L’unità ostacolata dai radicalismi

«Conquiste del Lavoro», 26 marzo 2003
Non è la prima volta che, a fronte di una fase critica dei rapporti tra Cisl e Cgil, emergono appelli all’unità. Quelli di noi più avanti negli anni ricordano le iniziative svolte in particolare dai socialisti della Cgil.

Anche nella fase attuale non mancano esortazioni: alcune “per tornare a vincere”; altre per tornare a svolgere il ruolo della confederalità nel Paese. Tra tutti si distingue – anche per le sincere preoccupazioni sullo stato delle relazioni sindacali – l’appello di Gino Giugni, Piero Boni e altri: “Per riprendere il cammino dell’unità sindacale” (per unità sindacale s’intende, nella presente fase, il ripristino dell’unità d’azione, Ndr).
Il documento si guarda bene dal “giudicare” questa o quella posizione: “Non sta a noi indicare le soluzioni”. Tuttavia entra nel merito, premettendo subito che il sindacalismo deve tendere ad essere unitario, “senza essere trascinato sul terreno improprio delle appartenenze politiche e delle loro contrapposizioni”.
 
La questione che pongono è quella della rappresentanza sociale nella sua autonomia “il cui compito non è quello di fiancheggiare questa o quella ipotesi politica”. Al più propongono tre questioni che definiscono di metodo piuttosto che di merito. La prima riguarda le forme della rappresentanza dei nuovi soggetti sociali, da quelle organizzative a quelle di tutela. Che: “se fatto unitariamente sarà più efficace”. Non c’è dubbio.
La seconda concerne la concertazione che: “dopo il grande risultato del 1993, è stata rimessa in discussione su iniziativa del governo e di alcuni settori imprenditoriali”. Invero le tesi precongressuali della Cgil, prima ad iniziativa delle “aree critiche” e poi a maggioranza in congresso, hanno dato alla concertazione più di qualche colpo di piccone.
 
La terza, cruciale, suggerisce un accordo sulle regole, procedure e meccanismi decisionali al fine di dirimere, senza rotture e atti unilaterali, i dissensi tra le organizzazioni sindacali. Qui mette conto interloquire.
 
Nell’appello si parla di “codice di autoregolamentazione su cui basare in futuro una legislazione di sostegno”. E si riconosce che – dopo l’accordo sulle Rsu – “esiste una vasta rete rappresentativa e unitaria” che supera la democrazia sindacale “solo associativa o solo referendaria”.
 
Ma l’aggettivo sindacale affiancato al sostantivo democrazia è singolare. Ciò che deve essere democratico è il sindacato in quanto associazione (o, se si vuole, organizzazione). Altro è la partecipazione dei lavoratori “disorganizzati” e le forme di consultazione. Che, di tutto hanno bisogno, meno che di norme di legge all’italiana. Anche perché, se si va per legge, allora sì che bisogna tenere in conto che non siamo soli. Sintomatica la reazione della Ugl che – anche a nome del sindacalismo autonomo – reclama: “ci siamo anche noi”.
 
Molti degli amici coautori dell’appello sanno che quando la Cisl ribadisce – come ha fatto al consiglio generale del 18 febbraio scorso – “la contrarietà ad ogni ipotesi di regolamentazione per legge della rappresentanza” non fa i capricci ma afferma un principio basilare della democrazia pluralista e del pluralismo democratico. Ma tant’è, l’anelito per il ripristino dell’unità d’azione percorre anche la Cgil.
 
Mentre la Confederazione di Corso Italia appare tutta schierata con la Fiom, altre categorie fanno piattaforme e lotte unitarie. Il referendum come unica forma di approvazione dei contratti non è unanime; alcuni considerano buona soluzione quella proposta dalla Fim-Cisl. Peraltro, nelle piattaforme comuni non mancano rivendicazioni sulla mutualità integrativa, strumenti concertativi, sedi bilaterali. In particolare Aldo Amoretti, presidente dell’Inca, raccomanda di trovare intese unitarie sul lavoro sommerso e precario, sulla struttura della contrattazione e sulle politiche di concertazione.
 
Ma tant’è, il rapporto unitario ha vissuto fasi di alterna dialettica su modelli di sindacato contrapposti. Persino sulle “formule” di unità fu dialettica: a pezzi, con chi ci sta, tra diversi, organica, federativa. Ma rischiò il peggio solo quando cadde in contrapposizioni manichee (tra unitari ed antiunitari).
Oggi, però, è prioritario, anzi preliminare, porre fine alla delegittimazione della leadership e alla strumentalizzazione della “base”. In passato il peggio venne scongiurato grazie anche alla stima reciproca.
Venerdì, 28. Marzo 2003
 

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