L’Iran e l’America smemorata

Come ieri per l’Iraq, sta montando una campagna per mettere in allarme l’opinione pubblica ingigantendo il rischio nucleare. Che è oltretutto assai dubbio e tutt’altro che provato: anzi, tutte le 16 agenzie di intelligence, all’unanimità, sostengono che non ci sia. E Obama resta passivo, condizionato dalla politica interna

“La storia si ripete sempre due volte: la prima come

 tragedia, la seconda come farsa” (K. Marx)… speriamo

 

TIME Magazine ha riferito che l’uomo di punta della nuova intransigenza americana contro l’Iran è diventato, adesso, il segretario alla Difesa in persona, Robert Gates (15.7.2010, An attack on Iran: back on the table  — Un attacco al’Iran: l’opzione è nuovamente sul tavolo). Era segretario alla Difesa anche con George Bush il piccolo e a lui venne attribuito l’aver dissuaso, allora, il presidente dall’attaccare l’Iran. Era il 2008 e gli USA erano infognati, come e peggio di adesso, in Iraq e Gates spiegava che ficcarsi in un’altra guerra in Medioriente era “l’ultima cosa di cui l’America avesse bisogno”.

Ora è il 2010 e gli Stati Uniti sempre là sono infognati e ancora più di allora, addirittura drammaticamente, sono ora impantanati in Afganistan. Ma non fa niente: Gates sembra aver cambiato opinione. O forse stavolta ha ricevuto ordine di cambiarla. Dice, secco e sicuro, di non credere che “siamo pronti neanche a parlare di un Iran nucleare… Noi americani neanche la contempliamo l’idea di un Iran che abbia a disposizione armi nucleari. Puramente e semplicemente”.

Sembra proprio curioso, però. Anzitutto, non esiste nessuna prova (non indicazione, non chiacchiera, non spiata che nessuno può dimostrare: prova per tutti credibile) che l’Iran stia effettivamente lavorando alla fabbricazione di armamenti nucleari: neanche Israele lo ha mai sostenuto, nessun rapporto della AIEA, l’agenzia atomica delle Nazioni Unite, lo ha affermato, l’intelligence stessa americana – per quanto precariamente credibile e, ormai, creduta – lo ha detto. Anzi, come si sa, tutte le 16 agenzie di intelligence americane, all’unanimità, hanno ufficialmente sostenuto il contrario (New York Times, 3.12.2007, M. Mazzetti, US Says Iran Ended Atomic Arms Work — Gli USA affermano che l’Iran ha dismesso il lavoro sugli armamenti atomici).   

Ma se è così, perché Robert Gates adesso, e senza che questa valutazione sia stata mai altrettanto ufficialmente rivista, si scatena come se invece un Iran nucleare fosse realmente cosa imminente? (a parte, si capisce, la questione dei due pesi e delle due misure: le armi nucleari di Pakistan e India vanno bene; quelle di Israele, ça va san dire…; ma l’Iran no: “no tu no… e perché no? perché no!”). 

Beh, la spiegazione più razionale di questo mistero non gaudioso è che a Washington sia quasi un riflesso condizionato reagire come reagirebbero loro se si trovassero nei panni di Teheran. In effetti, basta qualche domanda, retorica perché in fondo richiede solo un po’ di memoria storica o, se volete, di onestà per trovare risposta  a chiarire il punto. Perché

• chi sosteneva Saddam Hussein nella guerra che, scatenata da lui negli anni ’80, fece un milione di morti iraniani se non gli Stati Uniti?

• chi ha attaccato e invaso, vent’anni dopo, l’Iraq di Saddam imputando la resistenza degli iracheni all’istigazione degli sciiti di Iran se non  gli Stati Uniti?

• chi, a partire dai primissimi anni ’80, invece di rimediare al malfatto (la riconsegna dell’Iran democratico del primo ministro Mossadeq allo scià-dittatore) ha virtualmente circondato l’Iran di basi militari potenzialmente ostili se non gli Stati Uniti?

• chi sta sostenendo, ora e da anni – finanziariamente, logisticamente e talvolta anche politicamente – attentati e tentativi di rivolta armata di gruppi etnici e ideologici minoritari in Iran? perfino di gruppi che gli USA dichiarano ufficialmente terroristi, come i Mujaheddin, se non  gli Stati Uniti?

• chi si rivolge oggi all’Iran con accuse e toni del tutto identici a quelli con cui si rivolgeva all’Iraq prima di quella invasione se non  gli Stati Uniti?

