteri d'acquisto e riconsiderazione delle scelte passate sul riequilibrio territoriale
Una premessa indispensabile. Nei decenni trascorsi abbiamo fatto riferimento ad una concezione distorta dell'eguaglianza sui redditi delle persone. Abbiamo creduto, ad esempio, che un salario di 2 milioni a Milano dovesse essere uguale a Caltanissetta, per assicurare al lavoratore di Milano e a quello di Caltanissetta la parità del potere d'acquisto.
L'eliminazione delle gabbie salariali è stato il frutto diretto di questa concezione. La concezione della CGIL unitaria fino agli anni '70, fu di segno totalmente opposto. Basta rileggersi gli accordi interconfederali dell'epoca per constatare che le gabbie salariali tenevano in debito conto il livello del costo della vita territoriale sui redditi, per parificare sostanzialmente i poteri d'acquisto del salario.
Questa concezione deviata sull'uguaglianza ha inciso direttamente sulle stesse politiche di sviluppo regionale. Negli ambienti Svimez, riflettendo oggi sull'argomento, si ammette che sarebbe stato meglio non solo riferirsi ad una concezione di parità dei poteri d'acquisto, ma anche ad orientare gli investimenti al Sud più verso l'intensità di capitale che verso l'intensità di lavoro. Aver deciso verso l'intensità di lavoro, ha comportato una fiscalizzazione del costo stesso, che non era compatibile con il Trattato dell'UE.. Cessata la fiscalizzazione, si è avuto un quasi collasso nelle nascenti e ancora deboli strutture economiche del Mezzogiorno. L'occupazione fittiziamente ottenuta è rapidamente caduta. Il beneficio si è rivelato utile a breve, ma sostanzialmente instabile nel lungo periodo.
Investimenti a forte intensità di capitale, avrebbero iniettato nelle strutture produttive quegli elementi di innovazione tecnologica e di conoscenze che avrebbero assicurato solidità e capacità di alimentare flussi occupazionali stabili ed espansivi nel tempo.
Si sono forniti esempi, tutt'altro che esaustivi, delle diverse conclusioni cui si giunge, se si parte "dal come" realizzare i fini, senza fermarsi alla retorica della loro proclamazione.
Il merito di Tony Blair è soprattutto quello di alimentare le necessarie riflessioni critiche.
Sabato, 30. Luglio 2005