Insieme all’unità d’azione se ne va l’autonomia

Cisl e Uil si mostrano sempre propensi ad accordarsi col governo, anche con metodi spregiudicati, la Cgil viene esclusa in quanto considerata “sindacato dell’opposizione”. Si abbandona una storia iniziata negli anni ’60 che molto ha fatto per i lavoratori e per il paese. Ma le difficili sfide da affrontare richiederebbero un cambiamento

Guardando, al riparo dall’impegno diretto, ai rapporti tra i sindacati confederali rappresentativi e storicamente più significativi nelle vicende del nostro paese, viene da pensare ai tante volte evocati comportamenti dei polli che Renzo Tramaglino portava al dottor Azzeccagarbugli per ingraziarsi un interesse alle proprie tristi vicende. Da ultimo sono state le decisioni del governo per  l’aggiustamento dei conti pubblici che hanno ulteriormente diviso i maggiori sindacati italiani. Cisl e Uil hanno concordato le misure con il ministro delle finanze Giulio Tremonti in incontri riservati e al limite della clandestinità. Un metodo alquanto singolare, che aveva l’obiettivo di escludere a priori il sindacato più rappresentativo per numero di iscritti: la Cgil. L’evidente obiettivo da parte del governo era di non subirne i condizionamenti in un possibile negoziato.

 

Non si capisce l’interesse di Cisl e Uil a condividere tale pretesa, che ha comportato una plateale discriminazione e la rottura di una prassi consolidata. Se la Cgil fosse stata coinvolta nel negoziato, anche Cisl e Uil avrebbero avuto più forza nel condizionare il governo. E ciò per il semplice fatto che il ministro delle Finanze avrebbe dovuto tenere in maggior conto le posizioni di chi era disponibile a stringere un accordo, come appunto Cisl e Uil. Perché era il ministro ad avere bisogno del consenso dei sindacati. E invece per Cisl e Uil non ci sono state contropartite.

 

La Cgil ha protestato per l’esclusione dagli incontri e, quando sono state rese pubbliche le misure governative, ha espresso il proprio dissenso. Il direttivo della Cgil ha poi deciso uno sciopero generale. Le reazioni di Cisl e Uil sono state singolari: hanno accusato la Cgil di proclamare uno sciopero politico. Sarebbe da chiedere a Bonanni e Angeletti cosa avrebbero deciso se fossero stati loro ad essere esclusi da un negoziato cosi importante.

 

Tra Cgil, Cisl e Uil i rapporti sono da tempo difficili e i contrasti spesso hanno portato alla rottura come in questo ultimo caso. Inoltre, il metodo di Cisl e Uil, fatto di comportamenti quanto meno spregiudicati, aggrava le divisioni. Una situazione nuova per le relazioni sindacali confederali con Cisl e Uil normalmente inclini a raggiungere accordi con le parti datoriali ed il governo. La Cgil non sembra in grado di costruire rapporti di forza per proporre alternative percorribili a tali intese, verso le quali esprime il proprio dissenso anche con azioni di protesta. Cosi è stato per il negoziato sul “nuovo modello” contrattuale e continua con questa ulteriore divisione.

 

Rimane comunque una curiosa singolarità: la conclusione unitaria dei principali contratti collettivi del settore privato, escluso quello metalmeccanico. In questi negoziati le federazioni di categoria hanno saputo pragmaticamente conciliare le diverse posizioni e condurre in porto i negoziati. Le parti datoriali hanno convenuto che le intese erano coerenti con l’accordo interconfederale verso il quale la Cgil aveva espresso il proprio dissenso.

 

Malgrado questo momento di ragionevolezza, davanti alla nuova e grave divaricazione di giudizio sulla “manovra” del governo sembra lecito parlare di rottura irreversibile. L’atto più grave, a parte le divergenze sul merito dei provvedimenti, è l’esclusione della Cgil dal confronto, evidentemente concordata con il ministro delle Finanze. Avremo una situazione nella quale, fino a che è al governo questo schieramento, Cisl e Uil saranno considerati sindacati “amici” e la Cgil sarà esclusa in quanto sindacato dell’opposizione. C’è da chiedersi se veramente i dirigenti sindacali delle tre maggiori confederazioni italiane vogliono questo. Non saremmo nemmeno davanti alla cosiddetta “unità competitiva”. Un ossimoro che nel passato è stato usato per definire i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil basati sul confronto di idee diverse da prospettare ai lavoratori, ma rimanendo comunque nel quadro di una unità di azione tra i sindacati confederali.

