La “Buona scuola” ha il cappello da asino

Anatomia del disegno di legge. Tutto il potere al Dirigente (che potrà correre dei rischi), svuotati gli organi collegiali, pochi soldi gettati qua e là con dubbi criteri, finanziamenti a chi sceglie le private (ma non tutte). Confusione sugli organici, scende il numero dei precari stabilizzati e restano le supplenze. E un dubbio-bomba: il contratto a tempo indeterminato verso la scomparsa?

Rispetto al documento sulla “Buona Scuola” pubblicato nel settembre dell’anno scorso il ddl licenziato di recente dal governo Renzi contiene novità, novità apparenti, questioni taciute, criticità.

Prima novità: il rafforzamento delle funzioni e dei compiti del Dirigente Scolastico (DS). Al DS spetterà il compito di formulare il Piano dell’Offerta Formativa e  affidare gli incarichi di docenza, triennali e  rinnovabili. Tale rafforzamento viene giustificato come mezzo per “garantire un’immediata e celere gestione delle risorse”, attribuendo implicitamente alla gestione collegiale della scuola, così come prevista dai decreti delegati del ’74, la responsabilità per la lentezza e l’inefficienza dell’amministrazione scolastica. Il DS opera “sentito il Collegio dei docenti e il Consiglio di Istituto, nonché” fantomatici “principali attori economici, sociali e culturali del territorio”.

 

In altri termini, i due organi di governo della scuola sono ridotti a meri consulenti. Il DS rafforzato procede dunque, in sostanziale solitudine (anche se i suoi collaboratori possono passare da due a tre) alla elaborazione del Piano, che deve essere pronto entro ottobre e che deve comprendere finalità, obiettivi, programma, risorse umane e materiali (1). Intanto, nelle more dell’attuazione della riforma, il DS è responsabile delle scelte didattiche e formative e della valorizzazione delle risorse e deve rendere trasparenti i criteri con cui, attingendo ai costituendi albi territoriali dei docenti (per il personale tecnico-amministrativo e ausiliario, ci saranno ancora le supplenze? Non è detto) affiderà gli incarichi triennali ai docenti e fornirà spiegazioni circostanziate per le sue scelte.

Tutto ciò in un quadro giuridico che è eufemismo definire fluido, gravido quindi di ricorsi al Tar, se non ai tribunali ordinari e per un compenso annuo aggiuntivo lordo di circa  1600 euro. Al comma 3 dell’art. 7, si legge, tra i criteri di attribuzione degli incarichi ai docenti, la possibilità dell’ Ufficio scolastico regionale  (
USR) di sostituire il DS “in caso di inerzia”. E’ evidente che l’inerzia non è termine giuridicamente pregnante, né la sostituzione del DS può far parte dei criteri di attribuzione degli incarichi.


Seconda novità: l’organico funzionale della scuola autonoma (art. 2 comma 1). Si tratta di una disposizione che accoglie una richiesta avanzata da tempo dalle scuole, messa in pratica, diversi anni fa, da un gruppo di istituti in via sperimentale e poi abbandonata a causa della progressiva riduzione delle risorse. L’organico funzionale così come viene proposto è però tutt’altra cosa rispetto a quello già esperito in passato. Esso infatti non coinvolge l’intero organico della scuola, ma è solo uno dei tre sottoinsiemi in cui esso risulta ripartito: posti comuni, posti di sostegno e, appunto, posti funzionali. Si lascia intuire una sorta di gerarchia, in cui la primazia spetta ai posti comuni, seguiti da quelli di sostegno e infine da quelli di organico funzionale, destinati a surrogare le supplenze. (2)

Terza novità: la triennalità del Piano dell’Offerta Formativa d’Istituto (art. 2 c. 4). Opportuno il “respiro” più lungo che un Piano disteso su diverse annualità offre alle scuole, di dubbia praticabilità la procedura che condurrebbe alla sua attuazione. Una volta elaborato e definito (non si dice che debba essere ancora approvato dal Collegio dei docenti e adottato dal Consiglio di Istituto, già “sentiti” in precedenza) il Piano deve passare al vaglio dell’Ufficio Scolastico Regionale, “in termini di compatibilità finanziaria e coerenza con gli obiettivi” e infine del ministero (MIUR), per poi diventare efficace a febbraio per l’anno scolastico successivo.

