La badante: un lavoro di cura che non riceve cura

Una ricerca ha indagato le condizioni dell'occupazione di gran lunga più diffusa tra le immigrate (tra chi lo fa, le donne sono l'88%). Stress, solitudine e difficoltà di integrazione sono le caratteristiche comuni

Uno dei lavori più diffusi tra le immigrate in Italia è quello dell’assistente familiare. Questo è il risultato più evidente della ricerca* svolta sulla situazione del mercato del lavoro femminile straniero in Italia, in particolare a Roma.

I movimenti migratori verso l’Italia sono stati tradizionalmente segnati da una presenza femminile molto estesa. Le donne sono arrivate nel paese spesso da sole, prima del marito o del resto del gruppo familiare perché dimostravano maggiore capacità di adattamento, e per loro era più semplice trovare un’occupazione. Il lavoro di cura è stato, ed è ancora oggi, la professione prevalente. Negli anni settanta le donne straniere, provenienti soprattutto dalle Filippine, si occupavano del benessere delle famiglie italiane più agiate 24 ore su 24, quasi sempre vivendo con le famiglie stesse.

 

Dagli anni ottanta in poi le immigrate slave, piuttosto che peruviane e africane, sono state impiegate specialmente nel lavoro di assistenza domiciliare a persone anziane, o non autosufficienti. Una funzione, quella della badante, fondamentale non solo sul piano privato, cioè limitatamente al servizio reso ai singoli assistiti, ma essenziale anche dal punto di vista sociale ed economico, dal momento che il lavoro di assistenza fornito dalle rumene, dalle ucraine, dalle russe, dalle latino americane e dalle africane, risponde alle crescenti esigenze di servizi sociali essenziali. Esse svolgono in sostanza un ruolo di supplenza rispetto alla scarsa efficacia delle politiche sociali e alle carenze del welfare italiano. Nel loro lavoro di assistenza devono spesso confrontarsi con un ambiente familiare inadeguato rispetto ai bisogni del soggetto assistito.

 

 

Dai dati degli iscritti al Registro cittadino degli assistenti per anziani emerge che la nazionalità maggiormente rappresentata è quella dell’America Latina (40%), seguita dall’Europa (29%), dall’Italia (17%) e dall’Africa (9%). La percentuale delle donne iscritte è notevolmente più alta (88%) di quella maschile, dal momento che le famiglie italiane richiedono nella gran parte dei casi un’assistente femminile.

 

Dal punto di vista soggettivo, le loro storie sono caratterizzate soprattutto da una solitudine profonda, causata non solo da un’emigrazione solitaria, lontana dalla propria famiglia ma, in particolare, dalla difficoltà di ricreare nel paese di approdo una significativa rete affettiva. Le differenze tra la figura tradizionale della colf e quella più recente della badante sono numerose, e diverso si presenta il loro grado di integrazione. Per l’immigrazione più recente, in particolare per quella proveniente dall’est europeo, è stato complicato inserirsi nei contesti urbani italiani, anche perché difficilmente hanno trovato nel nostro paese il sostegno da parte della comunità originaria.

 

Le interviste svolte nell’ambito della ricerca con Marthe (Camerun), Etenesh (Somalia), Luz, Maria Flores e Miranda (Perù), Steliana, Valentina (Romania) e Marina (Ucraina) hanno fatto luce su un percorso personale sfaccettato e complesso nel quale la consapevolezza del proprio malessere tende a stratificarsi in una somma di bisogni, paure, desideri, ambizioni che sovente disegnano una mappa di marginalità, di fatica esistenziale e fisica sulla quale le migranti orientano il viaggio e la permanenza in Italia. Generalmente non traspare dai racconti individuali quel principio di emancipazione strettamente legato al concetto di emigrazione. Non è sempre facile per le protagoniste riconoscere il bisogno di affrancarsi dal modello culturale originario, e nel caso delle immigrate madri prevale la tendenza a proiettare sui figli la prospettiva di un cambiamento futuro. Le donne affermano un senso profondamente radicato, ancorché inconsapevole, di autoresponsabilizzazione verso l’esterno.

