L’Europa non cresce. E se fosse un bene?

Le analisi del fenomeno sono quasi sempre viziate da interessi di parte. Ma soprattutto non si vede perché l’Europa, per reggere nella competizione globale, debba rinunciare alle sue conquiste di civiltà

Perché l’Europa cresce poco? Si sarebbe portati a credere che, giunti al 21° secolo, la scienza economica e l’econometria abbiano raggiunto livelli di sviluppo tali da poter fornire a questa domanda una risposta chiara, argomentata, esaustiva. E invece non è così.
Di risposte a quella domanda ne vengono date molte, ma a ben vedere sono quasi sempre e quasi tutte di parte; ci sono molti interessi che possono trarre vantaggio da una strumentalizzazione delle diverse interpretazioni che della stagnazione dell’economia europea possono essere date: basta favorire la diffusione di quella che imputa la stagnazione a una controparte economica o politica perché automaticamente ne possa discendere un orientamento favorevole ai propri interessi.

E così le organizzazioni degli imprenditori sosterranno che la crescita riprenderà se l’impiego della manodopera diventerà più flessibile; i liberisti invocheranno per lo stesso scopo deregolamentazioni più coraggiose; le organizzazioni sindacali imputeranno la bassa crescita a carenza di investimenti; i commercianti tenderanno a una ripresa dei consumi per cui chiederanno riduzioni del prelievo fiscale e incentivi; le forze politiche di sinistra auspicheranno un ruolo pubblico più incisivo a sostegno della crescita, mentre quelle di destra ci diranno che la crescita riprenderà quanto più il settore pubblico si asterrà dalla pretesa di voler indirizzare l’andamento dell’economia.

Che poi l’interpretazione che si è voluto affermare sia anche quella che prelude alle politiche realmente utili per promuovere la crescita è cosa che, eventualmente, si vedrà dopo. Nessuna delle analisi formulate e delle interpretazioni proposte, però, regge alla verifica della storia recente.

Negli anni ’80, ad esempio, l’economia europea cresceva a ritmo spedito, comunque più spedito di quello che registrava l’economia americana, malgrado fosse molto più “ingessata”, chiusa, rigida e pubblicizzata di ora. Non solo, ma i passi compiuti sulla via del liberismo e della deregolamentazione negli ultimi anni non hanno prodotto alcuno dei risultati che promettevano. Certo, si può sempre sostenere che se non fossero stati compiuti le cose sarebbero andate anche peggio; fatto sta, però, che non si è visto alcun effetto positivo che con certezza possa essere loro attribuito. Insomma, è facile concludere che la scienza economica non ha risposte convincenti da dare a quella domanda.

Di conseguenza, molti si danno a rovistare aldilà dell’economia, alla ricerca di una risposta entro un orizzonte più ampio, anche se allargando il campo si finisce inevitabilmente per accrescere la controvertibilità delle diverse ipotesi.

Un esempio emblematico è quello di Tommaso Padoa-Schioppa, persona di riconosciute competenza ed esperienza, il quale, in uno dei suoi interventi su “Il Corriere della Sera”, ha ipotizzato che una spiegazione della bassa crescita possa risiedere soprattutto nel dato demografico di una Europa che invecchia e che, di conseguenza, tende a vivere più di ricordi che di progetti, inclinando più a conservare che a innovare non solo nelle attività produttive, ma anche nella politica, nelle arti, nell’accademia, nella ricerca. Una tesi di cupo pessimismo che non so quanti si sentiranno di condividere.
Una tesi, comunque, non strumentale, diciamo pure intellettualmente onesta e per questo emblematica di una analisi non viziata da intenti reconditi, ma che riflette probabilmente la cultura e il ruolo del suo autore, i quali non possono ammettere di tirar dentro nella discussione su questi temi quel prodotto complesso di liberalizzazioni e di progressi tecnologici che va sotto il nome di globalizzazione come il fattore di primaria rilevanza, forse il principale in assoluto, attorno al quale ruotano le cause della scarsa crescita dell’economia europea.

