La Costituzione è scesa in piazza

Negli ultimi tempi una gran numero di cittadini si sono autoconvocati per rivendicare più eguaglianza, più dignità e più giustizia sociale, riproponendo prepotentemente la Carta fondamentale che nel primo periodo repubblicano era stata messa un po’ tra parentesi. Per i sindacati un’occasione per meditare sul passato e guardare la futuro

Ho l’impressione che non sia stato ancora capito fino in fondo l’evento che ha segnato gli ultimi tempi: l’evento è che la Costituzione del 1948 ha rilegittimato la sua centralità occupando stabilmente la piazza, ossia diventando un racconto popolare. Può darsi che l’italiano-medio si sia persuaso che è tutta una questione di linguaggio: le duecento parole della prima parte della Costituzione che ne enunciano i principi fondamentali appartengono al vocabolario di base e sono perciò facilmente comprensibili. Ma a me piace pensare che gli italiani si autoconvocano sempre più spesso in piazza per rivendicare più eguaglianza, più dignità e più giustizia sociale non tanto perché questi sono i valori e principi enunciati più di mezzo secolo fa dalla madre di tutte le leggi quanto piuttosto perché essi corrispondono ai valori e principi che la coscienza sociale emancipata di un paese evoluto sente come propri.

Per questo, si fa fatica ad immaginarsi cosa sarebbe oggi l’Italia, se in passato la Costituzione fosse andata in piazza con la frequenza e l’aggressività degli ultimi tempi sin dal giorno della promulgazione. Ma sarebbe una fatica sprecata. In democrazia, non è possibile anticipare il futuro con azioni che non siano fondate sul consenso e, si sa, il coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto, soprattutto se il progetto è molto impegnativo, non si guadagna in fretta. Richiede sforzi e sinergie di lungo periodo. Richiede una straordinaria pazienza operosa. Nel caso nostro, occorreva anzitutto smettere di pensare che la Costituzione riguardasse soltanto la forma di governo ed i rapporti tra (e con) i poteri pubblici. Infatti, fino agli anni ’60 inoltrati le regole dello scambio tra retribuzione e lavoro erano quelle ereditate da un codice emanato in epoca fascista che, malgrado l’invadenza del diritto corporativo, custodiva la memoria della loro origine privatistica e quelle fissate da una contrattazione collettiva che per un ventennio era stata gestita da sindacati sottomessi ad uno Stato padre-padrone.

Come dire che la giovane democrazia ha imparato a crescere senza la Costituzione che si era data – non solo in materia sindacale e del lavoro, ma qui con conseguenze che si fanno sentire tuttora e anzi da alcuni anni si sono inasprite.

Vero è che la scelta di privatizzare la materia venne considerata salvifica perché concedeva ad un movimento sindacale che, come il nostro, aveva enormi ritardi da colmare quanto ad esperienza di libertà ed autonomia, l’opportunità (ed insieme la giustificazione politico-culturale di un visibile distacco dalla Costituzione) di costruirsi la sua al di fuori di schemi regolativi prefabbricati. Tuttavia, quel calcolo di convenienza, per salvifico che potesse apparire, non avrebbe dovuto essere condiviso da quando si è convertito in un pregiudizio favorevole ad un esteso processo di de-costituzionalizzazione. Un processo che emargina lo Stato, facendone un convitato di pietra. Un processo che, comunque, non è stato integrale soprattutto perché il vuoto creato dall’inattuazione della normativa costituzionale non impedì di soddisfare l’istanza, familiare alla migliore storia sindacale e percepita dai padri costituenti, che a parità di lavoro corrisponda parità di retribuzione e di diritti. Il tacito patto di unità d’azione convenuto tra le maggiori confederazioni ha di fatto mantenuto in vita l’istanza egualitaria e tutelato gli interessi della generalità dei lavoratori. Soltanto questo ha evitato che il processo scappasse di mano, producendo situazioni ad un passo dall’anti-costituzionalità. Ma l’argine di contenimento non era solido come sembrava. E, col passare del tempo, si è sgretolato.

Come dire, allora, che lo Statuto dei lavoratori del 1970, pur essendo stato il più serio tentativo di riportare la realtà sindacale nel quadro costituzionale, non ha compiutamente centrato l’obiettivo. Lo Statuto si proponeva finalità che autorizzano a qualificarlo come una legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro: distinte, ma reciprocamente collegate. Per realizzare la cittadinanza (in azienda) del gruppo organizzato, proteggeva i rappresentanti sindacali aziendali contro il potere dell’impresa. Per realizzare la cittadinanza (in azienda) dei lavoratori in quanto tali, non si limitava a proteggerne la libertà sindacale nelle varie forme che essa può assumere. Ingiungeva all’impresa di rivedere il suo ordinamento interno e la sua stessa mentalità alla luce del principio che i lavoratori, per quanto legati ad un rapporto di dipendenza, sono anzitutto dei cittadini di una Repubblica democratica.

Il nuovo inizio del diritto sindacale e del lavoro ha avuto una fine precoce.
Infatti, l’esperienza applicativa dello Statuto si è mossa lungo direttrici che hanno premiato l’autoreferenzialità del sindacato-organizzazione e, forse in conseguenza, hanno sbilanciato lo sviluppo dell’ambito delle due cittadinanze: quella individuale è rimasta più che altro una promessa, mentre quella del gruppo organizzato si è evoluta in senso ottusamente cripto-corporativo. Anche questo infatti è successo. E’ successo che un sindacato abbia perduto il suo diritto di cittadinanza, a beneficio dei suoi competitori, per effetto del combinato disposto della rottura dell’unità d’azione sindacale e della norma statutaria (infelicemente riformulata per via referendaria nel 1995) che subordina il godimento della libertà sindacale nei luoghi di lavoro alla partnership derivante dalla sottoscrizione del contratto collettivo che vi si applica.

Sennonché, quando diviene irrilevante che un sindacato sia effettivamente rappresentativo, anche a livello d’azienda, e sia invece risolutivo il fatto che non abbia firmato un contratto per dissensi di merito, ciò vuol dire che si era finito per tollerare che il sistema delle regole venisse allegramente gestito con criteri privatistico-proprietari distanti anni-luce dalla Costituzione. Vero è che la critica irrita quanti eccepiscono che – dopotutto – tutti i diretti interessati sono stati consultati e la maggioranza ha approvato il contratto “separato”. Ma l’eccezione non regge, risultando con solare evidenza che la verifica consensuale si è svolta in un clima avverso alla libera manifestazione del consenso.

E’ appena il caso di segnalare che ogni riferimento alla vicenda-Fiat esplosa a Pomigliano nel 2010 è puramente casuale. 

Sabato, 21. Aprile 2012
 

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