 

Il tempo di vita delle badanti con le quali ho parlato è scandito prettamente dal lavoro, al quale è dedicata l’intera giornata. Non è raro che le lavoratrici abbiano più lavori così come è frequente che la seconda professione sia sempre quella di assistente domiciliare. Ad esempio,  Luz ha affermato di svolgere tre lavori, uno come badante e l’altro come addetta alle pulizie in una clinica privata e presso l’ospedale Gemelli di Roma. Come lei, molte altre sono costrette a fare più mestieri, e così una volta terminato il turno di 6/8 ore come assistente devono correre a svolgere un altro lavoro, spesso parimenti faticoso se non di più. E’ la condizione per vivere in Italia e inviare i soldi alla famiglia.

 

Steliana ha acquistato una casa nel suo paese per il figlio adolescente benché vorrebbe che vivesse con lei a Roma, ma il figlio ha deciso di restare in Romania. Steliana racconta la sua storia con un velo di commozione, quando ricorda di aver rivisto il figlio dopo cinque anni: “Quando sono andata via mio figlio aveva undici anni e sono tornata quando ho avuto il permesso di soggiorno, cioè nel 2004, e lui aveva 16 anni. Quando l’ho rivisto era completamente cambiato. Era più alto di me e quando sono arrivata all’aeroporto non l’avevo riconosciuto”.

 

Marina, Valentina e Steliana mi hanno parlato delle difficoltà nelle quali sono incappate per venire in Italia. Sin dalla partenza dalla Romania il viaggio si presentava complicato e non per tutte fu facile affrontare le spese per pagarsi il biglietto. Steliana ha pagato 1.700 dollari nel ’90 per venire in pullman a Roma, precisamente alla fermata della metro di Rebibbia, e per farlo ha dovuto vendere la macchina e sua madre un pezzo di terreno che possedeva. Per Marina e Valentina il viaggio è costato molto meno.

In Italia il lavoro di cura è stato lungamente interpretato come attività secondaria, irrilevante, ed è stata sottovalutata la sua funzione sociale e la necessità di disciplinare la materia in modo organico. Ma nel febbraio del 2007 è stato siglato il nuovo contratto nazionale sul lavoro domestico proprio per organizzare in modo uniforme il settore. La badante è una professione molto articolata, non si tratta soltanto di assistere qualcuno, o di fare compagnia, ma è il fattore emotivo e psicologico che predomina nel rapporto che s’instaura tra la badante e l’assistito. La badante è colei che stringe delle relazioni molto forti con il suo assistito, anche perché spesso il resto della famiglia è assente nella sua funzione di sostegno, e le esigenze del paziente ricadono completamente sulle lavoratrici. E’ difficile svincolarsi da un rapporto quotidiano, talora esasperato, con la persona assistita, e questo le priva di una certa indipendenza dall’ambiente di lavoro. Dice Valentina: “ il lavoro ti coinvolge perché magari c’è la signora che soffre e si scioglie a dirti qualcosa, e non si può far finta di nulla. Anche io ho i miei problemi ma in certi casi non puoi tirarti  indietro”.

 

 Etenesh mi racconta che quando è stata male in seguito ad un grave incidente stradale, la comunità somala le è stata particolarmente vicina, non la lasciavano mai sola neanche in ospedale, tant’è che i vari infermieri e il resto dei ricoverati erano stupiti del gran numero di parenti che aveva. E’ un comportamento molto diverso da quello che osservano nelle famiglie italiane, e questo sembra essere uno dei nodi basilari con il quale le badanti devono misurarsi: la solitudine degli anziani, di chi non sta bene.

 

Marthe è molto delusa dalla disgregazione sentimentale che investe le famiglie italiane, e anche lei è certa che tutto ciò aggrava le vite di uomini e donne anziani, bisognosi di assistenza. Uno scenario emotivo scarno, malinconico, incapace di riappropriarsi di un percorso affettivo significativo. Una realtà che desta una certa apprensione anche tra le stesse donne che ho ascoltato. Queste situazioni influiscono sulla loro vita personale perché la condizione nella quale versano molti anziani le spinge a riflettere anche sul loro futuro, sulla paura d’invecchiare e di diventare dipendenti da altri, prive di risorse.

