La contrattazione si cambia partendo dai settori

E' difficile arrivare a un buon accordo generale quando non c'è nulla da dare in vambio, come accade ora per il sindacato. Meglio allora un approccio che muova dalle specifiche esigenze settoriali. E, soprattutto, evitare che sia la politica a definire l'"agenda"
La riforma degli assetti contrattuali o come viene definita "riforma della contrattazione" è un tema ricorrente nelle discussioni del sindacato italiano e un argomento sempre dibattuto nella pubblicistica sulle relazioni industriali.

Negli anni 1970 e 1980 andava di moda la cosiddetta "riforma del salario", che ha di volta in volta preso di mira istituti contrattuali ritenuti, a torto o a ragione, desueti.
La costante nel riaccendersi del dibattito, spesso improduttivo, era generata dai ripensamenti che maturavano dopo che si erano conclusi eventi contrattuali impegnativi e, magari, controversi. Così, dopo la conclusione contrattuale che introdusse l'inquadramento unico operai-impiegati, si aprì il dibattito sugli "automatismi". Dopo l'accordo interconfederale sul punto unico di scala mobile si discusse molto di appiattimento retributivo e di riparametrazione tra le categorie professionali. E così proseguendo.

Era inevitabile che si riaprisse la discussione dopo gli accordi interconfederali del 1992 e 1993 che, è bene ricordarlo per le implicazioni che hanno comportato sulle dinamiche salariali, hanno tra le altre cose eliminato l'indicizzazione dovuta alla scala mobile. Anche perché la struttura della contrattazione è risultata subito squilibrata a sfavore dei lavoratori che non erano raggiunti dalla contrattazione aziendale e che, oggi , si afferma essere ben oltre il 50% di quelli occupati nel settore industriale.

Per queste ragioni si invoca e si fa un gran parlare di "riforma della contrattazione".
Non credo che questo gran discorrere porti ad alcunché. Non tanto per le divisioni, che pure ci sono, nel campo sindacale sulla direzione da prendere e sugli effetti desiderati: cosa di per sé ostativa a ogni possibilità realistica non solo di concludere ma di avviare un negoziato con le controparti. Ma anche perché, qualora venisse superato questo stato di cose in campo sindacale, mancherebbero i presupposti per il negoziato.
Il sindacato, infatti, non ha nulla da offrire in termini di scambio. Le associazioni datoriali, al contrario, non hanno nessuna intenzione di addossare ai loro associati un onere certo come sarebbe l'effetto dell'introduzione della contrattazione aziendale in tutti i posti di lavoro. Perché è questo che si pretende essere, per il sindacato, l'approdo più consistente della "riforma".

Il punto è che un equilibrio doveva essere trovato proprio negli accordi 1992-1993. Allora si definirono con precisione gli spazi economici e le caratteristiche dei contratti nazionali, ma non ci si preoccupò dello squilibrio che si veniva a creare nella dinamica salariale tra le diverse aree del lavoro dipendente accettando l'abolizione della scala mobile senza alcun ripensamento sull'estensione della contrattazione aziendale. Si introdusse, peraltro, una specializzazione di quest'ultima, definendo che gli incrementi salariali avrebbero seguito i risultati aziendali e che essa non si doveva sovrapporre, in termini temporali, alla contrattazione nazionale.

Si può dire che, soprattutto nell'accordo del 1993, si perse una grande occasione perché allora era disponibile uno "scambio". Oggi quei margini contrattuali non ci sono più e senza scambio con la Confindustria non si va da nessuna parte!
 
C'è poi da considerare che le dinamiche del costo del lavoro, perché di questo si parla, dipendono anche dagli assetti delle norme che regolano le cosiddette "flessibilità" contenute nella Legge 30, compresi gli aspetti previdenziali. Su questo terreno il sindacato rivendica interventi per stabilizzare il rapporto di impiego e  introdurre rivalutazioni del salario e previdenziali a compenso dell'accettazione della flessibilità. Tutte iniziative che inciderebbero sulla crescita del costo del lavoro. Inoltre siamo in una fase di bassa crescita della produttività e quindi con grandi difficoltà a finanziare i maggiori oneri a livello aziendale.

D'altro canto la situazione economica non consente la scorciatoia di addossare al bilancio dello Stato gli aggiustamenti del costo del lavoro tra le parti sociali. L'intervento preannunciato sul "cuneo contributivo" va in una direzione diversa dagli effetti che si vorrebbero avere dalla "riforma della contrattazione".

Questo quadro consiglierebbe di muoversi non per accordi generali, che hanno margini troppo stretti di aggiustamento, ma con un approccio settoriale. I servizi destinati alla vendita godono più dell'industria della flessibilità introdotta dalla Legge 30. Il pubblico impiego necessita di un approccio specifico che affronti il rapporto tra i garantiti, lavoratori precari e l'efficienza della pubblica amministrazione come componente della competitività generale. L'industria ha tematiche molto specifiche, dove il nodo innovazione tecnologica, produttività e valorizzazione della professionalità va affrontato come aspetto fondamentale della partecipazione e in definitiva della competitività.
 
Ciò che andrebbe evitato è fare definire dalla politica l'agenda sindacale. Questo farebbe partire con il piede sbagliato la nuova fase delle relazioni sindacali, non solo perché questo metodo lederebbe l'autonomia collettiva, ma perché avrebbe uno sbocco tutto "politico". E questo comprometterebbe i risultati di maggiore tutela per i lavoratori cosi necessari anche per dare al sindacato una rappresentatività più certa.
Se invece dovesse accadere il contrario, si andrebbe verso una ulteriore "istituzionalizzazione" del sindacato italiano.

(Gianni Italia è presidente dell'Iscos-Cisl)
Martedì, 6. Giugno 2006
 

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