Johannesburg: se Europa e Usa dessero meno soldi (a sé stessi

Per aiutare davvero i paesi poveri basterebbe smettere di sussidiare le agricolture dei ricchi

Difficile non convenire con quanti hanno giudicato deludente il secondo vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, che si è svolto a Johannesburg. Infatti, il cosiddetto piano d’azione (un lungo documento di 65 pagine suddivise in 152 punti) contiene una serie di obiettivi, senza però il supporto di impegni concreti e, tanto meno, di un calendario per la loro attuazione.


Così gli oltre cento capi di Stato e di governo presenti si sono genericamente impegnati a promuovere le energie rinnovabili, ma la proposta dell’Unione Europea, di fissare per il 2010 il raggiungimento di una percentuale del 15 per cento rispetto al consumo energetico totale, si è scontrata con l’opposizione degli Stati Uniti e dei paesi Opec. E’ stato inoltre formulato il proposito di dimezzare entro il 2015 il numero delle persone che non hanno accesso all’acqua potabile, ma senza alcun piano concreto e temporalmente scadenzato. Anche la confermata intenzione dei paesi ricchi di dedicare lo 0,7 per cento del loro prodotto interno lordo agli aiuti per lo sviluppo non ha suscitato particolari brividi di entusiasmo, trattandosi di una obbligazione già assunta diverse volte negli ultimi dieci anni senza significativi effetti pratici. Oltre tutto, tenuto conto della congiuntura economica non particolarmente brillante, è lecito dubitare che il comportamento dei paesi ricchi possa cambiare in meglio nel prossimo futuro.

In generale il summit è apparso condizionato dalle divisioni, dall’incapacità di trovare punti concreti di convergenza e, soprattutto, dal rifiuto degli Stati Uniti di assumere impegni precisi in un quadro d’azione internazionale. Da registrare, infine, che per protesta le principali organizzazioni non governative hanno abbandonato il vertice prima della sua conclusione.

Di fronte a questo esito gran parte dei commentatori hanno giudicato il vertice un clamoroso fiasco. Il giudizio drastico si spiega probabilmente anche con la sottovalutazione della complessità delle conferenze internazionali. Che però, proprio per questo, alcuni giudicano ormai degli inutili happening, dei mega baracconi inconcludenti.

Il fatto è che, come capita spesso anche a noi comuni mortali, i rappresentanti dei governi e delle istituzioni internazionali usano più energie a parlare dei problemi di quante non siano disponibili ad impiegarne per risolverli. Poiché però il destino della terra e dei suoi abitanti dipende dalla capacità di adottare precauzioni condivise e comportamenti coerenti si dovrà cercare (e possibilmente trovare) un modo più efficace per formare ed assumere le decisioni a livello mondiale.

Nel frattempo si dovrebbe almeno prendere coscienza della necessità di affrontare un punto decisivo. I discorsi pronunciati a Johannesburg dai rappresentanti della parte ricca del mondo sono stati (senza alcuna eccezione) fondamentalmente ipocriti. Se infatti i paesi ricchi volessero veramente sostenere quelli poveri nell’imboccare la strada di uno sviluppo sostenibile dovrebbero fare una cosa essenziale: eliminare progressivamente le sovvenzioni che destinano alla propria agricoltura.

Già alcuni anni fa il presidente del Kenya Arap Moi, in un discorso pronunciato davanti al Parlamento Europeo, aveva detto brutalmente che la retorica terzomondista non è di alcun aiuto per i paesi poveri. Se perciò i paesi ricchi, a cominciare dall’Europa, volessero davvero dare una mano a quelli poveri, per incominciare, dovrebbero smettere di sovvenzionare la propria agricoltura.

Però il peso (considerato elettoralmente minaccioso) delle corporazioni agricole non consentì di prendere sul serio quella richiesta, che non ebbe quindi alcun seguito concreto.

