E' iniziato il dibattito in vista del congresso, che si terrà poco prima delle elezioni politiche: una scelta opportuna per riaffermare l'autonomia del sindacato. I punti critici sui quali si dovrà decidere
Il XV Congresso della Cgil si terrà nella prossima primavera, alla vigilia delle elezioni politiche. È assai probabile che i vari commentatori si concentrino solo sulla relazione della Cgil con il quadro politico, per vederne assonanze e dissonanze, come se il sindacato fosse solo una pedina del complicato gioco che è aperto per il governo del paese. È questa purtroppo la tendenza attuale: a bipolarizzare tutto, a leggere tutta la realtà come se fosse solo uno sfondo, uno scenario che fa da commento al conflitto politico. Senza sospettare che possa essere più produttivo il cammino opposto: capire il movimento della società, le sue tensioni e i suoi conflitti, e su questa base restituire un senso alla politica.
Per questo, io mi atterrò esclusivamente ad una valutazione di ordine sindacale, prendendo sul serio la riaffermazione delle ragioni dell'autonomia, per l'oggi e per il domani, l'idea cioè che il sindacato si confronta sempre con tutti, sulla base di un proprio progetto, e non si mette al rimorchio di nessuno. La Cgil ha quindi il compito di definire una sua linea sindacale, che sia capace di durare nel tempo, quale che sia il contesto politico esterno, e che sia in grado di agire nella materialità dei processi sociali, là dove prende forma il lavoro, nelle sue concrete articolazioni. Questo orizzonte di autonomia mi sembra molto chiaro nell'impostazione scelta da Guglielmo Epifani. È il primo congresso che avviene sotto la sua direzione, ed è allora importante cercare di cogliere le linee evolutive e il quadro strategico in cui la Cgil intende collocarsi.
La scelta dell'autonomia è una premessa necessaria, e non scontata. Non a caso qualcuno aveva sostenuto l'opportunità di spostare il congresso a dopo le elezioni, perché se il quadro politico cambia anche il sindacato avrebbe dovuto adeguarsi. Col rischio, quindi, di misurare il sindacato sulla politica e non, all'inverso, di misurare la politica con il metro delle nostre priorità. Una Cgil autonoma, svincolata dai collateralismi di partito, può essere in grado di ricostruire la sua unità interna, proprio perché si recupera la centralità del discorso sindacale. La scelta di un congresso unitario, senza mozioni contrapposte, senza schieramenti precostituiti, ha essenzialmente il significato di ridefinire l'identità della Cgil su basi rigorosamente sindacali. Ed è questo un passaggio importante.
Certo, anche il discorso sindacale ha una sua pluralità di opzioni possibili. Ma, nella concretezza della storia della Cgil, le articolazioni interne tendono sempre ad essere modellate su riferimenti politici esterni. Le correnti di partito, anche formalmente sciolte, tendono sempre a riprodursi. Ed è questo meccanismo di "dipendenza" dalla politica che deve essere preventivamente spezzato. Con il congresso unitario si possono pagare anche alcuni prezzi, perché su molti temi può prevalere la mediazione rispetto alla chiarezza. Ma si toglie l'equivoco di una presunta "strategia alternativa", che era solo il riflesso sindacale di posizioni politiche esterne, e ci si misura finalmente solo su quei singoli quesiti che circoscrivono oggi lo spazio dell'azione sociale. È la Cgil, nel suo insieme, che riafferma la sua dimensione sindacale.
Sono questi, a mio giudizio, motivi sufficienti per vedere nella direzione di Epifani una feconda linea innovativa, dopo una fase che è stata, obiettivamente, di forte politicizzazione e di intreccio assai stretto con le vicende politiche della sinistra. La Cgil non partecipa direttamente al gioco delle correnti politiche, ma ha uno sguardo più largo, perché cerca di rappresentare l'insieme del mondo del lavoro. Quando le ragioni della politica invadono il terreno sindacale, come talora è avvenuto, il sindacato ne esce menomato, inceppato nella sua funzione di rappresentanza. È un confine delicato, sempre esposto a molte pressioni esterne, e occorre ogni volta saperlo presidiare, intendendo l'autonomia non come un valore ormai acquisito, ma come un processo che si deve sempre rinnovare.
I singoli dirigenti, individualmente, possono fare le scelte che credono. Ma sarebbe comunque opportuno un certo distacco critico, perché ne va della credibilità del sindacato. La questione della rappresentanza del lavoro è troppo seria e complessa per consegnarla a qualche dirigente politico alla ricerca di un suo spazio elettorale.
Su queste basi, anche il confronto unitario con Cisl e Uil può ricominciare a camminare. Su questo tema la prudenza è d'obbligo, perché troppe volte abbiamo avuto annunci unitari solenni, e poi brusche rotture. L'importante è che il dialogo, anche difficile e aspro, sia tenuto sempre aperto, senza forzature unilaterali. Epifani e Pezzotta, in questo senso, hanno seguito una linea di condotta simile, senza mai nascondere le differenze, senza indulgere alla retorica dell'unità, ma sempre tenendo il confronto su un terreno di rispetto e di reciproco riconoscimento, in modo che di volta in volta si possano risolvere i punti di attrito e si possa ritrovare la strada maestra dell'azione unitaria.
