La difficile via d’uscita

La crisi si è abbattuta su un’Italia che da un ventennio si trascinava stancamente. Per superarla non si deve agire su un solo fattore: non basta annullare il disavanzo pubblico per garantire la stabilità oppure aumentare la produttività per crescere, trascurando fattori come il riequilibrio dei prezzi relativi e la distribuzione del reddito

Sono venti anni che l’economia italiana si trascina stancamente nella ricerca strumentale delle cause del suo rallentamento ma c’è sempre qualche ragionevole giustificazione. Unanime era ed è l’accordo sull’esigenza di riprendere la crescita e sulle strategie: aumentare la produttività, ridurre le imposte, migliorare l’efficienza dei mercati, aumentare la competitività con interventi sul mercato del lavoro, ridurre il debito pubblico, modificare le aspettative della speculazione sulla tenuta dell’euro, ecc. L’accordo finisce quando si entra nel merito di chi, come e quali risultati attesi.

 

L’Italia ha seguito l’evoluzione dell’Uem ma la sua caduta è stata più pronunciata e il rimbalzo solo parziale. Nel 2012 il livello di Pil a prezzi costanti è inferiore del 6,4% a quello del 2007 e in questi venti anni è aumentato solo del 20% (+0,8% annuo).

 

Gli aspetti internazionali

Il peso dei BRICs ( Brasile, Russia, India, Cina, questo gruppo comprende anche gli altri Paesi late comer) nel commercio internazionale è aumentato negli ultimi venti anni e ha evidenziato una situazione di sovrapproduzione nelle attività manifatturiere con la riduzione dei prezzi relativi attuata dai BRICs; un altro segnale sono i prezzi relativi fra prodotti e materie prime, la cui dinamica è andata a vantaggio di queste ultime. Nel complesso le bilance dei pagamenti correnti sono in passivo per i Paesi first comers salvo poche eccezioni (es. Germania, Giappone) e in attivo per Cina e per i Paesi del Sud est asiatico e naturalmente per i Paesi produttori di materie prime (petrolio).

 

Il problema degli squilibri reali e monetari esiste anche all’interno dell’Uem poiché dopo dodici anni dalla fissazione del rapporto fra le singole monete nazionali e l’euro si registra un’implicita sopravalutazione del potere d’acquisto dei Paesi in disavanzo e una sottovalutazione del €/marco. Per l’area dell’€ si possono avere tre soluzioni: a) il Paese in surplus finanzia il Paese in deficit; b) il Paese in surplus aumenta la domanda interna e i Paesi in disavanzo riducono la loro domanda ma per un periodo limitato per evitare un avvitamento delle loro economie; e nel frattempo, c) i Paesi in deficit migliorano la loro competitività aumentando la produttività e la riallocazione delle risorse. L’assenza di una di queste soluzioni, rischia di provocare la disintegrazione dell’Uem, peraltro auspicata da forze politiche, imprese e banche all’interno e all’esterno dell’Unione.

 

Gli aspetti interni. 

 

a) Quale schema di analisi

La Commissione europea, i singoli governi e i mercati finanziari hanno adottato uno schema di analisi economica molto semplice nell’enunciato ma purtroppo confuso nell’individuazione dei nessi di causalità e totalmente avulso dal Pil potenziale. In sintesi, lo schema  è un’equazione, sempre rispettata ex post ma solo raramente ex ante, nella quale si sommano algebricamente gli squilibri monetari fra risparmio e investimento di famiglie, imprese e amministrazioni pubbliche e il risultato è lo squilibrio della bilancia dei pagamenti correnti.

 

Per riportare in equilibrio i conti con l’estero (eliminare, così, la sopravalutazione reale dell’€ Italia) è necessario indurre una modifica nei piani degli operatori privati per arrivare ex ante al saldo positivo (S–I) oppure a ridurre l’indebitamento pubblico, ma privati e amministrazioni pubbliche interagiscono e quindi i risultati finali ne sono condizionati. Ad esempio un aumento del tasso d’interesse per ridurre il deficit esterno favorisce S e deprime I ma aumenta anche la spesa per interessi quindi il disavanzo pubblico. Il PIL risultante sarà inferiore alle attese, lo stesso i profitti attesi e gli investimenti e si rischia, perciò, un avvitamento nella crisi. 