• chi, quasi giornalmente, parla di bombardare “preventivamente” l’Iran, se non Israele, alleato numero uno degli Stati Uniti?

• chi dichiara, anche qui quasi ogni giorno, che comunque questa opzione – bombardare l’Iran – è sempre aperta sul tavolo se non gli Stati Uniti?

• chi ha bollato l’Iran, nel tempo, insieme a Iraq e Nord Corea, come “Stato-canaglia”, uno dei tre dell’ “asse del male” e, anche se non lo dice più quotidianamente, continua a comportarsi come se lo dicesse, se non gli Stati Uniti?

• e, alla fine di questa bellicosa sarabanda, forse il punto più rilevante: avete notato quale di questi tre Stati-canaglia non è stato invaso o minacciato di essere invaso/attaccato dagli Stati Uniti se non l’unico che dichiara di avere armamenti nucleari e di utilizzarli, al momento, come deterrente e, domani, se attaccato, come mezzi di rappresaglia? chi, se non la Corea del Nord…

Insomma, e certo, il sospetto che l’Iran stia ancora lavorando in segreto a farsi l’arma nucleare è legittimo. Non occorre essere un genio, neanche per un segretario alla Difesa americano, che di regola stupido poi non è, per presumere che, anche se le prove non sono state trovate, anche se Teheran giura di non correre dietro alla bomba oltretutto per motivi pure religiosi (c’è una famosa fatwa di Khomeini a vietarlo perché strumento “contro l’umanità”), la ricerca dell’arma nucleare stia proseguendo. Come, appunto, sicuramente farebbero gli Stati Uniti d’America, se fossero loro al posto dell’Iran.

Ma, a questo punto, in questa ricostruzione tutta necessariamente ipotetica, sarebbe opportuno fermarsi un momento a chiedersi cosa poi preoccupi tanto gli Stati Uniti se l’Iran si dotasse poi di una, due, tre armi nucleari a scopi che la dottrina nucleare stessa degli Stati Uniti, elaborata in sessant’anni di convivenza e di conoscenza della bestia, per definizione spiega a carattere solo di deterrenza — considerando, per un paese chiuso a ovest e a est tra due Stati atomici e ostili come Israele e Pakistan, la qualità rozza, primordiale, che i suoi esemplari di arma poi avrebbero.

E’ un fatto che, nei tempi moderni, certamente da centinaia di anni, l’Iran non ha mai attaccato nessun paese dal quale prima non fosse stato aggredito. Ed è anche un fatto che tutta la nozione costruita intorno alla famigerata dichiarazione del suo presidente, Ahmadinejad, di voler “cancellare Israele dalla carta geografica”, è stata costruita su una traduzione, niente affatto innocente o obiettiva, di un suo discorso.

Che lui, poi, certo non si è mai preoccupato di chiarire fino in fondo, secondo i criteri della nostra razionalità cartesiana. Come del resto faceva Saddam quando non smentiva di avere le armi di distruzione di massa che non aveva – e che Bush sapeva che non aveva – per ragioni sconsiderate di malinteso, chiamiamolo pure, “gallismo”.

Ahmadinejad in quel suo famoso discorso non aveva mai parlato, in effetti, di cancellazione di Israele dalla mappa, ma di regime change, esattamente come fanno per l’Iran ogni giorno gli americani: cioè di scomparsa nel tempo – e, poi, inch Allah: affidata al volere di Allah… – dal governo di Israele del regime sionista — nel quale, effettivamente, un ebreo ha diritti e un arabo molti meno o, se è palestinese, nessuno (per una ricostruzione esatta di quel che disse e non disse, leggere l’articolo del 26.5.2007, di Arash Norouzi, ‘Wiped off the map’– the rumor of the century — ‘Cancellata dalla carta geografica – La chiacchiera del secolo).

Questa leggenda metropolitana costruita ad arte fa il paio con la favola, goffa e bizzarra, dei soldati iracheni che, nel corso dell’invasione del Kuwait dell’agosto del 1990, avevano buttato via decine di neonati kuwaitiani dalle incubatrici per portarsele a Baghdad: menzogna fatta recitare in Tv dalla figlia quindicenne dell’ambasciatore del Kuwait a Washington che raccontava di averlo visto con i suoi occhi negli ospedali di Kuwait City… quando era, invece, al sicuro a Washington, appunto; vedi qui).

