Israele, una democrazia che si difende

Un lettore interviene a proposito dell'articolo di Antonio Lettieri, che risponde in calce
Il buon diritto d'Israele e lo strabismo della sinistra italiana
 
La fiammata di guerra in Libano ha sollevato un’accesa discussione sul diritto a difendersi da parte d’Israele.
La situazione dovrebbe essere chiara. Israele è un’isola di democrazia, per molti aspetti un frammento d’Occidente, circondata da stati teocratici o dittatoriali, molti dei quali non ne tollerano la semplice presenza sulla carta geografica. Negli ultimi anni le truppe ebraiche si sono ritirate dal sud del Libano e dalla striscia di Gaza, un chiaro segno di pace. Ma queste terre, dopo il ritiro, sono state utilizzate da Hezbollah e Hamas come base di lancio dei missili sulle città israeliane. Ad un atto di distensione si è risposto con atti di guerra. Era inevitabile che il governo di Gerusalemme, appoggiato dal Parlamento e dall’opinione pubblica, avviasse questa campagna militare per allontanare gli Hezbollah a distanza di sicurezza dalla linea di confine.  Qualsiasi Stato sovrano si sarebbe comportato nello stesso modo. Alcuni obiettano che il Libano ha una sua sovranità e che quella d’Israele è un’invasione. Se rimaniamo su di un piano più che giuridico-formale, formalistico, è vero, le cose stanno così.
Ma allora bisognerebbe chiedere al governo libanese perché ha permesso a delle bande di terroristi di usare il proprio territorio come base operativa per attaccare un altro Stato, pur non essendoci stato di guerra. Sarebbe vano attendere una risposta: del governo libanese fanno parte alcuni ministri di Hezbollah e l’esercito regolare non sarebbe comunque in grado di disarmare i miliziani fondamentalisti.
In Libano come nei Territori dell’ANP i governi in carica - si dice - sono frutto di elezioni democratiche, ma quei popoli hanno utilizzato gli strumenti della democrazia per dare il potere ai nemici della democrazia, ai fanatici sostenitori dell’ideologia islamista.
Abbiamo la riprova che non è sufficiente esportare le procedure, le regole, per costruire la democrazia, è necessario invece esportare le idee, i valori che fondano e fanno vivere la democrazia: i diritti universali dell’uomo, la tolleranza, la separazione tra Stato e religione, la solidarietà sociale.
La sinistra italiana, nel valutare lo scenario medio-orientale, è rimasta legata, per forza d’inerzia, allo schema di quarant’anni fa: gli arabi oppressi che lottavano come potevano, anche con il terrorismo, contro l’intruso sionista, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli Stati Uniti. Era una visione delle cose funzionale agli equilibri internazionali di allora ed in linea con la politica dell’Unione Sovietica, protettrice dal campo arabo, che trovava risonanze negli ambienti cattolici, come dimostrano le ultime dichiarazioni di Giulio Andreotti.
Già allora alla sinistra italiana sfuggiva il valore dell’esistenza della democrazia israeliana ed il contributo decisivo che ad essa avevano dato i socialisti. In Israele, dopo l’Olocausto, emigrarono i superstiti del “Bund”, la lega socialista ebraica, diffusa nei paesi dell’Europa orientale (Russia, Polonia, Ucraina, Lituania), ma anche ex militanti delle socialdemocrazie centro-europee. Il nuovo Stato nacque su di una dichiarata radice etnico-religiosa, ma la sua costituzione era ispirata a valori liberali e socialisti. Molti giovani italiani hanno fatto l’esperienza di un soggiorno nei “kibbutz”, fattorie in cui si mettono in comune proprietà e lavoro, in cui l’ideale socialista è diventato pratica di vita quotidiana.
Quando Massimo D’Alema – e molti con lui – giudicano sproporzionata la risposta militare d’Israele non hanno presenti i continui danni e pericoli che subiscono le popolazioni israeliane delle zone di confine. Anzi, cercando di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, ricadono nel vecchio schema che mette sullo stesso piano aggressore ed aggredito.
Volendo seguire un’impostazione ideologica rigidamente manichea, si è bollata come imperialista, guerrafondaia, l’unica vera entità democratica del Medio-Oriente; e si è invece elevati a legittimi esponenti delle esigenze dei loro popoli gli illiberali fondamentalisti islamici, plagiatori di giovani da usare come kamikaze.
Occorre correggere lo strabismo della sinistra italiana, denunciare la sua colpevole indulgenza verso una delle parti in conflitto e proclamare il diritto di Israele, una democrazia - suo malgrado - in guerra, ad esistere ed a difendersi.
Nicolino Corrado
 
Risponde Antonio Lettieri
Il fatto che Israele è una democrazia non è in discussione. Ma questo non ci esime dall'analizzare e giudicare la sua politica. Che può essere giusta o sbagliata. Gli Stati Uniti sono una democrazia, ma l'invasione dell'Iraq è ormai giudicata da una grande parte delle elite politiche e intellettuali americane un colossale errore, che invece della democrazia ha prodotto caos e alimentato ill terrorismo nel Medio Oriente. Difendere la politica del governo israeliano come un articolo di fede, attribuendo la patente di terroristi ai suoi avversari - in particolare, Hamas - anche quando sono stati eletti democraticamente, è in contraddizione con la difesa del metodo democratico e impedisce di analizzare i fatti.
Ma il punto non è questo. Il nostro lettore esprime legittimamente la sua tesi, in contrapposizione a quella espressa nel mio articolo. Non c'è problema. Il problema nasce quando invece di affidarsi  al merito degli argomenti, rimprovera all'articolo che vuole criticare di essere espressone di un pregiudizio anti-israeliano tipico dello "strabismo" della sinistra.  I fatti e le valutazioni riferite nel mio articolo sono tutti riconducibili a un tipo di stampa che non ha niente a che vedere con la sinistra in generale e col centrosinistra italiano, in particolare:  com'è il caso  dell' Economist, del New York Times o del Financial Times. Oltre al Corriere della Sera e a Repubblica a cui certamente non può essere addebitato un pregiudizio anti-israeeliano, per non dire antisemita. Per essere precisi,  la citazione di un giornale di sinistra c'è: l'Unità che, con l'autorevole firma del suo ex direttore, Furio Colombo, si schiera a difesa di Israele.
Mi sembra confermato proprio dal tipo di reazione del nostro lettore che il dibattito sulla politica di Israele continua a essere un tabù - che era appunto ciò che criticavo nel mio articolo. E il tabù può essere un male - anzi senz'altro lo è - non solo per la comprensione dei fatti che dovrebbero essere portati a corredo dei giudizi, ma per la stessa politica israeliana.

 
Giovedì, 27. Luglio 2006
 

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