La favola del manifatturiero scomparso

La tesi secondo la quale i paesi sviluppati possano fare a meno di un forte settore industriale non ha fondamento. L'esportazione dei servizi, come dimostra il caso degli USA, presenta limiti invalicabili. E questo vale anche per paesi come l'Italia e la Germania

Per chi si occupa di economia, professionalmente e in qualsiasi modo – la insegna, la studia, ne scrive – è importante capire qualcosa anche di aritmetica. Non delle formule e dei modelli econometrici, più o meno astrusi, equazioni e algoritmi, tanto esecrati e poco utilizzati dai più grandi economisti di sempre, a partire da Adam Smith, marchingegni che servono anzitutto a confondere le idee. Ma proprio dall’aritmetica del 2+2 fa 4 e non può che far 4.

Quel po’ di aritmetica che impedirebbe a tanti economisti di continuare a ripetere cose sciocche come quella, tanto diffusa ormai, che i paesi industrializzati maturi non sono più destinati a restare paesi manifatturieri nel futuro prossimo venturo. Proprio aritmeticamente, è un assurdo puro. Vorrebbe dire che dovremmo importare quasi tutti i beni manifatturati che consumeremo -  dalle auto, ai calzini, alle lampadine… Il problema è che se non trovassimo a quel punto qualcuno, qualche paese, disposto a regalarci per sempre i beni manifatturati che fabbrica, bisognerebbe trovare un qualche modo di pagamento per le importazioni.

La scuola di pensiero che racconta dell’inesorabile fine della produzione manifatturiera qui da noi, spiega che pagheremo le nostre importazioni esportando i nostri servizi. Ecco dove capire un po’ di aritmetica diventerebbe utile. Prendiamo il caso degli Stati Uniti d’America, il più macroscopico e il più emblematico tra tutti.

Il volume degli scambi americani in merci è approssimativamente tre volte superiore a quello in servizi. Se, dunque, l’importazione di merci continuasse ad espandersi anche solo come oggi tende a fare, gli americani avrebbero bisogno di un tasso di crescita che nei servizi è impossibile, sia per volume che per attivo, anche solo per avvicinarsi un po’ a una bilancia commerciale appena in equilibrio.

Ora, facciamo il caso che gli USA – come da molti di questi pronostici – perdano la metà della loro produzione manifatturiera nei prossimi vent’anni e che i servizi importati – anche loro ne importano, infatti – continuino a crescere allo stesso ritmo del decennio appena trascorso. Allora gli Stati Uniti, per avere una bilancia commerciale in equilibrio nel 2028, dovrebbero veder aumentare l’esportazione dei loro servizi a un tasso medio annuo vicino al 15% per tutto il ventennio che ci separa da quella data. Qualcosa di economicamente, e politicamente, impossibile. Ma anche aritmeticamente, se 2+2 deve continuare a far 4.

Infatti, una crescita del 15% nell’export dei servizi sarebbe più o meno il doppio – un aumento del 100%, cioè: e per vent’anni di seguito – rispetto a quello degli ultimi dieci anni. Si tratta di una prospettiva che diventa ancor più simile a una favola, se si prende in esame anche il tipo di servizi esportati dagli Stati Uniti. Il principale di questi servizi è costituito dai viaggi, vale a dire i soldi che i turisti stranieri spendono negli USA: perché da solo questo prodotto conta per il 20% di tutti i servizi esportati.

Certo, non c’è proprio niente di sbagliato o di strano nel considerare il turismo un’industria. Ma l’idea – così americana e, in fondo, anche un poco nostra – che i lavoratori statunitensi, come quelli dei nostri paesi avanzati, siano troppo istruiti e sofisticati per continuare a fare il lavoro manifatturiero -  quello che si fa con le mani e il sudore – ma perfettamente in grado invece di rifare i letti, pulire, servire come camerieri e detergere bagni e gabinetti dei turisti stranieri, appare piuttosto grottesca.

Sicuro, con strutture istituzionali adeguate (come, ad esempio, sindacati forti) questi, forse domani, potrebbero anche diventare lavori pagati bene – chi sa, come quelli di una fabbrica d’auto oggi, o almeno fino ad oggi – ma che, di certo, non richiedono maggiore qualificazione di quelli del settore manifatturiero tradizionale.

Brevetti e licenze contano, poi, per un altro 17% dei servizi esportati. Sono spese, queste, che i paesi importatori devono caricare sul prezzo dei prodotti per copyright e patenti. E, ormai è certo, sarà sempre più difficile, con la diffusione di Internet, riuscire a farsi pagare queste royalties: musica, software, film istantaneamente copiati e scambiati a costo zero nell’etere. Perché non è per niente probabile che il resto del mondo sia disponibile a fare l’esattore fiscale e il poliziotto pignorante per conto della Disney o della Microsoft.