 

L’abbandono della mediazione tra le confederazioni ha come effetto la caduta della loro autonomia e il ripiegamento negli schieramenti politici in campo. I sindacati italiani sono stati autorevoli perché non hanno percorso la strada della difesa degli interessi particolari né a livello delle federazioni di categoria né tanto meno come confederazioni. Anzi le adesioni sono cresciute, quando la strategia decisa ha unito le lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro con le lotte per i cambiamenti sociali. La rottura dell’unità d’azione e l’accasamento negli schieramenti politici, così come appare nei fatti, cambierebbe di molto il modo di essere del sindacato italiano. Questa nuova fase del sindacato avviene anche come conseguenza della emarginazione che il lavoro ha avuto nella agenda politica.

 

Le tre maggiori confederazioni, con l’apparentarsi agli schieramenti politici, avrebbero compiuto il percorso inverso a quello intrapreso negli anni ‘60/70, caratterizzato da una progressiva autonomia dalle forze politiche con le quali avevano organici rapporti nel dopoguerra. L’evoluzione del rapporto tra Cgil, Cisl, Uil e le forze politiche e con gli schieramenti di riferimento è avvenuta non senza contrasti ed era sospinta anche dalla consapevolezza dei lavoratori di trovarsi in una collocazione sociale ingiusta e intollerabile dopo gli anni della ricostruzione. Le esigenze di rivalutazione del ruolo sociale del lavoro sono andate di pari passo con le esigenze di una presenza efficace nella dialettica democratica, arricchendo così il pluralismo della democrazia italiana.

 

Nei momenti difficili del nostro paese il sindacato italiano ha sempre saputo collegare l’interesse particolare con quello generale: il contratto e l’occupazione. E’ stata questa la caratteristica della stagione unitaria che ha consentito al sindacato di essere interlocutore credibile e autorevole del padronato e delle forze politiche di maggioranza e di opposizione.

 

Una credibilità che ha consentito, attraverso l’esplicita disponibilità ad assumere gli oneri di rinuncia temporanea ai propri interessi, di esigere dalle altre rappresentanze di interessi di assumere esse stesse rinunce concrete. In questo modo i governi venivano impegnati ad adottare politiche e provvedimenti in grado di rendere credibile il perseguimento degli obiettivi concordati. Era lo “scambio politico”, come venne definita quella stagione. Cosi è stato negli anni‘70 con la “svolta” dell’Eur, negli anni ’80 con la lotta all’inflazione, e ancora nel 1993 con il governo del presidente Ciampi, per citare gli esempi più significativi. Dove stava la caratteristica particolare di quegli accordi? Che lo scambio era ben visibile e controllabile e che il percorso attraverso il quale si arrivava all’intesa era esplicito e partecipato: dalla elaborazione delle proposte alla approvazione degli accordi. È così, grazie all’apporto responsabile di tutto il sindacalismo confederale, che il nostro paese ha potuto rimanere nel novero dei paesi più sviluppati.

 

Si può oggi invertire la rotta che porta verso un impoverimento della stessa democrazia rappresentativa e in definitiva della politica? Si può, a patto di avere ambizioni all’altezza dei problemi da affrontare e magari risolvere.

 

C’è un problema redistributivo evidente sia del lavoro che verso i salari e le pensioni che è anche il motivo del degrado economico del paese. C’è poco lavoro e molta disoccupazione specie giovanile, con buona pace delle mirabolanti promesse della flessibilità nei contratti di lavoro come panacea alla disoccupazione. L’Italia non è attrattiva di investimenti esteri perché c’è una burocrazia che li scoraggia e, nel contempo, siamo il paese con un tasso di risparmio delle famiglie tra i più elevati al mondo, mentre il nostro sistema bancario distribuisce lauti dividendi. Il lavoro paga più tasse dei guadagni finanziari e le tasse sono pagate dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Eppure si ritorna a parlare di lacci che starebbero nei vincoli costituzionali: l’impresa e la sua utilità sociale, lo sviluppo integrale della persona, ecc.

 

Sono temi e problemi “forti” che richiedono elaborazioni coraggiose e rappresentatività effettiva, estesa e duratura dei sindacati.

 

C’è qualche motivo per sperare in un cambiamento?

Sabato, 17. Luglio 2010
 

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