Pura invenzione che giocò efficacemente il ruolo, consueto a ogni guerra americana a partire almeno da quelle di sterminio contro gli indiani dell’800, di demonizzazione del nemico. L’effetto, costruito artificiosamente, per non ridire mentendo spudoratamente, da una campagna di public relations montata dalla Hill & Knowlton, profusamente pagata dall’emiro del Kuwait, che durò poco… ma abbastanza da far indignare un’opinione pubblica particolarmente credula come quella americana, pronta a credere il meglio – e solo il meglio – dei propri soldati e il peggio – solo il peggio – di quelli degli altri.

L’articolo di TIME Magazine cui si faceva riferimento all’inizio ci informa, anche, che il Comando centrale dell’esercito americano “che ha l’incarico di organizzare le operazioni militari in tutto il Medioriente” ha “compiuto grandi progressi nella pianificazione degli obiettivi iraniani da colpire nei raid aerei” e che “Israele è stata naturalmente inclusa nel processo di pianificazione” della campagna (chiedo scusa: quel “naturalmente” nel testo di TIME non c’è; ma, chi sa perché, mi è scivolato via così – naturalmente – sulla tastiera del computer…)

C’ è qualcosa di fasullo, in apparenza di inspiegabile, in questo fenomeno. Ma a spiegarlo bene, in realtà, venne due anni fa un libro risolutivo – e ovviamente assai controverso: ma stradocumentato – dal titolo esplicito e chiaro, “La Lobby israeliana e la politica estera americana” (John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, in italiano da Mondadori ed., 2009) – e in particolare le 32 pagine che, in dettaglio, dedica a dimostrare il ruolo enorme che l’ala sionista – quella che non solo è favorevole a uno Stato israeliano indipendente, ma lo concepisce solo come Stato ebraico: e basta – e i suoi alleati neo-cons hanno svolto nell’istigare a forza di menzogne e distorsioni George W. Bush, tutto il Congresso americano e larga parte dell’opinione pubblica a buttarsi a capofitto nella disastrosa guerra d’Iraq.

Quanti sono gli americani che oggi, quando con l’Iran lo scenario si ripete praticamente tal quale, se ne ricordano? Quanti sono cronisti, reporter e commentatori a indicare questo pericolo a chi li legge e li ascolta? Sono pochi, pochissimi. Questo, di una memoria storica seriamente corta e che ignora il passato, anche recente, è un problema serio perché significa che qui, facilmente, la storia può davvero ripetersi. In Germania che possa nascere un altro Hitler sembra a tutti francamente impossibile. Che in America possa nascere, sia nato già, un altro Bush, o chi nei rapporti internazionali nei fatti segue le orme di Bush pur partendo agli antipodi, è un rischio e forse è anche un fatto.

L’articolo di TIME tenta qua e là di ammorbidire il messaggio affermando che Obama “resta ancora scettico… sull’attacco militare”. Indica che si rende conto di come un’aggressione di questo stampo “unificherebbe il popolo iraniano tutto intero” come “unificherebbe larga parte del mondo, Russia e Cina comprese… contro un’America ri-cowboyzzata”. Potremmo, per conto nostro, aggiungere che, tanto per cominciare, Iraq, Afganistan e Libano esploderebbero in una frenesia scatenata di rabbia e di vendetta anti-americana… e anti-israeliana e anti-occidentale. E che le rotte petrolifere del Golfo Persico si trasformerebbero in un campo di battaglia.

Lo prevede ormai chiaramente proprio il Pentagono (Associated Press, Anne Gearan, 1.8.2010, Top US military officer says Pentagon has an Iran attack plan, but doesn't want to use it  — Il militare americano più alto in grado dice che il Pentagono ha un piano d’attacco, ma che non lo vuole usare: essendo, il desso, l’Ammiraglio Mike Mullen, capo dei capi di Stato maggiore).

Pentagono che, è necessario riconoscerlo, come sempre da quando nel 2004 se ne parlò la prima volta pubblicamente elevando la questione alla dignità di dibattito politico, sembra l’attore più restio a lasciarsi trascinare in questa logica di guerra preventiva: probabilmente perché lì, al contrario che fra i generali da scrivania, al Pentagono, c’è anche chi sa di che parla, quando parla di guerra.

