La ‘patrimonialina’ sul pensionato

Una perdita di 6.800 euro nei prossimi 20 anni per chi prende 1.450 euro lordi al mese: questo l’impatto, secondo i calcoli Spi-Cgil, del blocco dell’indicizzazione per due anni. La stessa cifra che verrà prelevata a chi ha 250.000 euro investiti. E non è la sola norma che erode i vitalizi

Che differenza c’è tra un pensionato a 1.450 euro lordi (corrispondenti a circa 1.200 euro netti al mese) e il possessore di una bella somma investita in azioni e titoli di Stato, diciamo 250 mila euro? A occhio è palpabile una distanza siderale tra il tenore di vita dei due ipotetici cittadini. Se uno ha da parte 250 mila euro, vuol dire che se la passa piuttosto bene e probabilmente ha anche un altro o altri redditi di una certa rilevanza. Per contro, il pensionato da 1.200 euro al mese netti di questi tempi può appena decentemente sopravvivere, ammesso che non abbia molti carichi familiari.

Eppure questi due contribuenti qualcosa in comune ce l’hanno: sono stati chiamati dal governo Monti a contribuire praticamente allo stesso modo alla salvezza dell’Italia. Il contribuente “ricco” pagherà ogni anno lo 0,1 per cento (che diventerà un po’ di più, lo 0,15 per cento a partire dal 2013) sul suo patrimonio. Il che significa 250 euro per il 2012 e 375 euro all’anno per tutti gli anni a venire. Il pensionato relativamente “povero” subirà un salasso annuale per il resto della sua vita (supponiamo che abbia una vita media e che oggi abbia 62 anni), pari a 20 anni, di circa 340 euro all’anno. Una specie di “patrimonialina” sulle pensioni. Non sembra tanto poco. Da dove arriva questo salasso? E’ semplicemente l’applicazione del blocco della perequazione per gli anni 2012 e 2013 a tutto il resto della propria vita. Il risultato, cui arriva uno studio del Sindacato pensionati italiani della Cgil, dà l’esatto senso di cosa significhi concretamente il blocco della perequazione, cioè dell’adeguamento all’inflazione.

Avvolta nelle nebbie della manovra, questa misura sembra un piccolo sacrificio imposto anche ai pensionati (da cui sono esclusi soltanto quelli al di sotto dei 1.400 euro lordi al mese). Con calcoli più precisi, però, la nebbia si dirada e mostra un paesaggio che lascia la bocca amara ai pensionati.

Ma come si arriva alla non modica cifra di 340 euro all’anno? Lo Spi-Cgil ha preso in considerazione una mancata perequazione pari al 2,60 per cento all’anno per i prossimi due anni. Bisogna però considerare che l’effetto di tale mancato adeguamento all’inflazione estrinsecherà i suoi effetti per tutto il resto della vita del pensionato. Infatti i futuri adeguamenti si applicheranno a un “montante”  bloccato al 2011. Non essendo previsto un recupero di ciò che si è perso, gli effetti si trascineranno nel tempo con una pensione che resterà più bassa di quanto non sarebbe stata senza l’intervento del governo Monti.


I calcoli fin qui fatti valgono per una pensione di 1.450 euro al mese lordi, Ovviamente, più sale la pensione, più la perdita diventa rilevante in termini assoluti. Lo stesso Spi-Cgil ha effettuato un altro calcolo su un assegno previdenziale lordo di 1.700 euro al mese, corrispondente a circa 1.400 euro netti. Ebbene, qui la perdita arriva a oltre 392 euro all’anno. Calcoli analoghi per le pensioni più alte non sono stati fatti ma non è difficile, con un po’ di fantasia, immaginarne le perdite.

Insomma, la “patrimonialina” sulle pensioni è stata introdotta, e a difesa di Monti si può dire che in passato anche altri governi l’hanno adottata. Fu il governo Amato a introdurne una parziale per la prima volta tra il ’92 e il ‘95, mentre fu reintrodotta nel 2007 dal governo Prodi per un solo anno e solo per gli assegni superiori a otto volte la pensione minima. Il governo Berlusconi, prima di cadere, aveva introdotto una norma – che adesso lascia il passo a quella dell’esecutivo Monti – che però prevedeva un minimo di salvaguardia fino a 5 volte la pensione minima.

