L' 'asse del male' può salvare l'Iraq

Il paese è diviso in tre e dilaniato dalla guerra civile e ormai neanche un aumento delle forze impegnate sul campo riuscirebbe a risolvere la situazione. L'unica strada è un coinvolgimento di Siria e Iran: solo essi potrebbero ottenere un accordo che metta fine alle ostilità
Marco Calamai è stato Consigliere speciale della CPA (Coalition Provisional Authority) a Nassiriya, incarico dal quale si è dimesso dopo l'attentato del 12 novembre 2003 in aperto dissenso con l'occupazione a guida Usa. Attualmente è   Consigliere speciale dell'Undp (United Nations Develoment Programme) per l'Iraq. E&L gli ha fatto alcune domande sui possibili sviluppi della situazione.

 
Nella ricerca di una via d’uscita dal caos provocato dall’invasione americana dell’Iraq, si fa strada l’idea di una tripartizione regionale del paese. Conoscendo per esperienza diretta la realtà del paese, che idea ti sei fatta in proposito?
 
"Non c’è dubbio che già oggi esistano nei fatti tre Iraq. Il Kurdistan, è inserito formalmente nelle istituzioni dell’Iraq, ma in pratica è un paese indipendente: ha abolito l’insegnamento dell’arabo, eliminato i simboli iracheni, l’esercito e la polizia sono controllati dalle milizie locali.
 
Quanto al sud sciita, è sostanzialmente sotto il controllo delle diverse  milizie filo iraniane, mentre si fa strada l’ipotesi di uno Sciistan, una sorta di regione–Stato formata dalle province a sud est di Baghdad nelle quali gli sciiti rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione e nelle quali, altro dato cruciale, sono concentrate enormi risorse petrolifere.
 
Infine il centro a maggioranza sunnita, epicentro della guerriglia, vede nella lotta armata l’unica strada perseguibile non solo per accelerare il ritiro americano, ma anche per contrastare il disegno di una separazione tutta a vantaggio di curdi e sciiti dalle cui province proviene gran parte delle risorse energetiche.
 
In sostanza, l’occupazione dell’Iraq, lungi dall’apportare un esempio di democrazia in Medio Oriente, ha provocato il riemergere, sulle ceneri del regime di Saddam, delle tre tradizionali province ottomane di Mosul (curda), Bagdad (sunnita) e Bassora (sciita) che erano state unificate con la forza dalla Gran Bretagna negli anni venti del secolo scorso e sottoposte al controllo della minoranza sunnita. Caos e violenza hanno fatto affiorare le tensioni antiche di una società civile ancora dominata da una antica struttura tribale che appare incompatibile con una democrazia di tipo occidentale". 
 
In questo quadro, non è un caso che Bagdad sia al centro di scontri  sanguinosi , completamente al di fuori della capacità di controllo del governo asserragliato nella “zona verde” e che, secondo alcuni strateghi del Pentagono, dovrebbe essere messa sotto controllo inviando nuove truppe.
 
"In effetti, a Bagdad è in atto una guerra civile, e non saranno certo nuove truppe a fermarla. Nella capitale  vivono sunniti e sciiti, le due principali comunità arabe irachene straziate da quotidiani attentati ed esecuzioni sommarie per opera, da una parte, dei gruppi sunniti più radicali, che non accettano un governo e un parlamento dominati dalla maggioranza sciita, e dall’altra delle milizie sciite più integraliste, le quali torturano e uccidono con la complicità del ministero degli Interni. La capitale è ormai divisa in quartieri blindati, abitati da soli sciiti o sunniti, che dispongono di  proprie milizie armate e posti di blocco. E, secondo certe inchieste, circa due milioni di abitanti hanno abbandonato la città. Chi può fugge, possibilmente all’estero".
 
 E’ possibile una soluzione coinvolgendo il quadro regionale, paradossalmente chiamando in “aiuto” gli Stati che Bush aveva inserito nell’”asse del male” ?
 
"Indubbiamente, il doppio conflitto iracheno (tra americani e sunniti; tra sunniti e sciiti) è intimamente intrecciato con la crisi più generale del Grande Medio Oriente, a sua volta condizionata dalla questione palestinese, dal fallito progetto neocon di pacificare la regione imponendo dall’esterno formule democratiche, dal conflitto tra sciiti e sunniti, dallo scontro tra islamismo radicale e regimi oligarchici. Non è perciò immaginabile una soluzione positiva del conflitto iracheno senza coinvolgere in qualche modo i diversi attori di questa complessa realtà.
 
Di qui il ruolo chiave della Siria e dell’Iran. Un eventuale accordo tra sunniti e sciiti in Iraq dipenderà in gran parte da questi due paesi, per altro legati dal loro comune sostegno agli Hezbollah in Libano. Iran e Siria potrebbero contribuire al consolidamento di uno Stato, insieme unitario e decentrato, che regoli una sostanziale autonomia delle tre principali componenti etnico-religiose garantendo ai sunniti una parte dei proventi dal petrolio.
 
Una soluzione, a questo punto, molto difficile, ma l’unica auspicabile se si vuole fermare una feroce guerra civile. Ma questa soluzione richiederebbe in tempi rapidi una svolta radicale, in senso multilaterale, della politica estera americana in Medio oriente. Una politica che definisca un quadro di riferimento condiviso - in primo luogo da Siria, Iran e dalle principali componenti etnico religiose irachene - per il ritiro delle truppe. Nei prossimi giorni la Casa Bianca esaminerà il rapporto sulla situazione irachena preparato dallo Iraq Study Group, coordinato da James Baker, l’ex segretario di Sstato di Bush padre, di cui fa parte anche Robert Gates, il nuovo capo del Pentagono. Vedremo se ci sono le condizioni di una svolta che, per ora, si presenta del tutto incerta, se non improbabile, almeno a breve".
 
Venerdì, 24. Novembre 2006
 

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