E invece, se accettiamo il metodo di ricercare le ragioni della bassa crescita entro un orizzonte più ampio di quello della scienza economica, troviamo proprio la globalizzazione come evento saliente e sistemico che segna il tempo nel quale il ritmo di crescita dell’economia europea ha cominciato a spegnersi progressivamente fino alla sostanziale stagnazione di questi anni.

C’è una ortodossia intellettuale che vieta di attribuire effetti negativi ai processi di globalizzazione, ma forse questo è un motivo a causa del quale la domanda che abbiamo posto all’inizio rimane senza una risposta convincente. Non si può certo escludere che altri fattori possano aver agito, a cominciare proprio dalla evoluzione demografica come vedremo meglio appresso. Rimane, però, il fatto che la globalizzazione è il fenomeno più definito e pervasivo che troviamo in corrispondenza del rallentamento della crescita in Europa.

È ben vero che i processi di globalizzazione non sono esclusivi degli ultimi due decenni essendo cominciati, almeno in forme rilevanti per l’evoluzione dei sistemi economici e per le condizioni di vita di quote significative delle popolazioni, nel 16° e nel 17° secolo quando gli oceani cominciarono a essere solcati con regolarità da vascelli commerciali.

Certo è, però, che negli ultimi due decenni questi processi hanno ricevuto un impulso inusitato in quanto gli indirizzi politici liberisti – quelli impressi da Reagan e dalla Thatcher che poi si sono diffusi a tutto il mondo evoluto – hanno trovato una sinergica complementarità nel progresso tecnologico in genere e, più in particolare, nella diffusione della telematica e nell’abbattimento del costo dei trasporti.

Negli ultimi due decenni, pertanto, beni e servizi prodotti in Europa sono stati aggrediti in misura massiccia, come mai era avvenuto o sarebbe potuto avvenire in precedenza, dalla concorrenza dei paesi emergenti i quali, grazie alla circolazione dell’istruzione e delle informazioni, hanno acquisito la capacità di produrre quasi tutto quanto viene prodotto nei paesi di più precoce industrializzazione, ma a costi fortemente inferiori. Quando ci si riferisce ai costi si pensa essenzialmente al costo del lavoro, ma non solo di questo si tratta.

Nei paesi cosiddetti emergenti sono inferiori i costi di insediamento (terreno ed edilizia), i costi della imposizione fiscale, e quelli della previdenza, della prevenzione degli infortuni e della tutela sanitaria, della salvaguardia ambientale, e ancora i costi sociali come quelli delle mense e degli asili nido, e quelli della risoluzione dei contratti. Solitamente si pone scarsa attenzione al fatto che questi sono i costi economici di quello che in Europa è considerato il progresso civile, spesso conquistato con impegnative ed anche drammatiche battaglie sociali e politiche; un progresso maturato fin dal medio evo a carico di costi diretti o indiretti della produzione di beni e servizi che proprio per questo motivo sono strutturalmente più elevati che in qualsiasi altra parte del mondo.

Per altro, che il benessere, la serenità sociale, le tutele contro la perdita del lavoro, l’assistenza sanitaria e le pensioni di vecchiaia, le norme antinfortunistiche e quelle per la difesa dell’ambiente abbiano un costo è cosa lapalissiana; si può discutere su chi debba sostenerlo, ma che abbiano un costo è fuori discussione come è fuori discussione che debbano finire per gravare sul reddito disponibile, e dunque sul reddito delle imprese, o su quelli dei lavoratori, o più in generale sulla fiscalità. Ne discende che le attività produttive saranno gravate da più alti costi sia per il lavoro sia per altri oneri sociali ed ambientali, e che la fiscalità sarà mediamente più pesante. Per altro, quelle tutele, la difesa dell’ambiente, l’equità distributiva, la serenità sociale sono tutte componenti del livello di benessere del quale ciascuno di noi gode non meno essenziali del reddito monetario che traiamo direttamente dal nostro lavoro o dal nostro patrimonio.