I pensionati ogni volta incassano il colpo, e chi fosse andato in pensione prima del 1992 vivrebbe adesso il terzo blocco della perequazione, con un taglio significativo del valore reale del proprio assegno previdenziale.

Perequazione? Ma anche questa parola andrebbe riesaminata alla luce dei fatti. I pensionati italiani non hanno un vero adeguamento all’inflazione neanche quando…ce l’hanno. “Il sistema di calcolo della perequazione – spiega Ivan Pedretti, segretario nazionale dello Spi-Cgil – non permette di recuperare tutto ciò che si è perso in termini puramente monetari, o perlomeno lo permette solo a chi ha una pensione fino a 1.400 euro lordi”. Infatti, il tasso di rivalutazione monetaria calcolato dall’Inps alla fine di ogni anno e reso operativo a gennaio dell’anno successivo si applica solo al 90 per cento della quota di pensione compresa tra 1.400 e 2.200 euro. Oltre questo limite, si applica solo al 75 per cento.

Non parliamo poi dell’adeguamento alla crescita del Pil, ovvero l’aggancio alla crescita reale dei salari. In altri paesi – avverte lo Spi-Cgil – il recupero per i pensionati è totale anche su questo fronte. Mentre in Italia, dopo la riforma del 1992, semplicemente non è mai stato applicato, pur essendo teoricamente previsto.

Le conseguenze di questo stato di cose sono molto rilevanti e non vengono quasi mai prese in considerazione né dall’opinione pubblica né dai pensionati, che pur costituiscono un esercito pari a circa un quarto della popolazione italiana:
1) Dal momento in cui si va in pensione, comincia a operare – una misura su cui tutti i governi dal 1992 a oggi hanno concordato – una specie di “livella” che erode, ogni anno che passa, il valore alle pensioni: l’erosione è minore per quelle più basse, maggiore di più via via che si sale. Di fatto, l’Italia ha introdotto da circa vent’anni un sistema permanente per impoverire chi lascia il lavoro attivo. Un silenzioso ma gigantesco trasferimento di risorse da chi è in quiescenza allo Stato, che è il beneficiario maggiore, attraverso i suoi enti di previdenza, Inps e Inpdap, di questi risparmi.
2) L’effetto di questa “livella” – che entra in funzione ben prima di quella ricordata da Totò – porta a un progressivo schiacciamento verso il basso nel valore delle pensioni e per questa via (ma anche attraverso la rinuncia all’adeguamento rispetto alla crescita dei salari) anche alla progressiva creazione nel corso tempo delle famigerate “pensioni d’annata”, per cui un direttore generale andato in pensione vent’anni prima alla fine ha una pensione pari al fattorino che lascia il lavoro oggi.

Il sindacato pensionati della Cgil ha calcolato che negli ultimi 20 anni i pensionati abbiano perso – complessivamente – circa il 30 per cento del valore effettivo del loro assegno. Naturalmente, per effetto dei meccanismi che abbiamo visto prima, c’è chi ha perso poco e chi ha perso tanto. Ora arriva anche l’ultima “patrimonialina” del governo Monti ad accelerare “’a livella”. Il governo potrebbe replicare che tutti, anche i meno abbienti, sono chiamati in questo momento a contribuire alla salvezza dell’Italia, ed è vero. Tuttavia va considerato che i pensionati già devono pagare, al pari di ogni altra categoria, tutte le nuove tasse e balzelli vari introdotti da questo governo. In più, per il solo fatto di essere in quiescenza, devono mettere sul piatto un altro sacrificio, anche quando l’assegno previdenziale basta appena per sopravvivere. Fu vera equità? Ai posteri l’ardua sentenza.

(Twitter: @AdrianoBonafede)
Venerdì, 13. Gennaio 2012
 

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