Mi chiedo: quale “azienda” progetta e programma senza sapere prima di quali risorse dispone? Se una scuola dovesse “esagerare” nelle richieste, chi, dove e con che criteri dovrebbe “tagliare” il Piano proposto? Sarebbe stato senz’altro più corretto fornire alle scuole autonome fin dall’inizio dell’anno un fondo globale unico e certo, tarato sul numero degli iscritti, su cui far  confluire tutti gli esigui e frammentati finanziamenti di cui si parla nel ddl e gli eventuali finanziamenti privati. Se un DS rafforzato conoscesse, come accade per le scuole paritarie, quanto ogni iscritto porta all’istituto, potrebbe progettare con maggiore cognizione di causa e senza sbandamenti.

Quarta novità: la triennalità degli incarichi di docenza (art. 6). Al c. 2 si dice che l’organico si costituirà su base regionale, con cadenza triennale e che il riparto delle risorse sarà effettuato in base al numero delle classi e, tra l’altro, alla presenza di “aree interne” (non si capisce bene cosa si voglia dire: lontane dal mare? Montane? Svantaggiate?) E’ da tale organico che i DS attingeranno per stipulare i contratti triennali rinnovabili, fatte salve le garanzie per il personale attualmente di ruolo, come al già citato art. 7 c. 4. All’art. 2 c. 13 è altresì specificato che il DS sceglierà i docenti “di concerto con il Collegio dei docenti e sentito il Consiglio di istituto”. Non vi è chi non veda l’ambiguità normativa di quel “di concerto”. Resta non del tutto chiaro se, progressivamente, dall’entrata in vigore della legge in avanti, non ci sarà più personale “di ruolo” a tempo indeterminatoma solo a contratto, né se i concorsi di cui si parla all’art. 8 c. 13 saranno indetti per alimentare gli albi territoriali in generale o ciascuna delle tre parti organiche (posti comuni, posti di sostegno, posti funzionali).

Quinta novità: la Carta del docente (art. 11). Si istituisce una sorta di “carta di credito culturale”, assai simile per ammontare e spirito soccorrevole alla tremontiana “carta di credito per gli incapienti”. Si tratta di 500 euro annui per spese legate all’aggiornamento, alla cultura e per le quali si dovrà attendere un apposito regolamento applicativo. Se questa è la “mancia” per i professori desiderosi di migliorare il proprio livello culturale, per la formazione, che è finalmente detta “obbligatoria, permanente e strutturale” si stanziano 40 milioni di euro (poco più di 50 per ogni docente).

 

Prima novità apparente: l’ art. 3 ha un titolo, “percorso formativo degli studenti”, con cui si vuole sottolineare la centralità dell’apprendimento e la possibilità concreta di aprire la scuola (secondaria superiore in particolare) all’opzionalità dei percorsi formativi. A tal proposito, all’art. 2 c. 3 si elencano, in modo peraltro disomogeneo gli ambiti di arricchimento e di flessibilità curricolare, che comprendono un poco tutto lo scibile, dalla musica alla storia dell’arte, dal diritto alla logica, dal rispetto del paesaggio e dei beni culturali all’italiano lingua 2 e così via. (3)

 

In realtà tutto ciò è presente da anni nelle disposizioni normative che regolano l’autonomia scolastica, anche se largamente inattuato a causa delle rigidità di sistema e della cronica mancanza di adeguate risorse. Stesso discorso per la riproposizione del Portfolio, sotto i nomi di Curriculum dello Studente e di Identità Digitale.

Seconda novità apparente: l’alternanza scuola-lavoro (art. 4). Si ribadisce qui quanto già previsto e attuato da diverse istituzioni scolastiche, soprattutto nell’ambito della formazione professionale. Interessante e nuova è l’introduzione dell’obbligo dell’alternanza anche per i licei, in misura di 200 ore (7-8 settimane) per l’intero triennio e l’esplicita apertura al Terzo settore e agli enti di promozione e gestione della cultura. Assai limitativa appare tuttavia la motivazione iniziale: “al fine di incrementare le opportunità di lavoro degli studenti”. Si tratta di un obiettivo difficilmente raggiungibile in così poco tempo e sembra rappresentare la “via italiana al sistema duale tedesco”, già annunciata dal Documento settembrino sulla Buona Scuola, ma con un respiro ben più corto e velleitario.  Molto più importante sarebbe stato invece sottolineare e perseguire l’importanza  educativa e didattica dell’introduzione nella scuola del lavoro come sistema di valori e di conoscenza della realtà.

