L’uovo di Colombo contro la precarietà

Un disegno di legge presentato da tre senatori del Pd affronta il problema puntando sul fattore che ha certamente avuto la maggiore influenza nella diffusione delle forme di lavoro atipiche, ossia la loro convenienza per le imprese da punto di vista economico. Potrebbe diventare un primo tassello del programma di governo del centro sinistra

Non vede ancora la luce un programma di opposizione condiviso. Eppure il tempo stringe, è necessario lavorarci, tanto più se entro qualche mese dovesse aprirsi la campagna elettorale e rendersi necessario promuoverlo a programma di governo del polo di centro-sinistra. Almeno qualche tassello del resto potrebbe cominciare a prendere corpo. Un esempio è quello che ci viene offerto, proprio nella materia che dovrebbe ricoprire il posto centrale, il lavoro, dal progetto di legge che è stato appena depositato in Senato da Rita Ghedini, Achille Passoni e Tiziano Treu dal titolo “Misure di contrasto alla precarietà del lavoro (qui una sintesi).

Si tratta di un progetto che riprende alcuni dei temi maggiormente discussi nelle ultime stagioni nel centro-sinistra in materia di lavoro ed offre una soluzione  che, pur essendo “di parte” su qualche aspetto non marginale, potrebbe tuttavia far registrare convergenze e avanzamenti significativi.

 

La strada scelta non è quella di un contratto unico a geometria variabile, che altri autorevoli parlamentari del Pd hanno sostenuto e inserito in precedenti proposte di legge. Si afferma invece un concetto che si sta facendo strada (faticosamente) e può segnare un punto di svolta: che alla base della diffusione del fenomeno della precarietà c’è oggi un puro e semplice calcolo di convenienza economica. Dunque, bisogna aumentarne i costi, in base al principio della parità di costo a parità di prestazione. Sia quelli derivanti dalla retribuzione diretta, attuale, del lavoro, sia quelli indiretti necessari per garantire una pensione dignitosa e diritti sindacali anche ai lavoratori a cui sono negati, per le caratteristiche dei contratti atipici.

 

Non è poi un principio così rivoluzionario, anche se oggi può apparirlo. Basta ritornare con la memoria ai tempi del “Patto per il Lavoro” (1996) e del Pacchetto Treu (legge 196 del 1997), ingiustamente accusato da alcuni di aver rappresentato il primo gradino della precarizzazione. Fu, sì, una iniezione di flessibilità (introduzione del lavoro interinale) ma sottoposta a due precisi vincoli: costare di più, con garanzia totale della retribuzione di fatto a parità di mansione (a differenza del lavoro a termine che rispetta i contratti ma solo nello stipendio base) e garantire un adeguato supporto formativo per reggere sul mercato del lavoro. Non è del resto un caso che un terzo circa delle “missioni” interinali si sia regolarmente trasformato in contratti stabili.

 

Il concetto che il lavoro flessibile debba costare di più di quello stabile dunque può ben sintetizzare la proposta del Pd contro la precarietà. In questi termini si è anche pronunciato in più occasioni il responsabile dell’area “Economia e lavoro” della segreteria del Pd, Stefano Fassina e si dovrebbe pensare perciò a una iniziativa forte del partito su questo tema. Tanto più che non lo si è affrontato con un’ottica unilaterale, guardando cioè esclusivamente al lato lavoro, ma – come si diceva una volta – in base a una cultura di governo. Non si trascurano quindi le esigenze delle imprese né in termini di flessibilità né quanto alla necessità di valutare al meglio la rispondenza dei nuovi assunti alle caratteristiche dei posti da ricoprire (a questo proposito, per fare un esempio, si rivede la durata del periodo di prova). Inoltre, aspetto tutt’altro che secondario, trascurato però dalle altre proposte, si punta con forza sulla formazione e sulle politiche attive. Quanto alla prima, incentivandone il ricorso da parte delle imprese, in particolare per tutti i contratti discontinui e non solo per l’interinale, mentre per le seconde si propone una interessante novità con l’istituzione degli Sportelli Unici del Lavoro.

 

E’ però difficile nascondersi che le probabilità di un’iniziativa forte su questo tema sono minime. Perché se è vero che non mancano elaborazioni pregevoli sui vari temi dell’agenda – e quello del contrasto della precarietà dovrebbe probabilmente occupare il primo posto per un partito come il Pd – non si coglie la sintesi, il nucleo condiviso attorno alle priorità fondamentali, quelle su cui gli elettori misurano una proposta politica, quelli in grado di mobilitarli e portarli al voto.