Ora, anche se questa percezione di un presidente che resta “scettico” e ben cosciente se non altro dei rischi di una guerra preventiva all’Iran fosse vera – e realisticamente lo è – purtroppo Obama continua a giocare col fuoco quando lascia campo all’iperbole sui rapporti degli USA con questo paese. E allora perché?

Perché questa smania di tenere tutti sotto pressione – gli iraniani, gli americani e il mondo – proprio come ai tempi di Bush per l’Iraq? Forse – è la linea Mearsheimer-Walt: e qualcosa di valido in essa c’è – è che cerca di ammorbidire così la lobby per neutralizzarla, in qualche modo, di qui alle elezioni di medio termine del prossimo novembre. Perché, in sostanza, considerato il potere reale della lobby israeliana in America, la politica estera mediorientale degli Stati Uniti è ormai diventata un pezzo di politica interna.

Ma se è così, se Obama stesse sbandierando questa legnosa inflessibilità dell’America per queste ragioni interne, sarebbe una strategia sconclusionata. Perché è impossibile che egli non abbia inteso come la lobby israeliana lavorerà comunque contro di lui e contro ogni piattaforma democratica di qui a novembre, qualsiasi linea poi scelga sull’Iran. Tra l’altro se e quando si vedesse che, come si può sperare, non intende dar seguito effettivo ai suggerimenti e alle suggestioni belligeranti di Gates, il presidente finirebbe con l’esporsi all’accusa di mostrarsi debole con l’Iran. Il che potrebbe anche costargli caro, ormai tra meno di due anni, pure alle prossime presidenziali.

Molto, molto meglio sembrerebbe dire la verità agli americani. Che, certo, l’Iran è un paese dal regime sgradevole, con la sua strana e poco limpida teocrazia sui generis, che ricorre troppo spesso per i nostri gusti all’iperbole bellicosa, che certo non è un paese che rispetti tanto i diritti dell’uomo – e della donna, anzitutto – ma che, intanto, anche l’America è piena di peccati – e anche più gravi, più di massa – in materia di diritti umani e non solo in casa sua ma nel mondo (leggersi WikiLeaks e la documentazione “segreta” del Pentagono, uscita il 1° agosto, solo per dirne una).

Per gli Stati Uniti, l’Iran non costituisce una minaccia reale, credibile. E, a giudicare dalle armi che ha e dal concreto comportamento che tiene, per altri paesi – Israele compresa – è un’irritazione assai più che un pericolo vero.

Israele, invece, per l’America è un paese amico ma anche un cliente molto, molto “costoso” in termini di aiuti militari e civili. Miliardi di dollari all’anno da sempre per gli USA, a fondo perduto: molto più in proporzione che per qualsiasi altro paese amico nel mondo, considerevolmente più di 3 miliardi all’anno, da anni: sul tema la documentazione americana, in genere di accesso facile, chiara e abbondante, è straordinariamente complessa e confusa da reperire, con mille rimandi e rinvii complicati da una fonte all’altra che scoraggiano la ricerca, secondo la tecnica classica del seppellire lo studioso di documentazione ultra-abbondante per nascondergli una visione trasparente d’insieme e di dettaglio (qui, citiamo soltanto, come al di sopra di ogni sospetto per la fonte, certo datata (2002) – ma dopo, negli anni di Bush, le cose sono certamente andate nello stesso senso, anzi il trend s’è ancor più accentuato – una ricerca, l’ultima davvero come dicono loro comprehensive, cioé completa, svolta dal servizio ricerche dello stesso Congresso americano: Israeli-United States Relations, Adapted from a report by Clyde R. Mark, Congressional Research Service Updated October 17, 2002).

Israele è, poi, anche un paese teocratico quanto quello iraniano, anche se guidato da miscredenti a ventiquattro carati ma succubi per definizione degli ayatollah autoctoni (stava per passare una legge che dava al rabbinato più vetero-ortodosso il diritto a decidere esso chi fosse cittadino e chi no; e Netanyahu personalmente è riuscito a fermarla solo all’ultimo, ma rimandandola e non cancellandola, non perché convinto che fosse sbagliata, ma preoccupato che fosse intollerabile anche e proprio per Israele stessa: perché metteva direttamente le dita negli occhi alla lobby israelo-americana (New York Times, 23.7.2010, Ethan Bronner, Israel Puts Off Crisis Over Conversion Law — Israele rimanda la crisi sulla legislazione di conversione all’ebraismo).