 

Analogo imbarazzo lo crea il contenimento della spesa pubblica oppure l’aumento delle entrate e se la deflazione si prolunga nel tempo si aggravano le aspettative e quindi non si risolvono i problemi puntando solo sul riequilibrio dei saldi. Lo schema richiamato trascura gli effetti reali della distribuzione funzionale, territoriale e personale del reddito sia sulla domanda effettiva e sia sulla crescita economica. La distribuzione funzionale del valore aggiunto fra profitti, salari, interessi e rendite è strategica perché la stabilità dei prezzi è preservata se l’aumento dei salari è compatibile con l’aumento della produttività, mentre l’aumento dei profitti realizzati e di quelli attesi dovrebbe indurre gli imprenditori a investire e quindi a innovare.

 

Nell’ambito dell’Uem, la sintesi di uno squilibrio fra le dinamiche della produttività e dei salari è la disoccupazione e la stretta monetaria per ridurre l’inflazione rischia di provocare una variazione negativa del PIL che sposta la distribuzione del valore aggiunto: a) dalla manifattura al terziario perché il terziario è un settore protetto; b) dai profitti ai salari per la relativa rigidità del salario e dell’occupazione e per la concorrenza estera che non modifica i suoi prezzi; c) dal profitto alla rendita poiché le imprese dei settori protetti ( terziario e monopoli) difendono il loro tasso di profitto e reagiscono alla riduzione dei ricavi con un aumento dei prezzi, peggiorando, così, lo squilibrio  di sottoccupazione. 

 

In sintesi, modificare solo i saldi intervenendo sulla domanda è poco efficace e inefficiente, perché si attiva un processo deflattivo che distorce anche la struttura dei settori produttivi e perciò sarebbe più conveniente puntare sull’offerta e quindi sulla produttività, ma quale ?

 

b) Il problema della produttività

Accertato che per i Paesi dell’Uem la stabilità interna ed esterna è l’obiettivo primario e che il richiamo alla crescita economica è solo un atto politicamente necessario ma non prioritario, se si intende aumentare la produzione reale deve aumentare la produttività del lavoro e/o l’occupazione, a parità di tasso di profitto.

 

La produttività strutturale del lavoro dipende dal capitale produttivo disponibile, dalla professionalità del lavoro, dal progresso tecnologico e dai miglioramenti nei prodotti, nei processi e nell’organizzazione ( ossia dall’innovazione). La produttività congiunturale dipende dalla domanda aggregata e dall’andamento del ciclo, presente e atteso, perciò una politica deflazionistica, nel breve periodo, diminuisce la produttività congiunturale e quindi quella totale. L’aumento della produttività congiunturale, durante una fase deflazionistica, si otterrebbe solo con la chiusura degli impianti marginali e il licenziamento del personale meno produttivo ossia intervenendo sulla produttività strutturale.

 

Un altro argomento collegato ai prezzi relativi segnala che se si modifica in termini strutturali la tecnologia (es. ICT, e-business) e/o il prezzo delle materie prime (es. petrolio), una parte del capitale diventa obsoleto e pertanto anche in questo caso la produttività tecnologica aumenta solo con la chiusura degli impianti obsoleti e/o con la riduzione del fattore lavoro (es. chiusura di imprese non dotate di servizi ICT, oppure con impianti Energy intensive). Aumenta, quindi, la produttività strutturale dell’impresa, ma non sempre la domanda di merci e servizi si adegua tempestivamente alla nuova offerta, specie se non diminuiscono i prezzi oppure non aumenta la qualità. Esiste, anche, un’obsolescenza tecnologica dell’imprenditore e/o del manager simile a quella che grava sul capitale e sul lavoro e dovrebbe essere il mercato a segnalarla; ma solo uno choc rilevante, come l’attuale crisi, evidenzia queste rigidità imprenditoriali.

 

c) Mercato del lavoro, disoccupazione, mismatching

Nessuno può seriamente pensare che il mercato del lavoro sia concorrenziale e  in equilibrio. Il salario e la risultante occupazione dipendono dalla forma delle curve di domanda e offerta di lavoro, la prima  influenzata dalla tecnologia e dall’organizzazione dell’impresa. Più complessa è la individuazione dell’offerta, la cui  elasticità varia al variare del salario, ma è anche influenzata dallo stato di necessità, dal ruolo economico e sociale della donna, dalla professionalità del lavoratore, per non parlare di immigrazione, emigrazione, potere di mercato del lavoratore e del suo sindacato, potere di mercato dell’imprenditore e del suo sindacato, ecc. Assume rilevanza anche per la competitività - e quindi per l’occupazione - l’altezza del cuneo fiscale fra costo del lavoro e busta paga del lavoratore.

