La Fiat e il compito della politica

Che il nostro paese possa rinunciare all'auto è da escludere. Sta alla politica creare le condizioni favorevoli a un intervento di investitori, dato che il Lingotto ha bisogno di grossi capitali. Se non si dovessero trovare, l'ultima ratio resta l'intervento pubblico

General Motors (non messa tanto bene in salute: sul mercato americano va male; su quello europeo ha perso 742 milioni di dollari solo lo scorso anno; da qualche mese il suo debito è classificato soltanto un gradino sopra "junk", ossia spazzatura) ha ritenuto preferibile pagare due miliardi di dollari di penale che vedersi costretta a rispettare il "put". Cioè l'obbligo ad acquistare l'intera Fiat Auto.

La liquidazione strappata a Gm ha suscitato una reazione positiva nei confronti di Fiat. Piazza Affari ha festeggiato, almeno per il primo giorno, i due miliardi di dollari entrati nelle casse dell'azienda. Le agenzie di rating hanno mantenuto immutata la valutazione sul debito del gruppo. Anche dalle banche italiane (alle prese con un prestito "convertendo" di tre miliardi di euro e che perciò a settembre potrebbero cambiare ruolo: da creditrici ad azioniste) sono arrivate dichiarazioni di apprezzamento. Allo stesso tempo però tutti (sindacati compresi) si sono detti concordi su un punto: chiuso il contenzioso finanziario con gli americani, si apre ora una impegnativa partita industriale. Sarà infatti sui prodotti e sulla capacità di venderli che si giocherà davvero il futuro di Fiat Auto. Una sfida che i dirigenti del Lingotto si dicono fiduciosi di poter vincere. Certamente l'accordo con Detroit offre qualche speranza in più. Però non sarà facile. Perché se è vero che "l'ammalato ha preso un brodo" è altrettanto vero che la "prognosi resta riservata".

Certo, la transazione con General Motors ha aperto alcune nuove possibilità a Fiat. Intanto ha acquisito un importante beneficio finanziario che potrebbe consentire di dedicare maggiori risorse all'innovazione del prodotto, agli investimenti produttivi, ad ampliare, in sostanza, gli orizzonti del futuro. Inoltre ha recuperato la libertà d'azione. Cioè la possibilità di impostare nuove strategie e ricercare nuove alleanze. In un mondo nel quale la produzione automobilistica sta registrando modificazioni sostanziali nelle tecnologie, nell'utilizzazione degli impianti, e negli assetti societari, l'opportunità di poter riaprire sul terreno delle alleanze e delle collaborazioni è certamente un vantaggio che non va sottovalutato. Tanto più che le grandi aziende automobilistiche, nel passato rigidamente centralizzate ed autosufficienti, oggi sono invece alla ricerca di configurazioni più flessibili. Cercano cioè di promuovere accordi ed intrecci legati a singoli progetti, piuttosto che anchilosanti alleanze di carattere generale.

Infine è di grande importanza il completo ritorno alla Fiat del controllo di Powertrain, considerato che nel settore dei motori la casa torinese può vantare una esperienza ed una tecnologia d'avanguardia, oltre che economicamente competitiva. Per Fiat si ripresentano, dunque, nuove opportunità. Tuttavia per poterle cogliere è necessario curare anche vecchie patologie che preesistevano all'intesa del 2000 con la General Motors e che sono ormai diventate croniche.


Nell'esprimere la sua soddisfazione per l'intesa che ha consensualmente separato il destino di Fiat da quello della General Motors, Luca di Montezemolo ha detto: "ora la Fiat può tornare a concentrarsi sull'automobile". La dichiarazione merita di essere sottolineata. Non solo perché è il preannuncio di un importante proposito. Ma soprattutto perché, se confermata dai fatti, costituisce un significativo cambiamento di rotta.

E' abbastanza comprensibile che negli ultimi quattro anni la prospettiva di "cedere baracca e burattini" alla General Motors abbia dissuaso la Fiat dal fare progetti troppo impegnativi sul futuro dell'auto. Non si può però sottacere che,  soprattutto tra i soci dell'Accomandita proprietaria del pacchetto di controllo del gruppo, il disamore per l'auto è una sorta di virus attivo da diversi anni. Senza stare a farla lunga, basterà ricordare che all'inizio degli anni ottanta, Vittorio Ghidella è stato allontanato dal gruppo torinese perché "troppo autocentrico". In sostanza perché si è trovato in contrasto con la strategia dei proprietari della Fiat di "diversificare degli investimenti" in settori diversi dall'auto.

Tutto fa pensare che il vero ispiratore della strategia del disimpegno dall'auto sia stato Enrico Cuccia, del quale Cesare Romiti costituiva braccio secolare presso il gruppo torinese. Ha però poca importanza la ricostruzione delle responsabilità.  Quel che conta è che gli esiti di quella strategia sono stati disastrosi. Disastrosi per il settore dell'automobile che è stato sottoposto ad una dissennata cura dimagrante, che ha finito per debilitarlo. Ma disastrosi anche per i settori nuovi in cui si immaginava di entrare, grazie ad acrobazie finanziare e però senza alcun vero disegno industriale.