Che queste conquiste di civiltà abbiano un costo, dunque, dovrebbe essere cosa assodata, acquisita, addirittura scontata. Ciò nondimeno è alla compressione di questi costi che per lo più si guarda come via facile alla capacità di tener testa alla concorrenza dei paesi emergenti. E qui sta la discriminante tra le diverse strategie attraverso le quali far fronte agli effetti della globalizzazione intesa come causa di rallentamento della crescita dell’Europa.

La tesi prevalente è che, se la concorrenza dei paesi emergenti si fa forte di costi più bassi, per fronteggiarla occorre ridurre i costi. Per costo si è inteso innanzitutto quello del lavoro, che si è ridotto in quanto le retribuzioni sono cresciute meno della produttività. Poiché questo non poteva ovviamente bastare, ora per riduzione del costo si intende soprattutto un aumento della efficienza nell’impiego del fattore lavoro: non tanto una riduzione del suo costo diretto, dunque, quanto una maggiore flessibilità nel suo impiego, vale a dire in buona sostanza una maggiore libertà per l’imprenditore di impiegare di tempo in tempo la quantità di manodopera che ritiene più conveniente (in definitiva, si tratta di ottenere un ulteriore incremento della produttività del fattore lavoro nel processo produttivo).

Poiché alla richiesta di maggiore flessibilità si affianca quella di una riduzione della pressione fiscale, per ottenere la quale i governi hanno poche alternative alla riduzione delle prestazioni sociali, non è difficile concludere che questa tesi vede la possibilità di affrontare la concorrenza dei paesi emergenti abbassando al loro livello il reddito distribuito attraverso la remunerazione dell’unità del lavoro, riducendo nello stesso tempo il grado di protezione sociale, sia quello diretto a carico delle imprese, sia quello indiretto a carico della fiscalità in modo da poterla ridurre.

In buona sostanza, si sostiene così un arretramento dalle condizioni di vita che il progresso ha finora prodotto per le popolazioni d’Europa. Ipotizzare allo stesso fine una riduzione delle retribuzioni farebbe effetto e apparirebbe una misura antistorica, ma la riduzione delle tutele sociali, tradotta in termini economici, non è cosa tanto diversa. Ed è singolare che i sostenitori di queste ed altre simili tesi non si facciano scrupolo della contraddizione nella quale cadono quando nello stesso tempo sostengono, come sostengono, che la globalizzazione è un processo nel quale tutti hanno da guadagnare.

La tesi avversa sostiene la possibilità per l’Europa di accrescere le proprie capacità competitive innalzando il livello di qualità e di innovazione della propria produzione fuori della portata dei paesi emergenti. La possibilità di mantenere i livelli di benessere e di protezione sociale è individuata, in questo caso, nella produzione di un maggiore valore aggiunto che può essere ottenuto mettendo a frutto i valori propri della civiltà europea: non si tratta solo della cultura, del design, del gusto, ma anche della ricerca più avanzata e delle sue applicazioni industriali, della valorizzazione di una esperienza di industrializzazione e di organizzazione della produzione che nessun’altra parte del mondo può vantare.

Facile a dirsi, obietterà qualcuno. E a ragione, perché l’Europa questa strada sembra proprio non riuscire ad imboccarla. L’unione monetaria ha comportato un irrigidimento delle finanze pubbliche che i governi, per non perdere consenso, hanno tradotto per lo più in una forte riduzione del finanziamento degli investimenti, della ricerca, in alcuni paesi persino dell’istruzione e della formazione professionale. Per altro, l’unione non ha ancora prodotto quel processo di integrazione industriale da molti previsto, sicché le imprese europee continuano ad essere mediamente piccole, senza la capacità e le spalle patrimoniali per poter sostenere grandi investimenti e programmi di innovazione a lungo termine.

E così si genera il paradosso di un’Europa che ha una grande capacità di produrre risparmio, ma invece di impiegarlo per rafforzare il proprio sistema produttivo investendolo in infrastrutture e ricerca, ne impiega una parte consistente negli Stati Uniti, quasi delegasse a quel paese il ruolo di tradurre ricchezza finanziaria in ricchezza reale.

