La difficile scommessa dell'auto Usa

Il primo giugno è una data storica: quella in cui la General Motors, simbolo della potenza industriale americata, ha chiesto il fallimento. Su di essa e sulla Chrysler il governo ha riversato massicci finanziamenti, ma il settore dell'auto nel mondo è cambiato profondamente. Le condizioni perché non sia solo un prolungamento dell'agonia

 

Il 1° Giugno sarà ricordato nei testi di storia dell’industria come il giorno in cui la GM “ simbolo del potere economico degli USA” nel dopoguerra, chiede la protezione dell’art. 11  della Legge nordamericana sui fallimenti d’impresa. L’art. 11 pone l’azienda sotto garanzia impedendone il fallimento ma vincolandola al varo di un credibile piano di ristrutturazione , valutato dal Giudice e dagli stakeholders chiave ( banche, sindacato, detentori di azioni ). In altri termini  senza l’intervento statale e legislativo sarebbe stata  la  bancarotta.

 

Stessa sorte era toccata circa un mese prima alla Crhysler, la minore delle tre big di Detroit. La sentenza della corte suprema del 12 Giugno, respingendo contestazioni avanzate da fondi pensione ,ha definitivamente chiuso la procedura e approvato il piano di riorganizzazione. La Chrysler ha una nuova struttura  : accordo con FIAT, acquisizione di un pacchetto azionario da parte della UAW ( il sindacato americano dell’auto),sacrifici per i lavoratori a cui vengono ridimensionati benefit ( di fatto una riduzione salariale ), limitazioni al diritto di sciopero per un lasso di tempo di quattro, , conferma della  presenza di rappresentante del sindacato  nel consiglio d’amministrazione. Si prevedono  drastici piani di ridimensionamento della rete di vendita , riduzione capacità produttive con chiusura di stabilimenti. Ma commenta il NYT “ Chrysler dovrà competere in un mercato talmente brutale da far sembrare la prima fase, quella dell’art.11, un rifugio di pace”.

 

Se il salvataggio di Chrysler aveva suscitato non pochi commenti, anche se non è la prima volta che l’azienda viene soccorsa da un intervento statale, la scelta di GM di ricorrere all’art .11 ha suscitato ancor più scalpore e anche emozione.Il 1° giugno  i giornali di tutto il mondo abbondano di  commenti, analisi economiche,sociologiche e anche culturali e filosofiche sull’evento. GM è il simbolo dell’America: “ ciò che è buono per GM è buono per gli USA “ è la dichiarazione, diventata famosa di “engine Charlie” Wilson, presidente di GM, quando nel 1953 venne nominato segretario alla difesa da Eisenhower.  

 

Molti commenti sono di routine giornalistica, abbastanza scontati ( fine di un’era, un simbolo decaduto, da General Motor a Governement Motor..), ma emerge anche  un dibattito più in profondità ,estremamente interessante, sul rapporto Stato/economia,  modelli di impresa, le relazioni industriali, la divisione internazionale del lavoro. Un dibattito iniziato ancor prima dell’insediamento di Obama alla Presidenza e che il fallimento e conseguente salvataggio  di Chrysler e GM ha ulteriormente esteso. L’augurio è che giunga sino a noi ,in particolare dopo la saga OPEL. Per il momento non se ne vedono i segnali. Anche la proposta CISL sulla partecipazione lanciata al recente congresso sembra più una bandiera identitaria che il frutto di una analisi ed elaborazione condivisa dal corpo dell’organizzazione. I riferimenti a quanto sta avvenendo in America sono superficiali e retorici -“ nasce il fiore della democrazia economica “- non colgono la specificità della situazione e la sua complessità . Difettano di informazione,presentando come novità prassi da tempo in uso: la presenza del sindacato nel consiglio di amministrazione Chrysler risale ai tempi della Presidenza Carter e del mitico Lee Jacocca. Le esperienze di azionariato gestito dal sindacato ( gli ESOP ) si sono diffuse negli anni 90 soprattutto nelle aziende di trasporto aereo, con risultati controversi. Colpiscono  l’assenza del lavoro nel gran parlare di azionariato e consigli di vigilanza, fatto singolare e preoccupante per un sindacato, e la caratterizzazione ideologica sostanzialmente interclassista. Se si partecipa, magari attraverso il possesso d’azioni, non si è più salariati ma soci. Vecchia teoria ripresentata come attuale. Paradossalmente nel mezzo di una crisi finanziaria senza precedenti.