Anche i documenti per il congresso della Cgil sono improntati a questa linea, di prudenza e di apertura. Una linea per alcuni aspetti obbligata, anche perché in mezzo c'è stato il congresso della Cisl, che è stato segnato da una forte rivendicazione identitaria, facendo leva, in una misura a mio giudizio eccessiva, sul patriottismo di organizzazione, fino ad indicare l'obiettivo di un "sorpasso" nel numero degli iscritti. Tutto legittimo, per carità. Ma i patriottismi vanno sempre usati con molta cautela, perché non ci vuole molto a scatenare delle pericolose guerre di religione. Spero perciò che la Cgil sappia neutralizzare gli impulsi di questa natura, sappia cioè coltivare non l'orgoglio della separatezza, ma quello della costruzione del più largo schieramento unitario. Con realismo e prudenza, come è necessario, ma anche con tenacia e determinazione.
Nel documento congressuale viene avanzata a Cisl e Uil "la proposta di lavorare assieme alla definizione di una carta programmatica dei valori del sindacato confederale." Questa proposta mi sembra avere soprattutto il significato simbolico di un messaggio, per tenere aperto il discorso dell'unità. L'intenzione è apprezzabile, ma temo che siano assai scarse le implicazioni concrete sul terreno della pratica sindacale. La categoria dei "valori" è troppo astratta ed evanescente, e comunque non sta qui il problema, non è di carattere valoriale il dissenso tra le confederazioni. C'è poi una voluta ambiguità in questa formulazione, perché ai valori si giustappone il programma, e qui il discorso potrebbe farsi più interessante, e dovrebbe allora essere esplicitato e chiarito. Comunque, è evidente, è un modo per offrire a Cisl e Uil il terreno di un possibile confronto. Può essere poco o può essere molto: dipende dalla volontà degli interlocutori.
Più significativo mi pare il fatto che sui terreni più controversi, il modello contrattuale e la democrazia sindacale, la Cgil indica una sua linea, ma senza introdurre rigidità eccessive che precludano la ricerca di un accordo tra le confederazioni. Ed è proprio su questi due punti che sono state presentate alcune tesi alternative. L'articolazione politica del congresso si giocherà quindi su questo: se tenere aperto o no il filo del dialogo con Cisl e Uil.
Nel merito di questi due temi, tra loro evidentemente connessi, mi sembra che sarebbe necessario un lavoro di sintesi: riconoscendo la necessità di un assetto contrattuale più flessibile e più capace di promuovere la contrattazione decentrata, nei luoghi di lavoro e nel territorio, e contestualmente offrendo tutte le garanzie di validazione democratica degli accordi sindacali, valorizzando tutti gli strumenti della democrazia sindacale, dalle rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro fino all'uso, con regole chiare, del referendum tra i lavoratori.
La scelta mi sembra essere , per ora, quella di tenere aperta questa ricerca. Ma occorre sapere che non abbiamo a disposizione un tempo infinito, e che i nodi vanno sciolti a breve, prima che intervenga una situazione di paralisi. E la soluzione di questo nodo problematico è esclusivamente nelle mani dei gruppi dirigenti del sindacato e della loro capacità di intesa e di mediazione. Non sarà la politica a sbrogliare la matassa, né oggi né domani. La politica potrà solo, se ci sarà finalmente un governo che sceglie la via della concertazione, assecondare gli accordi sindacali e presidiarli anche con misure legislative di sostegno. Un'altra strada non c'è.
Ma, tornando al congresso della Cgil, dove sta il cuore della sua proposta? Ce lo indica lo stesso titolo del documento congressuale: "riprogettare il paese". Il massimo sforzo di elaborazione e di proposta viene compiuto per cercare di indicare il terreno su cui si può ricostruire un nuovo sviluppo economico e civile dell'Italia, invertendo i meccanismi distorsivi e degenerativi che ci hanno condotto in una gravissima condizione di stagnazione, di declino dello spirito pubblico e di aggravamento delle disuguaglianze sociali. Con ciò, la Cgil intende rivolgersi a tutto il paese, e si propone di attivare una collaborazione aperta con tutte quelle forze, anche imprenditoriali, che avvertono la stessa necessità di una svolta e di un rilancio delle nostre capacità produttive.