Si può ritenere, certo, che questa delega agli Stati Uniti esprima una tendenza a rifuggire il rischio imprenditoriale implicito nell’invecchiamento della sua popolazione, ma l’ipotesi appare fragile. Anche se l’età media aumenta, infatti, non mancano in Europa le giovani generazioni che, tra l’altro, dimostrano qualità non meno apprezzabili di quelle delle generazioni passate. E poi: può essere considerata una popolazione che rifugge il rischio quella che non disdegna affatto di impiegare una parte cospicua della propria ricchezza finanziaria in azioni americane, comprese quelle particolarmente volatili quotate al Nasdaq?

L’irrigidimento della finanza pubblica imposto dal processo di integrazione monetaria potrà essere superato solo quando saranno maturi i tempi perché venga istituita una autorità politica integrata legittimata ad assumersi la responsabilità di gestire il bene dell’Europa anche trasferendo ricchezza, se e quando serva, da un paese all’altro così come avviene normalmente tra le diverse regioni di uno stesso paese. Non è, dunque, cosa di un futuro prossimo.

E non lo è neppure una imprenditoria più dinamica e più propensa a investire in iniziative in grado di produrre un valore aggiunto sufficientemente elevato per poter “finanziare” la preservazione dei progressi civili e sociali, oltre che materiali, che le popolazioni europee hanno realizzato.

La conseguenza è che l’Europa soffre l’aggressione competitiva dei paesi emergenti, la subisce e in definitiva l’accetta, rinunciando a contrastarla se l’unico modo che le viene proposto per farlo è un arretramento dal livello di benessere e di tutele raggiunto.

Accettarla significa rinunciare a crescere quanto potrebbe, ossia rinunciare a una parte di quella che gli economisti chiamano crescita potenziale. Secondo la scala di valori fatta propria dalla maggior parte dei mezzi di informazione, questa accettazione è considerata eticamente riprovevole, incomprensibile, quasi scandalosa.

Ma se si esce dall’ordine logico che colloca in cima a quella scala di valori la crescita del Pil, e quindi la capacità delle imprese di competere, allora la rinuncia ad una quota della crescita potenziale risulta normale, quasi ovvia, comunque coerente con l’aspirazione a vivere il meglio possibile, che è cosa diversa dal guadagnare il massimo possibile.

Nessuno, quale che sia la sua condizione economica, utilizza tutte le sue possibilità di guadagno. Lavora, s’ingegna, s’impegna, ma c’è un limite oltre il quale il guadagno aggiuntivo non compensa la fatica aggiuntiva necessaria per conseguirlo. È normale che sia così perché la vita è fatta anche di riposo, di svago, di spiritualità, comunque di attività che non producono un utile materiale. Ma se questo vale per ogni persona, perché non dovrebbe valere per il loro insieme? Perché non dovrebbe valere per le comunità nazionali? E perché non per l’intera Europa?

Il confronto da fare, e al quale ancorare il ragionamento, è tra la produzione di ricchezza aggiuntiva che si ottiene (se e quando si ottiene) come beneficio della precarizzazione e dell’incertezza sul futuro, e la serenità che deriva da un maggior grado di certezze dato, appunto, da un temperamento della tensione verso la massima crescita possibile.

Nessuno ha mai dimostrato che un più elevato ritmo di crescita vale l’incertezza e la precarietà del livello di benessere e di qualità della vita che occorre per realizzarlo; nessuno ha dimostrato che la maggiore probabilità di trovare occupazione quando l’occupazione stessa è precaria e flessibile vale la rinuncia alla rete di tutele contro la disoccupazione; e ancora, nessuno ha mai dimostrato che la maggiore crescita ottenuta con la flessibilità e la precarizzazione si traduce in un aumento del livello di benessere distribuito e diffuso.

Nessuno ha mai dimostrato, in buona sostanza, che si vive meglio negli Stati Uniti piuttosto che in Europa a motivo del fatto che aldilà dell’Atlantico il Pil pro capite è più elevato e cresce a ritmi sensibilmente più sostenuti.