 

Ma torniamo al dibattito in USA. Prima questione: il ruolo del Governo nella politica d’impresa. Senza l’intervento governativo Chrysler e GM non sarebbero sopravvissute. Il Governo detiene la maggioranza assoluta delle azioni nella seconda e    una parte cospicua   nella prima. Quale ruolo intende giocare o è opportuno che giochi ? Seconda questione: dato l’evolvere degli scenari internazionali del settore auto il salvataggio con ingente uso di denaro pubblico ha prospettive di successo ? In termini più  brutali . Non era forse meglio lasciare le due aziende al loro destino ?

A seconda delle risposte, si inseriscono nel dibattito altri temi di enorme portata: il ruolo del sindacato, la riorganizzazione produttiva delle aziende , i modelli organizzativi, le politiche di prodotto/mercato, le relazioni industriali. Tenteremo di descrivere molto in sintesi le posizioni a confronto.

 

La prima ,fortemente provocatoria, è stata ben illustrata da Robert Reich, ex Ministro del lavoro di Clinton, in un intervento comparso il fatale 1° Giugno sul FT. Citiamo testualmente “…perché i cittadini americani che pagano le tasse dovrebbero, oggi, voler possedere GM ?...non per la redditività delle azioni. GM è stata in declino per anni…Molti giovani non hanno mai comprato una GM e non pensano di farlo. E’ probabile che i 50 miliardi di dollari investiti dallo Stato non saranno mai rimborsati. Ma questo sembra non essere l’obiettivo del bail out ( garanzia ). Deve esserci altro. Difendere l’occupazione ? Non sembra dal momento che è lo stesso Tesoro a richiedere un bel dimagrimento dell’azienda ( 20.000 posti di lavoro in meno ). Neppure dare vita ad una nuova impresa redditizia. Il Tesoro ha già detto che questo è compito dei privati e che il Governo non intende fare l’imprenditore. Se è così l’unico scopo pratico del bail out, conclude Reich, è di rallentare il declino di GM, di dare tempo al tempo per una sua indolore scomparsa dalla scena. E parte la domanda schock. “ Non ci sarebbero modi migliori per utilizzare i soldi pubblici che comprare GM ? Questi fondi potrebbero essere spesi meglio per diversificare l’economia del middle West. Per formare i lavoratori licenziati garantendo loro un reddito “. Ma conclude “ nessun politico ha il coraggio di far sparire GM. Sarebbe impopolare “.

 

Robert Reich non è un liberista, anzi. La sua tesi viene però, in altri termini, ripresa da settori repubblicani critici verso l’amministrazione Obama, per sostenere che è illusorio, data l’evoluzione degli scenari di mercato, puntare ad una ripresa delle due ex big dell’auto USA. Il baricentro della produzione si sta spostando in America latina e Asia. Li si faranno ancora profitti producendo automobili e si possono saturare le capacità produttive oggi eccedenti. In quanto al mercato nordamericano è estremamente improbabile un recupero da parte di GM (e Chrysler ) data la presenza aggressiva dei produttori asiatici che già ne detengono ampie fette. In Europa una posizione non dissimile, sia pure temperata per esigenze elettorali ( in Germania a settembre si vota per la cancelleria ), è sostenuta dal Ministro dell’industria tedesco a proposito della OPEL filiale europea di GM. Ironia della storia. L’azienda fondata da Adam Opel era, nelle temperie economiche seguite alla crisi del 29, sull’orlo del fallimento da cui fu salvata dall’acquisizione a prezzo di svendita  dalla GM.

 

A Reich rispondono economisti industriali di area democratica ,  tra gli altri, Tom Kochan studioso di relazioni industriali al MIT e Barry Bluestone Professore ad Harvard e profondo conoscitore del mondo sindacale dell’auto con cui ha cooperato per molti anni. Citando Obama “ non possiamo permetterci il lusso di sprecare una crisi  “ sostengono che il Governo deve farsi parte attiva per l’implementazione di un coraggioso piano di “reinvenzione del settore automotive”. E’ un momento magico afferma Barry Bluestone , analogo a quello di un altro periodo di crisi del settore all’inizio anni 80 quando si parlava di “neo infant industry”. Allora si tentarono alcuni esperimenti di grande interesse (la joint venture in California tra  Toyota –GM, Nummi ; il progetto Saturno) i cui principi base possono essere oggi ripresi e aggiornati. Momento magico perché molteplici fattori convergono e impongono un radicale mutamento di prospettiva di prodotto , di processo e culturale. Senza di ciò, avrebbe ragione ragione Reich.