 

Tutti questi elementi contribuiscono a determinare il tasso di attività, la segmentazione del lavoro, la reputazione sociale del disoccupato. Il progresso tecnologico produce il mismatching fra domanda e offerta del lavoro e questa disoccupazione ha, quindi, una causa esterna al mercato. Il costo lo paga l’offerta di lavoro che si dice non sia professionalmente adeguata all’utilizzo delle nuove tecnologie anche se basterebbero pochi mesi di formazione per colmare il gap professionale per la maggioranza dei lavoratori coinvolti.

 

L’uscita dalla crisi. Quali Politiche

i)   Lo schema

Un primo passo verso la ripresa è il recupero del 7% perso dal PIL negli ultimi cinque anni: non è un traguardo ambizioso ma difficile da raggiungere in tempi brevi. La produttività dovrebbe aumentare del 3%, la disoccupazione dovrebbe restare costante, il tasso di accumulazione aumentare di 2 punti e il saldo della BPC (bilancia delle partite correnti) recuperare quasi 3 punti percentuali in rapporto al PIL. Gli indicatori di riferimento del quinquennio precedente la crisi erano: crescita del PIL 1% annuo,  produttività ferma, tasso di disoccupazione 7%, tasso di accumulazione 21%, BPC -1.4% del PIL; niente di entusiasmante.

 

Nel prossimo biennio non potranno verificarsi cambiamenti strutturali nella dotazione di capitale e neanche nella la distanza fra PIL congiunturale e PIL potenziale, ma è auspicabile che si possa almeno invertire il segno delle aspettative. Si dovrebbe attivare un circolo virtuoso descritto da un semplice modello dove le banche svolgono un ruolo di sostegno finanziario alle imprese efficienti e dinamiche e il settore pubblico attiva solo politiche industriali finalizzate alla crescita.

 

L’avvio di questo processo lo devono dare le imprese individuando le innovazioni e facendo gli investimenti, almeno in parte finanziati dalle banche e dai mercati finanziari. Il passo successivo è l’aumento della produttività strutturale cui si somma algebricamente la fuoriuscita delle imprese marginali. L’aumento dell’efficienza e le innovazioni consentono un aumento delle esportazioni italiane e una riduzione delle importazioni competitive e quindi dei salari e dei profitti e della domanda interna. Alla maggiore produzione si collega un innalzamento della produttività congiunturale e un aumento dell’occupazione. Il punto debole dello schema è il settore dei servizi con le sue rendite, ma non sarà possibile rendere efficiente il terziario finché non sarà chiaro che manifattura e servizi, nel prossimo futuro, dovranno essere complementari specie nei processi di innovazione. E’ indispensabile trasferire l’efficienza dalla manifattura ai servizi e suscitare l’attenzione alla domanda e alla soddisfazione del cliente nella manifattura.

 

ii) I dubbi e gli interrogativi

·     Chi e come: a) identificare le innovazioni; b) convincere le imprese a fare cospicui investimenti netti; c) finanziare questi investimenti posto che le banche temono, inizialmente, i rischi di insolvenza dei loro clienti innovatori, specie se medio-piccoli; d) mantenere la stabilità della distribuzione macroeconomica del  valore aggiunto; e) limitare possibili contraccolpi negativi sull’occupazione dovuti alle innovazioni. Dipende da come si distribuisce la produzione fra innovazioni capital intensive e labour intensive a elevata professionalità. Le tecnologie sono disponibili e l’unione di informazione, conoscenza e ricerca richiede una sistematica interazione fra nuove tecnologie e nuove professionalità.

 

L’esperienza dimostra che nanismo e sommerso delle imprese impediscono la diffusione delle nuove tecnologie e nuove professionalità, salvo per giovani imprenditori con formazione elevata. A questo si aggiunge la difficoltà del ricambio generazionale che coinvolge anche la media e la grande impresa.

·  Chi e come riequilibrare i prezzi relativi fra manifattura, terziario e rendita, ossia come fare funzionare correttamente i mercati automaticamente e/o mediante controlli per tutelare l’efficienza sistemica e la posizione dei consumatori/clienti.

 iii) Quali politiche

Il primo punto da evidenziare è la fine della Pubblica amministrazione come struttura centralizzata e monolitica e la sua trasformazione in un insieme  di amministrazioni pubbliche. Questi cambiamenti istituzionali e le conseguenti interferenze fra i diversi livelli di governo hanno ridotto l’efficacia delle politiche economiche e accresciuto i timori di corruzione/concussione.