 

Le parole di Miranda chiariscono meglio il peso che questi aspetti hanno nella vita di ognuna di loro: “Quando sono arrivata a Roma ho lavorato subito come badante. All’inizio mi chiedevo come facevano i figli a lasciarli, poi ho capito: impazzirebbero! Sai cosa vuol dire avere cura di una persona aggressiva, a cui dici di fare una cosa e loro fanno tutt’altro? Per di più queste persone assumono sempre il ruolo di vittime, si lamentano di tutto. Inoltre, posso dire che negli ultimi 5-6 anni ho visto un peggioramento, prima non era così. Sarà il cibo che mangiamo, lo stress, l’inquinamento, lo stile di vita. Assistere gli anziani, i pazienti non autosufficienti è un lavoro massacrante, difficile emotivamente e fisicamente. Ho paura della vecchiaia perché mi dico che anche io sarò così rompiscatole”.

 

Le storie di Marina, Valentina, Etenesh, Marthe, Miranda e delle altre esprimono specialmente la preoccupazione di non trovare una dimensione professionale e personale alternativa a quella della badante, e questo timore le rende più deboli e le esclude dalla possibilità di un’integrazione più dinamica nel paese. Il carattere di solitudine a cui tende ad esporre il mestiere della badante è stato il fattore più rilevato dalle varie interlocutrici. Alcune di queste donne hanno tentato di partecipare attivamente a delle associazioni politiche, culturali, ma le risposte ricevute sono state poco soddisfacenti, così hanno abbandonato il tentativo. Sostanzialmente una buona parte delle lavoratrici intervistate non mostra alcun interesse alla vita pubblica italiana. Per molte di loro Roma è una città bella e la gente è espansiva, più simpatica che altrove, e questi fattori le hanno convinte a rimanere, sebbene per qualcuna di loro l’Italia è una strada che riconduce a casa, dove poter vivere con più agiatezze e vicino alla propria famiglia.

 

Quanto alla la vita pubblica della città le aspettative sono scarse. Le strutture pubbliche – sostengono - non sono sempre preparate all’accoglienza organizzata dei flussi di immigrati, e ad un insediamento strutturale e democratico degli stranieri. La mentalità generale, o almeno quella che sembra prevalere, è segnatamente provinciale, disinteressata ad un rapporto di conoscenza reciproca e dinamica con chi ha un’altra storia da narrare. Le donne che si sono rivolte a qualche organizzazione del lavoro lo hanno fatto sotto la spinta dei problemi incontrati sul lavoro: la tutela dei propri bisogni è il pungolo principale per accostarsi all’attività dei sindacati o di altri soggetti sociali. Marina non ha molta fiducia nelle istituzioni italiane perché non offrono molti sostegni alle immigrate, soprattutto se ragazze madri come lei. Sono problemi che in misura diversa affrontano anche molte lavoratrici italiane.

 

Roma si sforza di rispondere a questi bisogni attraverso la creazione di nuovi organismi e all’attività di diversi soggetti sociali, ma è un processo lento soggetto ai tempi lenti della politica. La prospettiva di un miglioramento della condizione di lavoro è in parte collegata al pieno rispetto del contratto collettivo del lavoro domestico. Ma appare necessaria una generale inversione di tendenza che impegni la classe politica, sia sul piano locale che nazionale, insieme con una più compiuta consapevolezza della centralità assunta dal lavoro straniero in Italia.

 

Il ruolo crescente delle badanti ne è una chiara dimostrazione. E, al tempo stesso, le considerazioni delle donne che abbiamo sentito ci invitano ad una riflessione estesa a noi stessi, uomini e donne, nella misura in cui investono problemi, bisogni e comportamenti che coinvolgono in prima istanza la società italiana, che per molti versi sembra incapace di impegnarsi a definire rapporti interpersonali e familiari forti in grado d intrecciare la dimensione privata con quella pubblica. Le affermazioni preoccupate di una rottura delle relazioni familiari e di un isolamento delle figure più deboli del nucleo parentale rispecchiano l’urgenza di ripensare complessivamente i valori di appartenenza e di solidarietà propri di una comunità che presenta problemi propri insieme con quelli dell’integrazione. 

 

* La ricerca è stata realizzata in occasione del centenario della CGIL, nell’ambito del progetto “Mondi femminili in cent’anni di sindacato” promosso dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

Mercoledì, 6. Febbraio 2008
 

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