L’altra parte dell’equazione brevetti, che sarà ogni giorno anche più difficile – oltre che moralmente sempre più inaccettabile – riuscire a incassare, è quella che dovrebbe applicarsi all’export di medicinali. Specie i paesi in via di sviluppo – un enorme mercato per questi prodotti – non sono disponibili a – e in ogni caso non potrebbero - pagare diritti sempre più esosi, che moltiplicano spesso per dieci, e anche per cento, il costo di produzione e commercializzazione di certe specialità, spesso  prodotti salvavita, i cui brevetti sono troppo spesso procrastinati per anni se non per decenni.

Un altro 10% del settore dei servizi in America è nel comparto chiamato del “trasporto diverso”: il fatturato degli spostamenti di merci e servizi di immagazzinaggio e di scarico ferroviari, stradali, portuali e aeroportuali pagati dagli importatori quando portano a vendere i loro prodotti in America . Questi “trasporti diversi” sono servizi che aumentano quando aumentano le importazioni. E sono, di fatto, soldi sfilati dalle tasche dei consumatori perché sono poi inclusi nel costo delle importazioni.(Tutte le percentuali menzionate sono riportate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti d’America sul proprio sito: cfr. www-commerce.gov/).

Poi ci sono i servizi finanziari: negli anni recenti, più o meno anch’essi il 10% dell’export di servizi. Non è detto che sarà possibile mantenere questa quota anche negli anni futuri. Wall Street, tradizionalmente e per molto tempo, era stata considerata il tempio indiscutibile  per questo tipo di servizi. Ma gli scandali e la crisi hanno fatto crollare la sua credibilità.

Infine, c’è la categoria dei servizi alle imprese, grosso modo il 20% del totale dei servizi offerti dagli americani nel mondo: l’area più sofisticata che include l’informatica e le consulenze di stampo manageriale. E’ chiaro a tutti che una crescita forte in quest’ultimo settore si tradurrebbe in posti di lavoro più qualificati e più remunerativi per gli americani e per gli USA. Ma la nozione che ciò possa compensare quella che viene ipotizzata – e anche auspicata: questo è il punto – come la scomparsa del manifatturato è un assurdo.

Certo, informatica, high tech, consulenza di management costituiscono una quota importante dell’export di servizi. Ma, come informa il Dipartimento del Commercio, è una quota che copre solo lo 0,8% del PIL! Ancor più importante è che nessuno può credere ormai che gli Stati Uniti saranno in grado di dominare, come hanno fatto finora, quest’area ancora per i prossimi decenni. A meno che non costringano a dimagrire molto più drasticamente di quanto abbiano fatto finora i salari americani anche in questo campo, così da portarli al livello già di tante imprese di servizi informatici di classe mondiale che esistono e crescono in India ed altrove.

Ora prendete questo ragionamento, riportatelo alle dimensioni (di ogni tipo e in ogni campo) europee ed italiane e riproponetelo come fanno tanti anche da noi – alla Bocconi, sul Sole 24 Ore, al governo – quale scelta obbligata anche nostra: lasciamo perdere, dicono, la produzione manifatturiera che, tanto, è perduta, ormai, e concentriamoci, come scelta, sull’export di servizi per pagarci le importazioni. Cioè, invece di concorrere col Bangla Desh, mettiamoci a competere direttamente – tra l’altro – con gli Stati Uniti d’America. E vedete i risultati di qualche altro semplice calcolo matematico, a noi più vicino (questo dal sito dell’ICE, cfr. www.ice.gov.it/, magari). Nel caso nostro, naturalmente, la semplice aritmetica delle quattro operazioni ci darebbe risultati ancora peggiori. I calcoli ci dimostrano il paradosso della tesi di partenza: la necessità o possibilità di abbandono del settore manifatturiero. Per tornare all’archetipo americano (ma senza dimenicare che, mutatis  mutandis, ragionamento e calcolo sono altrettanto validi per Germania e Italia) è inconcepibile immaginare che la produzione manifatturiera nei prossimi anni in America smetterà di crescere – e anzi si ridurrà – come parte del PIL americano. 

Con che cosa si pagherebbero, infatti, i disavanzi commerciali, i debiti accumulati e i finanziamenti di cui hanno bisogno per conservare uno status accettabile di potenza nel mondo del XXI secolo?   

 

Domenica, 24. Maggio 2009
 

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