Infortuni, gli immigrati rischiano di più

Secondo una recente ricerca, la probabilità di un incidente sul lavoro è più che doppia rispetto ai colleghi italiani
“Tra i lavoratori italiani avviene un infortunio ogni 25 persone al lavoro, tra quelli extracomunitari uno ogni 10: questo è il differenziale di rischio, più che doppio rispetto agli italiani, al quale va incontro chi viene dall’estero a lavorare in Italia. Gli immigrati vivono sulla loro pelle quasi un decimo del totale degli infortuni indennizzati, uno su dieci è destinato ad infortunarsi. Inoltre, un infortunio, ogni 500 denunciati ha esito mortale, una incidenza altamente drammatica”.
 
Questo quadro impressionante e preoccupante è stato tracciato da Franco Bentivogli durante la presentazione al pubblico (Roma, 20 gennaio 2004) di un’importante ricerca condotta dall’Istituto italiano di medicina sociale con la collaborazione del Dossier statistico immigrazione della Caritas e della Fondazione Migrantes, un dossier di oltre 200 pagine, frutto del lavoro di una équipe di ricercatori su dati Istat e Inail relativi al 2001.

La lettura dei risultati – avverte Bentivogli – impone alcune cautele, per diverse ragioni: i dati sugli infortuni “riguardano indistintamente sia i lavoratori stranieri che i lavoratori nati all’estero, includendo perciò anche una quota di figli di italiani emigrati”; inoltre, “la ricorrenza infortunistica va calcolata con riferimento alle forze lavoro in attività, e in particolare a quelle assicurate all’Inail”, il che rende più complessa la rilevazione nel caso dei lavoratori immigrati; ancora, il numero degli infortuni riportato dalle statistiche “è sottodimensionato rispetto alla realtà, poiché molti lavoratori, specialmente quando lavorano in nero, sono costretti a denunciare gli eventi come semplici malattie al fine di evitare ritorsioni da parte dei datori di lavoro”.
 
Tuttavia, “nonostante queste difficoltà, la ricerca offre spunti di grande rilevanza ai fini conoscitivi e operativi”.
 
Nel 2001 in Italia sono stati indennizzati in totale 641.106 infortuni. Di essi 58.494 hanno riguardato lavoratori nati all'estero, con la seguente ripartizione per settori: agricoltura 5,5%, industria 57,3%, servizi 28%, altri settori 9,2%.
I cittadini stranieri che hanno svolto un'occupazione regolare (741.562 permessi di soggiorno per lavoro alla fine del 2001, esclusi i disoccupati), pur rappresentando solo il 3,4% del totale degli occupati, detengono una quota del 9,1% sugli infortuni indennizzati.
 
Al di sopra di questa quota media nazionale si collocano le regioni del Nord-Est (13,6%) e del Nord-Ovest (9,2%); al di sotto le regioni del Centro (7,7%), del Sud (3,4) e le Isole (2,2). Evidentemente incide, in questa triste graduatoria, il peso dell’impiego industriale, dove molto più alta è la frequenza degli infortuni.
I settori a più alto rischio infortunistico per gli immigrati sono le costruzioni e l’industria dei metalli (entrambi con una quota attorno al 14%). Con quote tra il 4 e il 5% troviamo l’agroindustria, l’industria meccanica, il commercio, i trasporti e le attività immobiliari/servizi di pulizia.
 
Anche per gli italiani l’edilizia è il settore con il più alto numero di infortuni, pur se con una quota notevolmente inferiore (9,7%). Può stupire invece che in agricoltura gli italiani appaiano più esposti degli stranieri (8,5% contro 5,5%). Ma c’è una spiegazione: “in agricoltura la minore rischiosità rilevata per i lavoratori extracomunitari probabilmente è ricollegabile alla strutturazione del settore in piccole realtà aziendali, che rendono più facile l’omissione delle denunce”.
 
Quote simili di concentrazione degli eventi infortunistici sia per gli italiani che per gli immigrati si realizzano nei trasporti e nel commercio. Meno rischioso per tutti è il lavoro nei settori alberghiero e della ristorazione.
 
Gli infortuni denunciati nel 2001 attestano che l’incidenza degli infortuni sul lavoro subiti da donne immigrate è poco più di un sesto sul totale degli infortuni riguardanti i lavoratori nati all’estero (8.868 su 58.494, pari al 15,2%), quindi in misura inferiore rispetto alla loro presenza. A fine 2001 le donne costituivano una parte cospicua della popolazione immigrata (46%), con una rilevante percentuale di occupazione nel lavoro dipendente (31,1%) e in quello autonomo (20,6%). La minore esposizione delle donne immigrate agli infortuni si spiega facilmente con la loro esclusione dai lavori più pesanti e pericolosi; del resto, circa i tre quarti di esse sono occupate nel settore della collaborazione domestica, dove evidentemente il rischio è molto più basso.
 
I dati riguardanti gli infortuni subiti nel lavoro dagli immigrati si inseriscono in un quadro di notevole gravità. Il fenomeno infortunistico nel suo complesso rivela in Italia una tendenza all’aumento e un andamento superiore a quello dell’Europa dei 15: ogni 100.000 occupati in Europa si registrano 4.030 infortuni di cui 2,7 mortali, in Italia 4.046 infortuni di cui 3,3 mortali (uno ogni 1226 infortuni). Per gli immigrati in Italia la frequenza degli esiti mortali è ben superiore alla media: uno ogni 500 infortuni!
 
Questi dati preoccupanti sono il risultato di almeno due meccanismi:
- i lavoratori nati all’estero sono generalmente addetti alle lavorazioni a più alto rischio;
- essi sono occupati, molto più frequentemente degli altri lavoratori, in aziende nelle quali sono scarsamente attivi strumenti, organismi e politiche per la sicurezza.
A questi si aggiungono altri elementi che favoriscono l’accentuarsi del rischio infortunistico, ad esempio la giovane età degli assunti, la prima occupazione e quindi la scarsa esperienza, la forte mobilità e flessibilità, i turni di notte, le mansioni poco qualificate, il lavoro nero (le ispezioni effettuate nelle imprese nel 2002 hanno accertato che ogni 100 immigrati il 39, erano erano irregolari e il 18 clandestini), appalti e sub-appalti, lavori atipici, imprese individuali, fenomeni di mobbing, e così via.
 
“Nasce da qui l’urgenza – conclude Bentivogli – del discorso sulla prevenzione e sulla tutela. Ogni infortunio, per quanto occasionale, è di grave pregiudizio alla salute di chi si adopera per il benessere della società: eliminarli del tutto è impossibile, ma contenerli è indispensabile perché hanno assunto una dimensione non accettabile. Nonostante una legge molto importante sulla sicurezza nel lavoro, la 626/1994, che pone obblighi e diritti, rappresentanze e interlocutori ben definiti nelle imprese, non si è ancora assistito a una vera e propria inversione di tendenza, negli infortuni e nella cultura della legalità”.
 
E ancora: “Un sistema di prevenzione efficace in ordine alla sicurezza, deve sapersi rapportare, sia alle realtà settoriali, sia alle caratteristiche del mercato del lavoro, per autoctoni e per immigrati ”tenendo conto “delle specificità, a partire dalle diverse culture dei paesi di provenienza”. Occorre “sviluppare una capillare attività di informazione, formazione, aggiornamento, rispetto a un numero crescente di nuovi rischi; di cartellonistica plurilingue; di attenzione e sostegno agli organismi di tutela e rappresentanza”.
Giovedì, 22. Gennaio 2004
 

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