Il Sud è tornato a porre (inutilmente) la medesima questione a Johannesburg. Il Nord l’ha, come al solito, sbrigativamente accantonata. Non è del resto un caso che, mentre si elargiscono ai poveri stucchevoli prediche sulle virtù taumaturgiche del libero mercato, l’America di Bush abbia votato una “farm bill” che aumenta ulteriormente la montagna di sovvenzioni che gli Stati Uniti concedono ai loro agricoltori. A sua volta l’Unione Europea continua imperterrita a destinare la metà del suo bilancio a sovvenzionare la propria agricoltura.

Le cifre in ballo sono impressionanti. Infatti l’ammontare complessivo delle sovvenzioni agricole europee ed americane raggiunge ogni anno i 350 miliardi di dollari. Cioè una somma sette volte superiore all’aiuto pubblico stanziato dal Nord del mondo per la soluzione dei più gravi e drammatici problemi del Sud. Per altro, la cosa assurda è che l’ammontare delle sovvenzioni aumenta con il diminuire degli addetti all’agricoltura nei paesi sviluppati.

La “legge di Parkinson”, che spiega la proliferazione degli apparati burocratici indipendentemente dai compiti che devono svolgere, trova una sua perversa applicazione anche in questo caso. Infatti, così come il Ministero delle Colonie inglesi aumentava i propri dipendenti man mano che l’Inghilterra perdeva le sue colonie, allo stesso modo gli aiuti all’agricoltura nei paesi ricchi crescono con il diminuire degli agricoltori.

Purtroppo non c’è solo questo paradosso. Il sistema attuale è infatti diabolicamente perverso. La manna delle sovvenzioni incoraggia infatti la produzione di surplus, che viene svenduta sui mercati mondiali e, soprattutto, nel cosiddetto terzo mondo. La conseguenza è ovvia. I coltivatori dell’Africa e di una parte dell’Asia non possono competere con queste esportazioni agricole provenienti dai paesi del Nord e vendute sotto prezzo, grazie alle sovvenzioni.

Così la carne che arriva dall’Unione Europea, in particolare sui mercati dell’Africa Occidentale, ha ridotto in miseria la maggior parte degli allevatori locali. A sua volta il cotone americano sussidiato, prodotto ad un costo triplo di quello africano, determina gli stessi effetti.

Costretti a subire sui loro mercati interni la concorrenza di produzioni vendute a basso prezzo, perché sovvenzionate, gli agricoltori del Sud, neanche volendo, potrebbero fare altrettanto sui mercati del Nord. Sia per la banale ragione che non possono godere delle stesse sovvenzioni, ma soprattutto perché i paesi ricchi hanno accuratamente chiuso le porte ai prodotti agricoli del terzo mondo. La conseguenza ovvia è che il Nord si riprende, con la mano delle sovvenzioni agricole, molto di più di ciò che dà con quella degli aiuti allo sviluppo.

C’è da aggiungere, infine, che questo “protezionismo verde”, del tutto in contraddizione con la pedagogia liberista che pretendiamo di imporre agli altri, genera anche guasti ambientali. Il produttivismo agricolo, incoraggiato dai sussidi, alimenta infatti l’uso sconsiderato di concimi chimici e di pesticidi che aumentano l’inquinamento. Il risultato non particolarmente sorprendente è che mentre da un lato viene deplorevolmente danneggiata l’agricoltura dei paesi poveri, dall’altro il contribuente europeo è costretto a pagare due volte. Una prima volta per sovvenzionare i propri agricoltori, ed una seconda volta per rimediare in qualche modo ai danni ecologici che essi producono.

Stando così le cose, e fino a quando non si riuscirà a interrompere questa spirale, è piuttosto improbabile che i vertici mondiali sullo sviluppo compatibile possono diventare qualcosa di diverso da inutili tornei oratori. Che è appunto, più o meno, ciò che si è verificato a Johannesburg.

Lunedì, 16. Settembre 2002
 

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