 

Anche se Obama dichiara che “ non credo che dovremo fare del micro management “, nei fatti GM è un’azienda pubblica e lo è, parzialmente, anche Chrysler. Ed è lo Stato che deciderà il gruppo dirigente. In GM cinque o sei membri del consiglio d’amministrazione saranno di nomina del Tesoro, già sei amministratori sono di fatto scelti dal Governo, la UAW e il Governo canadese avranno un posto ciascuno. Il fatto di dover ripartire da zero osserva Barry Bluestone è una chance rilevante. Le aziende dovranno riformulare i loro piani strategici di marketing riducendo il numero di marchi, smettere politiche di mercato suicide di continui ribassi e concentrarsi sulla qualità e l’innovazione di prodotto. Riconquistare la fiducia dei consumatori rivalutando la propria immagine. GM e Chrysler hanno a questo proposito un problema terribile ,analogo a quello di FIAT vent’anni fa quando era sul mercato USA.

 

L’ultimo rapporto annuale  di “ Consumer report” ,vera bibbia per chi voglia comprare un’auto in USA, consiglia l’acquisto di solo il 19% dei modelli GM. In quanto alla Chrysler la situazione è ancor più vulnerabile. I suoi prodotti sono minivans, modelli sportivi, SUV che l’aumento del combustibile e la problematica ecologica ha reso  meno attraenti.

 

Quali sono i componenti del momento magico di B. Bluestone ?

 

Primo :il consumo energetico e l’emissione di anidride carbonica : è impensabile che il prezzo del combustibile rimanga ai livelli odierni. Inoltre il riscaldamento atmosferico impone di ridurre drasticamente l’emissione di anidride carbonica e particelle inquinanti. I vecchi incrociatori tipici della produzione USA, i divoratori di gasolio come suv, jeeps, minivans  devono lasciare il posto a  vetture di minori dimensioni con motori a basso consumo. Nell’attesa dell’auto elettrica a costo accessibile a larghe masse ,che può nascere solo con forti investimenti in ricerca e sviluppo.

 

Il secondo fattore è l’invecchiamento della popolazione e il  fenomeno di riurbanizzazione. I giovani preferiscono auto meno ingombranti e gli anziani, sempre più numerosi, sono poco propensi al cambio di vettura. Si ritorna ad abitare nelle città o nelle immediate vicinanze con conseguenti problemi di spazio, mobilità, inquinamento, necessità di sistemi di trasporto integrati rotaia/strada.

Il successo della “beatle” della VW (prodotta in Messico )  starebbe nella capacità di risposta a queste nuove esigenze. E non solo la coccinella si è venduta bene in USA ma ha rilanciato la vendita di altri marchi VW. Più nessuno oggi racconta barzellette sulle auto tedesche, sulla loro bruttezza o cattivo gusto. Dimostrazione che una cattiva immagine può essere rovesciata. Succederà anche per FIAT-Chrysler ?

 

Quindi l’obiettivo del rilancio di un’industria auto americana è raggiungibile se si cambia è il mantra di chi non concorda con il pessimismo di Reich. Ripercorrere la strada tracciata da VW è l’indicazione ma , al momento, mancano alle due big salvate, la gamma , la tecnologia  e anche la cultura manageriale, come riconosce il nuovo presidente di GM, che permetta loro di ripetere la formula. Si parla molto della Volt, la vettura elettrica di GM che uscirà nel 2010. Lo Stato si è già impegnato a sostenere piani di investimento per la Volt ma il prezzo rimane elevato ( 28.000 euro ). E’ difficile pensare che questa berlina possa essere il traino del recupero di GM nel breve periodo.

 

In quanto a Chrysler, la FIAT apporterà, tra due anni, nuove tecnologie nella motorizzazione e una piattaforma per vetture di piccole dimensioni. Verrà utilizzata la rete di vendita Chrysler, fortemente ridimensionata, per il ritorno di marchi italiani nel mercato USA. Avranno successo ? Agli americani piacerà la 500 ? Impossibile fare previsioni. Troppe le varianti in gioco. I livelli di recupero del  mercato americano dopo le drastiche cadute degli ultimi anni ; le politiche della concorrenza asiatica già presente in USA; i cambiamenti sociali e di consumo.