Per altro, non ci sarebbe da stupirsi se la tensione alla crescita fosse, come in effetti sembra, inversamente proporzionale al livello di benessere raggiunto. Se si considera normale che un giovane che deve ancora conquistare una posizione sociale e formarsi una famiglia si impegni e si sobbarchi una mole di lavoro e sacrifici maggiore di quella che è disposta ad affrontare una persona matura che abbia già raggiunto un proprio status sociale e un soddisfacente livello di agiatezza, perché dovrebbe stupire che paesi maturi come quelli dell’Europa occidentale, che hanno raggiunto buoni livelli di ricchezza e di equilibrio sociale, si impegnino più sulla qualità e sulla distribuzione del reddito piuttosto che in un suo ulteriore aumento?

Se si considera la mera quantità, i paesi dell’Europa occidentale, l’Italia in particolare, lasciano alcune produzioni della ricchezza, soprattutto quelle agricole e quelle manifatturiere a basa tecnologia, a paesi di cultura simile, ma ad uno stadio di sviluppo economico e civile meno avanzato: le migliaia di fabbriche che imprese italiane hanno aperto nell’est dell’Europa sono un esempio di fonti di reddito trasferite a beneficio di altri paesi perché la qualità di quel reddito è da noi rifiutata. C’è chi per questo si scandalizza trovando irragionevole che venga rifiutato lavoro quando c’è una disoccupazione ancora elevata e che quel lavoro venga conseguentemente esportato in altri paesi.

E tuttavia in questi comportamenti non manca una logica, che emerge se si considera che nascere ed essere cittadino di un paese dell’Europa occidentale non è come nascere ed essere cittadino di un paese dell’Europa orientale o del sud dell’Asia: sono diverse la norma di vita, quella del lavoro e della sua retribuzione, quella della tutela sociale, quella della protezione sanitaria, tutti i paradigmi di status e di benessere.
Per intenderci, è come l’Italia di cinquanta, di cento, di centocinquant’anni fa; nelle varie epoche passate erano accettabili ed accettate condizioni che oggi non lo sono più: c’è da stupirsi per questo? O addirittura da scandalizzarsi?

Costi di produzione più bassi derivano dunque dai diversi stadi dello sviluppo economico e civile, e anche, e forse soprattutto, da condizioni storiche generate da fattori antropologici e ambientali (a cominciare dal fatto che per sfamare una persona nel sud dell’Asia basta un quinto della terra che serve in Europa), sono quindi espressione di condizioni relative che non ha senso considerare assolute come alcuni pretendono azzerando, nel nome di una economia globalizzata, storie, tradizioni, culture, valori.

C’è un pensiero dominante del quale sono permeati la politica, i mezzi di informazione, quel modo un po’ inerziale di vedere le cose secondo schemi logici già tracciati e dai quali allontanarsi può essere difficile e impegnativo. È la visione delle cose che pone crescita e occupazione al vertice delle priorità, senza distinzioni qualitative, senza alcuna condizione, come valori assoluti e indiscussi. Ma questo pensiero, ancorché dominante, urta sempre più palesemente contro il comune sentire, contro il reale atteggiamento delle popolazioni europee che nei fatti, nei comportamenti e persino nella scelta delle rappresentanze politiche non sembra affatto porre quei valori al vertice delle sue priorità.

E allora, se provassimo a interpretare i sentimenti della gente, a considerare più l’aspirazione alla serenità che quella alla ricchezza, se ci riferissimo ad una scala di valori in cima alla quale sta la condizione della gente e non quella delle imprese, forse troveremmo le ragioni della lenta crescita dell’economia europea senza dover chiamare in causa l’invecchiamento della popolazione e, peggio, l’affievolimento della sua vitalità. Per contro, troveremmo opinabile, e per molti versi anche un po’ angosciante, se popolazioni dalla storia e dalla cultura millenarie, già arrivate al vertice del benessere materiale, continuassero ad affannarsi senza altro scopo che produrre e guadagnare ancora di più.

E troveremmo disperante se avessero ragione quanti sostengono che per tener testa al confronto competitivo globale l’Europa non ha altra possibilità che rinunciare a una parte almeno non solo del suo benessere, ma soprattutto delle sue conquiste di civiltà e di solidale umanitarismo.

Mercoledì, 8. Ottobre 2003
 

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