L’imbroglio italiano sulla flexicurity

Nata in Olanda a poi sponsorizzata dalla Commissione Ue, dovrebbe unire la flessibilità del lavoro alla sicurezza per il lavoratore che sarà protetto in caso di disoccupazione. Da noi però si realizza solo la prima parte, tanto che probabilmente anche l’Unione avrà difficoltà ad accettare queste norme

Si è inclini a pensare che, quando una parola ha fortuna, vuol dire che se la merita. Ovviamente, non è sempre vero; e non lo è nel caso di flexicurity. Ideata in Olanda con il Flexibility and Security Act del 1999 e sdoganata nel 2006 dalla Commissione Europea per farne oggetto di un’insistita consultazione pubblica, la compendiosa formula verbale ha il dono della sintesi: sta per “modernizzazione del diritto del lavoro”. Essa riassume un programma di politica del diritto che – per quanto criticato e ammorbidito dal Parlamento europeo con una Risoluzione adottata nel novembre del 2007– si basa su uno scambio di stile neo-liberista dove la riduzione delle tutele del lavoro, che si reputa inevitabile “per rispondere alle sfide del XXI secolo”, viene bilanciata da misure miranti a rafforzare la posizione del lavoratore “fuori” del rapporto di lavoro. Insomma, più flessibilità, più precarietà, più facilità di licenziare in cambio di più formazione professionale, più assistenza nella ricerca di un’occupazione, più sostegno del reddito nei periodi di non-lavoro. Come dire: tra de-regolazione del lavoro e garantismo nelle forme via via raggiunte nella seconda metà del ‘900 tertium datur. Per brevità hanno chiamato la novità flexecurity. La quale sarebbe virtuosa perché introduce un regime normativo dove il lavoratore rinuncia a buona parte delle sue tradizionali garanzie nel rapporto, ma acquista le tutele nel mercato del lavoro di cui, come cittadino, è attualmente sprovvisto. 

 

Bisogna riconoscere che la flexicurity, pur componendosi di termini in litigio tra loro, di per sé non rimanda ad una prospettiva demenziale. Anzi, gli inventori della fortunata espressione linguistica rivelavano di possedere lucida la consapevolezza della biunivoca relazione esistente tra lavoro e cittadinanza, la cui dinamica mette frequentemente a rischio diritti che, come diceva Massimo D’Antona, non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che dal lavoro si aspetta reddito, sicurezza e, se un dio lo assiste, auto-stima e considerazione sociale.

 

Tuttavia, la mezza verità nascosta nella matrice ideologico-culturale delle politiche regolative più care all’Ue è che i programmi di flexicurity sono un anestetico. Servono cioè ad attenuare i danni sociali prodotti dal ritorno ad epoche in cui il principio dell’eguaglianza formale tra le parti dominava incontrastato il diritto del contratto di lavoro, in conformità ai postulati dell’ideologia liberale. C’è da chiedersi, pertanto, perché una parte della sinistra italiana sia stata sedotta da una simile prospettiva, fingendo di non sapere che lo stato di soggezione in cui si trova chi non è dominus dell’attività svolta né del suo destino determina la necessità di “rimuovere”, per usare l’impegnativo lessico dei nostri padri costituenti, “gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Ostacoli che, per esemplificare, la stessa Corte costituzionale identificò, molto tempo fa, nella situazione di debolezza derivante dalla sotto-protezione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del rapporto e la persuase a formulare la regola della non-decorrenza della prescrizione dei diritti economici durante il rapporto. Ostacoli che, adesso, sarebbe corretto identificare anche nel diffondersi di contratti di lavoro non-standard che suscitano un disagio non meno opprimente della paura che, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, suscitava la licenza di licenziare.

 

Per questo, l’ossimoro comunitario annuncia l’avvento di un ordine sociale in cui quel poco o quel tanto di grammatica dell’eguaglianza sostanziale che il ‘900 ha fatto entrare nell’assetto normativo del rapporto di lavoro subordinato è un lusso che l’Europa del XXI secolo non può concedersi se non in misura decrescente.  Il più convinto di ciò si è finora mostrato il nostro governo che, con l’irenica consapevolezza di non avere fatto nulla in questi anni per erigere gli argini teorizzati dagli euro- burocrati di Bruxelles e dintorni, il 12 agosto ha deliberato un decreto che promette tanta flessibilità e “zero” sicurezza. Meglio, quel poco di sicurezza che è ottenibile negoziando azienda per azienda.

 

Muovendo da questo punto di vista si può anche dire che abbiamo un governo più realista del re. Difatti, proprio perché incassava più dissensi che consensi negli ambienti sindacali e nel ceto professionale degli operatori giuridici, la flexicurity comunitaria non ha mai avuto la valenza di un diktat comunitario. E’ una proposta, una raccomandazione, un’esortazione che la Commissione Europea ha rivolto ai governi dei paesi membri dell’Ue rimettendosi – quanto ai tempi e alle modalità della regressione del più euro-centrico dei diritti in omaggio ai postulati del neo-liberismo – al loro prudente arbitrio. Alla loro affidabilità. Al loro senso di responsabilità.

 

Ecco perché non è ragionevole dare per scontato che gli organismi dell’Ue finiranno per approvare incondizionatamente la decisione governativa di  generalizzare l’arretramento delle tutele senza alcun vantaggio per i lavoratori – tranne quella di tenersi o trovare un lavoro, un lavoro purchessia. Certamente, un orientamento del genere non potrà essere condiviso dall’Europarlamento, che – da garante, se non del modello sociale europeo, della civiltà giuridica del lavoro realizzata in Europa – si è pronunciato in termini critici già nel 2007 sulla flexecurity. Ma nemmeno è credibile che lo condividerà la Commissione Europea che ne ha la sponsorship: se non vincendo il forte imbarazzo di dovere spiegare che il dibattito giuridico-politico sulla flexicurity era fumo negli occhi o mera propaganda e che l’Europa non è che un pezzo del mercato globalizzato e dunque non è più Europa.

 

Per questo, ci deve pur essere qualcuno che sappia fare suo e riproporre il monito pronunciato da uno statista francese contemporaneo con accenti all’altezza della tradizione oratoria del suo paese: “La justification de l’Europe c’est sa différence”. Una differenza creata dai legislatori novecenteschi del centro-sud e del nord dell’Europa. I quali – indipendentemente dalla concezione del mondo cui aderivano – erano animati da una tensione riformatrice che li portava a denunciare gli squilibri che fanno del rapporto di lavoro un rapporto tra diseguali ed a cercare di correggerli.

 

L’uso della memoria storica da parte dei legislatori d’oggi non sarà certamente condannabile, se se ne serviranno per mantenersi all’altezza di un passato come questo.

Giovedì, 8. Settembre 2011
 

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