 

Le politiche richiedono strumenti efficienti, efficaci e tempi certi e su questi elementi si scontrano liberisti e keynesiani ma tutti concordano sulla coerenza fra le analisi e gli interventi. In questo caso le analisi suggeriscono di:

·   - rimodulare sia la spesa pubblica sia il Fisco per renderli coerenti con gli obiettivi della crescita, della competitività e dell’efficienza dei servizi pubblici e privati. Riqualificare la spesa pubblica riducendo gli acquisti di prodotti e spostandola verso i servizi integrati forniti da manufatti a elevata tecnologia. Snellire e razionalizzare i servizi amministrativi che devono essere riportati all’interno delle AP per limitare i casi di supplenza da parte dei privati (patronati, commercialisti, ecc.).

·   - privatizzare i servizi pubblici non essenziali individuati dalla teoria e dai programmi elettorali per ridurre le perdite e il debito pregresso.

·   - vendere le proprietà mobiliari, immobiliari e i beni demaniali è una manovra di finanza straordinaria ma è indispensabile individuare correttamente i tempi e i possibili acquirenti evitando soluzioni affrettate. La loro svendita favorisce gli amici e gli investimenti dell’economia criminale.

·   - compiere uno sforzo finanziario per ridurre il debito sommerso delle AP con la collaborazione delle banche tesoriere anche se questo può ridurre i loro guadagni. E’ però indispensabile migliorare il processo di fatturazione ( es. fatturazione elettronica) coinvolgendo fornitori e banche. 

·  -  fiscalizzare i contributi sociali per le imprese che investono in nuove tecnologie e non licenziano; l’integrazione salariale deve avere un tempo definito e l’attivazione delle innovazioni deve essere controllata.

·   - incentivare la crescita delle startup e spin off con interventi che possano tenere conto del rischio associato a queste iniziative.

La politica monetaria non può avere effetti positivi senza un convinto e duraturo impegno delle banche a finanziare gli investimenti innovativi e a ridurre il capitale circolante, altra anomalia dell’economia italiana. Le piccole imprese ricorrono al credito per finanziare il capitale circolante e le loro esigenze diminuirebbero drasticamente qualora si mettesse ordine nella disciplina del capitale circolante come è previsto da Basilea3. 

 

Il credito deve essere destinato alle imprese per modificare la dotazione di capitale obsoleto. Non è la riduzione del costo del denaro che favorisce gli investimenti produttivi ma i profitti attesi e la disponibilità di finanziamenti a tassi di mercato.

 

Conclusione

Il sistema economico è una struttura complessa e interconnessa che non può essere sezionata per aggiustarne i singoli elementi. Non basta annullare il disavanzo pubblico per garantire la stabilità oppure aumentare la produttività per crescere.

 

Gli obiettivi sono chiari e condivisi: competitività, ripresa delle esportazioni; meno chiari e poco condivisi sono il riequilibrio dei prezzi relativi, la distribuzione funzionale, settoriale e territoriale del reddito. Senza trascurare il riequilibrio dei conti pubblici e dei rapporti con l’estero. La crescita attesa rende più accettabile questo processo di aggiustamento per uscire dalla crisi.

 

Gli strumenti non possono essere quelli tradizionali perché da anni sono bloccati oppure fuori controllo ma non lo sono l’intelligenza, la conoscenza, il cambiamento generazionale, la fusione delle PMI, la vigilanza sul funzionamento dei mercati, la reingegnerizzazione dei processi in seguito ai cambiamenti tecnologici, ecc. e su questi strumenti si possono basare gli interventi.

 

Le infrastrutture materiali e immateriali (giustizia, istruzione, AP, Istituzioni, ecc.) sono indispensabili e devono operare per agevolare la crescita e l’ammodernamento del Paese. Devono funzionare correttamente le imprese, le amministrazioni, le istituzioni, il vero problema per l’Italia è la mancanza di efficienza economica a fronte di una ipertrofica esigenza di potere come strumento per sfruttare la rendita e neanche le privatizzazioni delle imprese pubbliche hanno sciolto questo nodo che frena lo sviluppo.

 

Neanche le riforme si sottraggono ai condizionamenti istituzionali, operativi e i veti dei potenti che rallentano l’azione di governo. Non è mai chiaro se l’adesione alla politica delle riforme derivi da un condiviso scetticismo sull’efficienza e sull’efficacia degli interventi ordinari oppure sia una scelta dettata dal realismo, dalla speranza e dall’esigenza di prendere tempo.

Lunedì, 15. Ottobre 2012
 

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