Sulle singole proposte si può ovviamente discutere, e sarà comunque necessario un serio lavoro di approfondimento. La cosa essenziale è mantenere questo "profilo" del lavoro congressuale, che parla delle cose e non delle astrazioni, che si misura con la realtà e non si accontenta di sventolare qualche bandiera, e che si pone dal punto di vista delle necessità complessive del paese, escludendo ogni chiusura corporativa. L'obiettivo è quello di un nuovo tipo di sviluppo, che sia fondato sulla partecipazione democratica, sull'equilibrio dei poteri, sulla legalità e sul pieno riconoscimento dei diritti, del lavoro e della cittadinanza sociale.
Si viene così precisando quella che è stata chiamata, nel recente passato, la "strategia dei diritti", in quanto appare oggi più chiaro che i diritti possono concretamente essere affermati e difesi solo nel quadro di una politica di sviluppo e nel quadro di una conseguente pratica contrattuale. I diritti non stanno appesi nel vuoto, nell'astrazione di un universo puramente giuridico, ma si affermano o declinano nel vivo di un determinato processo sociale. Occorre allora lavorare sui due versanti, della politica economica generale e della contrattazione nei luoghi di lavoro, dall'alto e dal basso.
Nel documento congressuale c'è ancora un certo sbilanciamento, perché mentre è molto chiaro il fronte della lotta per una nuova politica economica risulta meno in evidenza il cambiamento necessario nelle politiche rivendicative e contrattuali, per restituire efficacia all'azione sindacale in un sistema produttivo così profondamente mutato. Ma è proprio qui che il sindacato può dare corpo al tema dei diritti, affrontandoli nella materialità delle condizioni di lavoro. Il che significa ripensare e rimodulare le politiche della formazione, dell'orario, dell'organizzazione del lavoro, della professionalità, della partecipazione. E lo stesso discorso può essere fatto per le politiche di welfare, che sempre più devono essere viste nelle loro articolazioni territoriali, sperimentando una nuova fase di negoziazione sociale nel territorio.
Invecchiamento della società, precarizzazione del lavoro, ondata migratoria: sono le tre emergenze che ci costringono a riorganizzare su nuove basi tutto l'insieme delle politiche sociali, con un grande sforzo progettuale, se non vogliamo che lo stesso tessuto connettivo della nostra società venga rapidamente sfaldato. Welfare e sviluppo sono, in questo senso, le due facce di uno stesso problema.
In questi anni noi abbiamo subito pesantemente l'offensiva politica del centrodestra. E c'è uno scarto assai forte tra mobilitazione e risultati. Per accorciare questa forbice non possiamo affidarci soltanto ai momenti di mobilitazione generale per cambiare il segno delle politiche governative, ma dobbiamo anche ricostruire dal basso il nostro potere contrattuale. È su questo terreno che si gioca e si misura la rappresentanza, la quale non può che essere rappresentanza "concreta", che parla dei bisogni e delle esperienze di un determinato luogo, di un determinato segmento del lavoro. Nel momento in cui entrano in crisi le grandi rappresentazioni ideologiche, il sindacato ha a che fare con una molteplicità di situazioni, e deve dare ad esse risposte concrete ed efficaci. È in questo senso che torna di attualità la categoria del "riformismo", il quale appunto offre un'alternativa all'astrazione delle ideologie o delle utopie.
E qui forse sarebbe utile discutere dell'assetto organizzativo del sindacato, della sua forma, dei suoi meccanismi decisionali. C'è ancora una struttura centralizzata e piramidale, mentre sarebbe necessaria una maggiore articolazione e un forte investimento di risorse, materiali ed umane, per ricostruire la rappresentanza nell'area dei nuovi lavori e dei nuovi bisogni di cittadinanza sociale.
Voglio infine sottolineare come sia finalmente presente una chiara consapevolezza della dimensione globale in cui ci troviamo ad operare, per cui il tema della politica internazionale non è un capitolo a sé, ma è un elemento costitutivo di tutta l'analisi, è il filo conduttore che unisce tra loro le diverse parti del discorso. Si tratterà di vedere naturalmente come tutto questo riuscirà a tradursi in una più efficace azione sindacale a livello europeo e mondiale, come si riuscirà davvero a passare dalle enunciazioni ai fatti, dalle analisi alle scelte, ma è già molto avere la consapevolezza del problema.
Se il congresso riuscirà ad essere quello che si propone di essere, un momento serio di verifica e di approfondimento, senza steccati, senza schieramenti precostituiti, sarà possibile allora sui diversi terreni un avanzamento, una presa di coscienza più matura.
La Cgil, dunque, si è messa in cammino, e sta cercando nuove risposte, nella direzione giusta. Non so se questo basterà a far cadere quelle rappresentazioni caricaturali della Cgil come struttura chiusa e settaria. Forse no, perché la faziosità è dura a morire. Ma credo che tutte le persone di mente aperta saranno interessate a seguire il dibattito congressuale, a confrontarsi e a discutere. Il buon esito di un congresso dipende molto anche dall'intelligenza e dal contributo degli interlocutori esterni. E ciò è vero soprattutto per un congresso che vuole parlare dell'Italia e del suo futuro.
Giovedì, 8. Settembre 2005