 

Che cosa impedisce di stabilire una sintesi, un nocciolo coerente e condiviso con convinzione da un gruppo sufficientemente largo, qualificato e coeso, mi domandavo nel precedente articolo su questo sito (Cercasi programma di opposizione condiviso). Vorrei insistere sul tema con tre esempi.

 

- Precarietà: dovrebbe essere condiviso da tutto il partito il concetto per cui il lavoro stabile è sia socialmente più giusto ed accettabile sia economicamente più efficiente, soprattutto in un’ottica di lungo periodo che guardi all’economia nel suo complesso e non solo alla singola impresa.

- Fisco: dovrebbe essere condiviso da tutto il partito il concetto secondo cui il recupero di evasione e il riequilibrio tra le forme di imposta che gravano sui redditi (di persone e imprese) deve essere accompagnato, in un’economia che è andata sempre più in direzione di processi di accumulazione di ricchezza, da qualche forma di tassazione sui grandi patrimoni (finanziari, immobiliari).

- Welfare: dovrebbe essere condiviso da tutto il partito il concetto secondo cui la protezione sociale assicurata ai soggetti a rischio di impoverimento, di esclusione, di marginalizzazione è, ad un tempo, socialmente più giusta ma anche economicamente più efficiente di fronte all’impossibilità del mercato – strutturale, connessa alla sua stessa natura e funzione – di far fronte ai costi impliciti e espliciti di questi fenomeni, di queste “disavventure” dei cittadini.

 

Invece questi concetti non sono affatto condivisi da tutto il partito. Su questi temi si registrano tensioni che danno luogo a oscillazioni e in fin dei conti a una sorta di afasia. Sul lavoro affiorano posizioni di acquiescenza, incomprensibile, nei confronti dell’ideologia dell’impresa “totem” che svaluta e impoverisce il lavoro rendendolo precario; posizioni a cui se ne contrappongono altre di ostinata rigidità e chiusura nei confronti dell’impresa in quanto tale. In materia di politica fiscale si elaborano proposte che, pur offrendo soluzioni tecniche pregevoli, non mordono tuttavia sugli aggregati fondamentali della distribuzione del carico fiscale tra abbienti e non abbienti e tra lavoratori dipendenti e resto del mondo e preferiscono non affrontare il tema dei patrimoni (impopolare, si sente dire, sull’onda delle campagne “no tax” che la destra indirizza alla pancia dell’elettorato benestante); nel mentre, altri settori del partito avanzano proposte di inasprimento del carico fiscale sui redditi e sui consumi che finirebbero per pesare ancora sui soliti tartassati. In materia di welfare si va facendo strada una propensione ad associarsi al coro che inneggia alla sussidiarietà e al ruolo della famiglia, come se dietro a concetti apparentemente universali non si nascondesse un ritorno indietro di sessant’anni e l’abbandono a se stessi dei più deboli; intanto però resistono tenacemente posizioni di rigida difesa di strutture e istituzioni autoreferenziali e segreganti in nome di un modello che risponde ormai solo agli interessi della parte più corporativa degli operatori.

 

Che cosa c’è all’origine dell’incapacità di risolvere queste dicotomie, di questa “indecisione a tutto”? Ripropongo la domanda, che interroga insieme al Pd il sindacato, tutto il sindacato nelle sue tre espressioni storiche. Anzi, nel movimento sindacale la dicotomia, l’incapacità di fare sintesi assume addirittura una plasticità nella forma della divisione tra sigle e, almeno per quanto riguarda la Cgil, al suo interno. Ma non sono, l’uno e l’altro fenomeno, quello politico e quello sindacale, accomunati da una stessa genesi, sintomi diversi di una medesima patologia? E non c’è un nesso forte tra queste oscillazioni e quelle sulla leadership, tra chi candida alle primarie Bersani, pensando che debba avere un mandato per aprire la strada a Casini, e chi accarezza l’idea di affidarsi direttamente a Vendola?

 

Non pretendo di avere una risposta né ho la presunzione di fornirla ma, ripeto ancora, vivo con una certa angoscia la sensazione che non ci si voglia porre la domanda.

Venerdì, 3. Dicembre 2010
 

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