 

Terza novità apparente: innovazione digitale e didattica laboratoriale (art. 5). E’ un “mantra” ripetuto da tempo e che trova crescente attuazione nelle scuole italiane, dove la strumentazione didattica informatica e digitale è in aumento costante, compatibilmente con i livelli generali del Paese, certo non lusinghieri se paragonati al resto d’Europa. Spiace però constatare che la didattica laboratoriale è qui identificata con le attività di laboratorio e che ci sia un accentuato orientamento verso l’occupabilità immediata e la promozione del prodotto sul mercato (tra gli obiettivi leggiamo “l’orientamento della didattica e della formazione ai settori strategici del Made in Italy)piuttosto che al raggiungimento di obiettivi pedagogici e didattici più generali e duraturi, che debbono coinvolgere tutte le discipline e non solo quelle più propriamente laboratoriali.

Prima criticità: il piano assunzionale (sic!) straordinario. All’art. 8 si affronta la questione che sta maggiormente a cuore ( et pour cause) al presidente Renzi, tanto da averlo indotto inizialmente a pensare a un decreto legge: la stabilizzazione dei precari “storici” e dei vincitori di concorso 2012, che  saranno “assunti” ciascuno per il 50% del totale, ma solo su due delle tre parti costitutive del nuovo organico, quella dei posti comuni e quella dei posti di sostegno. Si tratta di un provvedimento che, ancora una volta, “sana” una stortura prodottasi nel tempo dal mancato governo della scuola, ma con criteri meramente quantitativi. Inoltre si assumerà un numero molto più ridotto di docenti rispetto ai 150.000 sbandierati nel documento di settembre 2014 e  non si eliminerà il ricorso alle supplenze, rispetto alle quali il ddl si vede costretto a recepire la recente sentenza europea che inibisce contratti a termine più lunghi di 36 mesi (a questo proposito è previsto anche un fondo per pagare le multe, 10 milioni di euro!).

Data la delicatezza del tema, che coinvolge decine di migliaia di docenti e le loro famiglie, deve essere detto con chiarezza se si tratta di tradizionali immissioni in ruolo o se, come pare più probabile, visto l’impianto generale del testo per quanto riguarda il reclutamento, di un inserimento negli albi territoriali da cui i DS attingeranno per conferire gli incarichi triennali. Lo stesso dicasi per il reclutamento successivo, che avverrà solo su base concorsuale (art. 8 c. 13).

Seconda criticità: il riconoscimento del merito. Se ne parla all’art. 10 e rientra anch’esso nelle facoltà del DS, che assegna la somma premiale “sentito” il Consiglio di istituto. Non il Collegio dei docenti (per conflitto di interessi?) che è invece l’organo naturalmente competente per valutare il merito didattico di un insegnante. La somma stanziata è di 200 milioni di euro, pari ad un importo teorico pro-capite di 250 euro annui, a partire dal 2016. Nulla si dice a proposito del numero di docenti cui attribuire il riconoscimento del merito. Potrebbe verificarsi il caso di una scuola in cui tutti (o quasi) gli insegnanti “meritino” allo stesso modo?

Inoltre appaiono assai vaghi, e quindi pericolosi per il DS rafforzato, i criteri generali per la scelta che avverrà “sulla base della valutazione dell’attività didattica, in ragione dei risultati ottenuti in termini di qualità dell’insegnamento, di rendimento scolastico degli alunni e degli studenti, di progettualità della metodologia didattica utilizzata, di innovatività e di contributo al miglioramento complessivo della scuola.” Dovendo basare le sue scelte su parametri oggettivi, basterà al DS calcolare la media degli studenti promossi e constatare se l’insegnante fa uso di tablet, LIM e laboratorio?

 

Poi ci sono le “questioni taciute”.

Nell’intero documento non si parla mai del personale tecnico-amministrativo e dei  collaboratori scolastici. In verità il primo è nominato come soggetto di formazione sulle nuove tecnologie informatiche e sulla scuola digitale, mentre dei secondi si tace completamente. Né l’uno né gli altri sembrano far parte delle risorse da programmare. Si prelude con ciò alla privatizzazione del servizio di vigilanza e pulizia, alla scomparsa della figura del bidello? Che ne sarà del Direttore dei Servizi Generali (e non Gestionali, come erroneamente detto all’art. 5 c. 3  del testo) e Amministrativi (DSGA)?