Tuttavia, al di là dell'idea funesta di considerare la finanza anziché la produzione la strada per accrescere la ricchezza (idea che, sciaguratamente, ha contagiato una parte non piccola del capitalismo italiano) c'è un motivo specifico che può, se non giustificare, perlomeno spiegare perché nella famiglia Agnelli abbia fatto sempre più proseliti l'orientamento a considerare l'investimento nell'auto un anacronistico e costoso orpello del quale era meglio liberarsi. 

Il motivo è che, scomparso il protezionismo e finiti anche i cambi flessibili che avevano consentito lucrose svalutazioni competitive, l'automobile si è rivelata un business  sempre più difficile e ad alto rischio. Bisogna infatti investire tanti denari con prospettive di margini unitari sempre più piccoli. Se poi non si investe abbastanza, invece degli utili si accumulano perdite. Da qui il convincimento sempre più diffuso all'interno della dinastia torinese che fosse ormai arrivato il tempo disfarsi dell'auto e cercare di fare soldi altrove. Non importa se nella chimica, nell'energia, nell'editoria. L'importante è che fosse fuori dall'automobile.

Ora Montezemolo dice invece che la Fiat intende riconcentrarsi sull'auto. Bene! Bisogna però sapere che la penale di due miliardi di dollari strappata a General Motors può servire ad assicurare un provvidenziale momento di respiro, ma non può risolvere i problemi del futuro Fiat. Ci vuole ben altro. Per finanziare gli investimenti necessari ed anche per ridurre il peso del debito accumulato Fiat ha infatti necessita di una forte ricapitalizzazione. Ha bisogno di nuovi soci che affianchino i vecchi troppo debilitati e, forse, anche un po' demotivati.

Ebbene, questo problema può essere risolto in tre modi: con l'ingresso nel capitale di investitori privati italiani; con investitori esteri, tanto di carattere finanziario che industriale; con una partecipazione pubblica al capitale di Fiat auto. Sulla stampa e negli ambienti della politica, quest'ultima modalità ha suscitato un singolare dibattito che, dal contenuto e dai toni, sembra più teologico che economico. La discussione ricorda infatti quella sul "sesso degli Angeli", che appassionava Costantinopoli anche quando Solimano era ormai arrivato alle porte.

Comunque, nel dibattito i devoti del "liberismo" sostengono che in economia l'iniziativa privata consegue sempre risultati migliori di quella pubblica. Perché la prima fa leva sulla responsabilità personale e dunque sull'efficienza, mentre la seconda risponderebbe soprattutto a convenienze politiche. Con una inevitabile dissipazione di risorse. L'Alitalia sarebbe l'esempio che non ammette repliche. Non è però il caso di lasciarsi chiudere la bocca. D'altra parte le persone ragionevoli e senza paraocchi ideologici sanno bene che la storia economica è piena di esempi di segno opposto. Sanno quindi che, particolarmente in Italia, l'espansione dell'economia pubblica è stata la risposta obbligata ai "fallimenti del mercato". Cioè dei privati. Purtroppo, a volte, anche una "amnistia" del loro malaffare.

Ma tornando alle soluzioni ipotizzabili per il riassetto societario della Fiat, bisogna dire che quella di una "partecipazione pubblica al capitale" non può essere considerata l'opzione principale. Per un duplice ordine di ragioni. Intanto perché creerebbe problemi con l'Unione Europea. Ma soprattutto perché sarebbe preferibile poter destinare prioritariamente le risorse pubbliche al soddisfacimento di "bisogni pubblici". Altrimenti irrisolvibili.  Si pensi, per fare un solo esempio, alla mancanza di letti nei reparti di rianimazione degli ospedali del Centro-Sud. Con un numero scandalosamente alto di malati che muoiono in ambulanza mentre vengono costretti ad una dolorosa odissea tra un ospedale ed un altro.

Naturalmente, per non fare della "partecipazione pubblica" al capitale della Fiat l'opzione principale occorre che i privati (italiani od esteri, soci finanziari od anche industriali) si facciano avanti. Purtroppo è facile prevedere che non ci sarà la fila. Non per niente la General Motors ha preferito pagare una penale di due miliardi di dollari pur di non essere costretta ad onorare il contratto che la obbligava a comprare Fiat Auto.

In questo quadro la politica ha un ruolo insostituibile per cercare di correggere il corso delle cose. Che non può quindi limitarsi, come suggeriscono i "benpensanti", a "mansioni di semplice custodia ed attesa". Essa deve infatti ed innanzi tutto, mettere in moto misure che possono accrescere la competitività, la ricerca e l'innovazione per il settore automobilistico. Si tratta di misure necessarie in sé, ma che possono agevolare anche l'individuazione di potenziali nuovi soci privati per Fiat. Se poi, malgrado tutto, i privati dovessero continuare a rimanere latitanti toccherà ancora alla politica (sorretta da una adeguata mobilitazione sociale) individuare le modalità più appropriate per attivare una  "partecipazione pubblica". Perché diciamolo fuori dai denti, si può immaginare tutto, ma una cosa che deve essere considerata assolutamente preclusa: lasciare andare a picco la Fiat ed il settore automobilistico in Italia, assieme a tutti quelli che direttamente od indirettamente ci lavorano.

Certo, la sfida potrebbe risultare più agevole se vivessimo in un paese con un governo capace di prospettare una qualche seria idea di politica industriale. E, magari, persino l'esistenza di un ministro dell'Industria. Purtroppo non è così. Per questo tutto appare un po' più difficile.

Giovedì, 17. Febbraio 2005
 

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