 

Il terzo fattore sono i nuovi scenari internazionali del settore. L’industria auto mondiale è capace di produrre 90 milioni di vetture all’anno per un mercato sceso a 55 milioni. Sui mercati emergenti in Cina e India i costruttori nazionali stanno  acquisendo parti sempre maggiori dei mercati nazionali. Lo stesso avviene sul mercato nordamericano. Che possono fare  aziende sclerotizzate che in cinque anni hanno perso più di 60 miliardi di euro ? Solo una rivoluzione culturale, di management, del modello organizzativo e di regolazione sociale può far ritrovare all’industria auto americana una parte del posto che occupava. E’ possibile ? Il Tesoro americano ostenta ottimismo puntando ad un recupero di gran parte del prestito pubblico nel 2013. Improbabile, sostengono analisti del settore, senza piani coraggiosi in cui lo Stato, azionista di maggioranza,  giochi in prima fila, non stia alla finestra e proponga un nuovo patto sociale, una nuova jointness: termine piu’ vicino alla codeterminazione che alla partecipazione . Ma “ non facciamo questioni terminologiche. Contano i contenuti “ precisa Bluestone.

 

A corto termine l’obiettivo della casa Bianca è duplice. Evitare la liquidazione pura e semplice con costi enormi soprattutto politici per il paese: Mantenere in vita aziende americane nella fase di passaggio tecnologico dalla combustione alla elettricità.  Una scelta pragmatica e strategica allo stesso tempo. Ma anche un rischio politico enorme. Per questo Barack Obama ha fatto appello a tutti gli attori interessati: management e sindacato in primo luogo.

 

Quindi jointness come strategia imparando dal passato, innanzitutto dagli errori. Il primo errore delle esperienze di ESOP  (il sindacato detiene un cospicuo pacchetto d’azioni ), sostiene T. Kochan, è stato il concentrarsi eccessivamente sul livello azionario. Se le retribuzioni dipendono in misura eccessiva dalla borsa, non solo si rischia un’eccessiva volatilità ma si ha uno sganciamento dalla prestazione di lavoro. Il sindacato viene vissuto dai suoi membri non come un’attore di tutela ma come un investitore e lo si misura dal successo in questo campo. La cautela con cui la UAW tratta il problema dell’uso del pacchetto azionario è significativa. Il presidente del sindacato è giunto a dire che “prima c’è ne liberiamo meglio è”. Le azioni sono state date in compensazione di debiti che l’azienda aveva verso i fondi pensionistici e assistenza sanitaria. Devono coprire le spese per medicine e pensioni ad una popolazione anziana di ex dipendenti sempre più numerosa.

 

Il secondo errore è di non aver investito abbastanza in formazione. Un diverso modello organizzativo d’impresa richiede forti interventi di riqualificazione ad ogni livello. Il terzo errore è stato aver abbandonato alle prime difficoltà esperienze come quelle della NUMMI e del Saturno per mancanza di volontà politica e per gli effetti di un clima economico sempre più orientato alla speculazione che non alla produzione,  ritornando alla vecchia burocratica routine.

 

Quarto errore: non aver inserito le relazioni industriali in un quadro strategico più vasto di rinnovamento   della cultura manageriale. “ Le relazioni industriali sono una risorsa non un ostacolo”, afferma il Professore del MIT. Espressione ripresa da Obama all’incontro con i sindacati poco dopo la sua investitura. Non ripetere quindi questi errori e costruire un sistema di relazioni industriali che valorizzino la prestazione di lavoro a tutti i livelli come fonte di qualità, di innovazione. Riconoscendo e valorizzando professionalità, sviluppando polivalenza attraverso nuovi modelli organizzativi che vedano la presenza del sindacato. In altri termini rivalorizzare il lavoro.

 

A questo proposito colpisce la centralità del lavoro in parecchia nell’attuale elaborazione accademica in Nord America. Un effetto della crisi? Certamente ,ma anche il frutto di un interesse mai scomparso anche nel periodo di grandeur del liberismo e della finanza creativa. E’ evidente che un sistema di relazioni non può cambiare senza una cornice di sostegno, un modello sociale adeguato. Per gli USA vuol dire un diverso finanziamento del welfare e la sua generalizzazione ; un’altra legislazione del lavoro che permetta al sindacato una presenza più diffusa. Su entrambi i cantieri i lavori sono in corso. In quanto al dibattito sul futuro dell’auto, ci riguarda? Può insegnarci qualche cosa ? Ne siamo convinti e cercheremo di dimostrarlo in un prossimo articolo.

 

 

Venerdì, 19. Giugno 2009
 

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