Israele è poi un paese democratico, sì, ma a democrazia limitata, a modo tutto suo. C’è, infatti, palese anche per molti israeliani ed ebrei che mal lo sopportano, il problema drammatico ormai dei diritti negati, del rifiuto di una cittadinanza uguale e di uguali diritti umani per tanti suoi sudditi (qui, specificamente sul tema, alla lettura si raccomanda il libro dell’ex presidente americano Jimmy Carter: Peace Not Apartheid, Simon & Schuster ed., 2006: e per una larga citazione dei contenuti di quel libro che in italiano non è mai stato tradotto, in E&L, 15.2.2007, Angelo Gennari, Jimmy Carter: Cosa serve per la pace in Palestina).

Israele, ancora – è un’altra verità che all’America andrebbe detta – è un paese estremamente aggressivo nella sua concreta, e in genere poco rimarcata, condotta all’estero. E è un paese atomico, armato di bombe nucleari fino ai denti: circa 200 (dicono le stime maggiormente attendibili, americane: Federation of American Scientists, USAF War College, Maxwell Air Force Base, 9.1999, Lt. Col. Warner D. Farr, Israel’s Nuclear Weapons — Le armi nucleari di Israele) e minaccia, un giorno sì e l’altro pure, di essere pronta ad usarle anche preventivamente mentre, rifiutando per sé lacci e lacciuoli del Trattato di non proliferazione nucleare, denuncia chi, come l’Iran, ad esso aderisce e si sottopone alle ispezioni che prevede: anche se, è vero, come ogni altro paese sovrano, solo a quelle e non a quelle addizionali che altri desidererebbero.

Ora Israele chiede all’America di attaccare. O, almeno, di lasciarle attaccare preventivamente, con l’aiuto che le sarebbe necessario, l’Iran. Per prudenza. Per paura, vera o presunta. Per non pentirsi, poi… Ma è chiaro a chiunque che si tratta di uno sragionare dannatamente pericoloso.

Morton A. Klein, presidente della Zionist Organization of America, assicura (da ultimo sul Philadelphia Inquirer, 17.10.2010; e in un acceso dibattito su YouTube, del 6.7.2010, con Norman Finkelstein, un docente americano ebreo come lui ma, al contrario di lui, non sionista), pur guardandosi bene dal citare la fonte delle proprie certezze, che “un Iran nucleare fornirebbe di armi atomiche tutti i terrorismi” del mondo. Per evitarlo, il governo americano dovrebbe piegarsi a una serie di ricatti continui, di fatto proprio a un “ricatto nucleare permanente”.

E’ pura fantasia, non sostenuta da un barlume di prova. Anzi. Gli sciiti iraniani temono e, a dir poco, detestano i sunniti di al-Qaeda e anche i talebani e hanno anche dato una mano – apprezzata, efficace – nel 2002 ad abbatterne il regime in Afganistan cooperando perfino con l’amministrazione Bush nella sua “lotta contro il terrorismo”. E hanno i loro problemi col terrorismo in casa loro che, con qualche ragione, sospettano aiutato da Washington. Hanno, quindi, interesse a cooperare. Ma a Klein e alla sua coorte non interessano i fatti, solo le loro fobie, ossessioni e paranoie. Anche se è vero, certo, che pure i paranoici hanno qualche volta i loro nemici.   

L’allarme vero è che il meccanismo è identico a quello impiegato a suo tempo per far montare l’isteria contro l’Iraq: la demonizzazione. Una situazione pericolosa per un paese, un apparato sofisticato e insieme ingenuo di media e un’opinione, pubblica e politica, che – vale la pena di ripeterlo – hanno memoria cortissima della propria storia e perfino della cronaca recente. Hanno anche capito, ormai, di essere stati deliberatamente ingannati dieci anni fa. Ma adesso, ci ricascano.

Tale e quale che per l’Iraq. E Obama, che al contrario di Bush non è all’origine del meccanismo truffaldino – George il piccolo era convinto che, personalmente, Iddio onnipotente gli avesse ordinato di attaccare l’Iraq: attacco di cui lui era soltanto strumento (vedi il racconto, documentato, che ne fa lui stesso su Wikipedia) – però lascia fare. Meno stupido, meno ingenuo, meno suggestionabile del predecessore, lui sta lasciando montare, per ragioni di politica politicante soltanto, una nuova, terrificante, isteria collettiva.

Speriamo davvero che ci ripensi in tempo.

Venerdì, 17. Settembre 2010
 

SOCIAL

 

CONTATTI