 

Altra “questione taciuta” in questo ddl è quella delle reti di scuole sul territorio, mai neppure citate, come pure del connesso organico di rete. Le scuole sembrano essere destinate a far tutto da sole oppure a consorziarsi su base volontaria. Ampio spazio è poi destinato:

·             alla digitalizzazione, agli open data (all’art. 14, si prevede un Portale unico per la scuola, per il quale si stanzia 1 milione di euro; speriamo che si vigili sulla sua realizzazione un poco di più di quanto si è fatto per l’altro portale, il Portale Italia, costato un Perù e rivelatosi radicalmente inutile);

·             alla possibilità di destinare il 5 x 1000 anche alle scuole, si spera in surroga del versamento volontariamente obbligatorio che quasi tutte le famiglie fanno alle scuole per permettere loro di funzionare;

·             all’istituzione di uno “school bonus” (art. 16: “buono scuola” non è stata considerata locuzione altrettanto significativa), che estende ai finanziamenti dei privati alla scuola la ratio già utilizzata con successo per le ristrutturazioni edilizie.


Il ddl non tralascia di intervenire anche sulla disastrosa situazione dell’edilizia scolastica, stanziando, bizzarramente, 40 milioni per evitare il crollo dei solai (art. 20, c. 1): e se cade un cornicione, una gronda, un terrazzino? Le risorse destinate agli edifici (300 milioni di Euro) sono decisamente  poche e in più si fa sinistramente menzione di una “struttura di missione”, dello stesso tipo di quella balzata alla ribalta della cronaca nera con il caso Incalza.

Alle famiglie che iscrivono i propri figli alle scuole private paritarie si offre un contributo di 400 euro annui (sostanzialmente pari ad un mese di retta) per ciascun alunno, ma solo della primaria e secondaria di primo grado. La giustificazione data dagli estensori del ddl per l’esclusione delle secondarie di secondo grado “paritarie” (e sottolineo “paritarie”) è grottesca: dato che ancora non si riesce a discriminare i diplomifici e le scuole serie, il contributo non lo diamo a nessuno. Mi chiedo: non esiste un servizio ispettivo? Perché ammettere e tollerare che, oggi, ci siano in Italia delle scuole “paritarie” che rilasciano dei diplomi di carta straccia?

Solo all’art. 21 si introduce un’ampia e complessa delega al riordino legislativo, che si spera preluda alla stesura di un nuovo Testo Unico sulla scuola e che è il trave su cui poggia l’intera costruzione del ddl. Senza l’attuazione di tale delega, che interessa il funzionamento e il governo della scuola, tutto l’impianto disegnato dal ddl sarà mero flatus vocis.  Melanconicamente, l’art. 24 chiude sostanzialmente la proposta con tante “NNN” al posto delle cifre per le coperture finanziarie e con un ulteriore fondo di parte corrente di poco oltre i 200 milioni di euro (per una media di 260 euro a istituto), genericamente finalizzati alla “Buona Scuola”, al “miglioramento e alla valorizzazione dell’istituzione scolastica” che non si capisce bene a cosa debba essere applicato.

In estrema sintesi, è  evidente il forte squilibrio nel sistema di governo della scuola, sostanzialmente in capo del solo DS, con la implicita cancellazione della rappresentanza dei portatori di interessi (stakeholders) e senza le necessarie garanzie che un solido quadro normativo di riferimento può offrire. Non c’è che sperare in un decisivo, ampio e competente intervento risanatore del Parlamento.

 

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Note

1) Si tratta di un modus operandi che riconosco nel più generale agire della presidenza renziana: bisogna fare in fretta (“celere gestione”), le procedure collegiali sono degli intralci all’azione di governo (il Collegio dei docenti, il Consiglio di Istituto, un po’ come il Parlamento), la soluzione è quella dell’uomo solo al comando, che avoca a sé “e alla sua squadra” le funzioni di proposta, gestione e controllo. A tal proposito, sintomatica e paradigmatica assieme appare la funzione “salvifica” attribuita di volta in volta al giudice Cantone, l’Uomo Giusto che, un po’ come il santo Re Luigi di Francia, viene chiamato dappertutto a imporre le mani e a sanare, sempre in via straordinaria, la corruzione dilagante (si è parlato in queste ore di lui anche come possibile successore di Lupi al ministero delle Infrastrutture).

Sabato, 21. Marzo 2015
 

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