Individualismo in ritardo. Osservazioni sul libro bianco

Un neoliberismo thatcheriano e una diffidenza verso ogni regolazione di tipo collettivo
Mancava giusto il "libro bianco" del governo di centro-destra per ricordarci i meriti e le potenzialità della regolazione individuale nei rapporti di lavoro. In verità tali contenuti non possono nemmeno essere considerati una provocazione più o meno utile in quanto appaiono per molti versi scontati, per altri aspetti sbagliati, al di là di qualunque buona intenzione.
Vediamo innanzitutto gli aspetti scontati, su una linea di pensiero politico, quella dell’individualismo liberale, che risale ben addietro, agli ultimi decenni del XIX secolo e che ha mostrato degli inattesi sprazzi di vitalità con i ritorni neo-liberali di impronta thatcheriana. In questa linea di pensiero le forme di regolazione collettiva imposte dalla logica e dalla pratica delle relazioni industriali sono state sempre mal tollerate, se non apertamente combattute. Su questi presupposti la società avrebbe avuto diritto al solo appellativo di liberale, senza il trattino che lo collega a democratica e il riferimento che la colloca nell’ambito pluralista. Già, la società. Ma non era stata proprio la Thatcher ad ammettere di non conoscere nulla a cui potesse corrispondere questo sostantivo strano: società. Forme di regolazione rivendicate, talvolta con lotte e sacrifici, dai movimenti sindacali ma accettate ben presto anche dalla grande maggioranza delle imprese capitalistiche, desiderose sul piano esterno di controllare una disastrosa concorrenza sui costi, al loro interno di ritrovare criteri uniformi attorno ai quali predisporre una politica del personale o, come si direbbe ora, di gestione delle risorse umane.
Leggere nel documento del governo, con l’accenno iniziale di prammatico omaggio al principio di sussidiarietà, che "occorre rivalutare convenientemente il ruolo del contratto individuale" e che è necessario "concordare condizioni in deroga non solo alla legge ma anche al contratto collettivo", che non siano più soggette al "limite, sempre più ambiguo, delle condizioni di miglior favore" (corsivo mio), può dunque non sorprendere, a patto che non si pretenda di fare passare tali proposte come una risposta doverosa alle nuove esigenze imposte non solo da globalizzazione, e-economy, ecc, ma anche dalle diffuse nuove aspirazioni dell’offerta di lavoro.
Al di là delle preferenze esprimibili per un tipo o l’altro di relazioni sociali, si può ritenere con buona plausibilità che per i lavoratori, se si prescinde da qualifiche molto particolari e da congiunture molto favorevoli del mercato, la diffusione di tali tipi di contratti condurrebbe nel medio e lungo periodo a una discesa delle protezioni normative e delle tutele retributive. Il mercato regola con efficienza (più o meno accettabile sul piano etico) e con esiti più o meno condivisi da estese parti della società solo la situazione dei soggetti con soddisfacente potere di mercato, all’interno di congiunture favorevoli. Ma gli effetti possono essere devastanti quando declinano le capacità di mercato, o quando si preannunciano le situazioni di crisi. Caratteri del mercato ben conosciuti dalle imprese, subito scattanti nel richiedere interventi correttivi del mercato non appena si profilano problemi per le proprie funzioni di produzione.
Ma i contenuti del “libro bianco” su questi punti non sono soltanto scontati, essi si rivelano anche sbagliati laddove si propongono di fare incontrare le “attese di flessibilità delle imprese” con le “nuove soggettività dei prestatori di lavoro”. La preoccupazione di favorire questo incontro può essere senz’altro condivisa, ma francamente non si capisce cosa ostacoli questo “incontro” nelle attuali forme della regolazione collettiva (attraverso la contrattazione) e con le molteplici (fin troppo!) forme di rapporti di lavoro non standard. Per i lavoratori dotati di ampie capacità di mercato, specie per elevate competenze tecnico-professionali, il problema è semmai l’opposto, ovvero quello di ritrovare, dopo i periodi iniziali di ricerca e di rapidi cambiamenti, dei percorsi di inserimento aziendale dotati di protezione e stabilità, che permettano da una parte gli adeguati ritorni degli investimenti in formazione effettuati dalle imprese stesse, dall’altra le necessarie tutele normative e professionali atte a prevenire l’inevitabile declino delle capacità di mercato. Il rischio insomma è di predisporre una regolazione individualizzata e iper-flessibile non tanto per i lavoratori più dotati di risorse soggettive, quanto per i lavoratori più deboli e esposti alle fluttuazioni del mercato. Una bella lungimiranza sociale, non c’è che dire!
Per di più gli effetti di indebolimento, se non di smantellamento, delle nostre relazioni industriali sarebbero potenziati se trovassero seguito gli inviti alla decentralizzazione della struttura contrattuale contenuti nel documento governativo, con una non celata insofferenza verso il modello derivante dall’accordo del luglio 1993. Inviti che potrebbero ritrovare disponibilità rilevanti negli ambiti regionali più disposti a giocare ruoli di protagonismo istituzionale nel campo dei rapporti di lavoro in seguito alle riforme costituzionale recentemente avviate di stampo c.d. federalista. Su tali processi di decentramento anche alcuni settori del sindacalismo confederale sembrano rivelarsi interessati e disponibili. Orbene, su alcune esigenze di “apertura” del sistema contrattuale ci si può trovare d’accordo, e inviti in tal senso erano già stati espressi dalla commissione, presieduta da Gino Giugni, che nel 1997 aveva esaminato le necessità di adeguamento dell’accordo del 1993. Ma tali operazioni vanno effettuate con la massima attenzione possibile e con il più ampio consenso delle parti sociali. La struttura della contrattazione, occorre ricordarselo bene, è radicata nelle strutture produttive, non è qualcosa che si cambia su semplici istanze volontariste, delle parti o dei governi, a rischio di commettere guasti gravi.
Un decentramento spinto della contrattazione, unito ai processi di “individualizzazione” dei rapporti di lavoro sopra descritto, potrebbe provocare effetti perversi. Le relazioni industriali italiane ne uscirebbero sconvolte sia nella logica (attraverso i contratti individuali), sia nella pratica, tramite una contrattazione collettiva indebolita e dispersa. L’assenza di unità nel sindacalismo confederale farebbe il resto. Valutiamo il “libro bianco” anche su questi piani, e non semplicemente su aspetti parziali e tecnici, più o meno condivisibili.
Venerdì, 21. Giugno 2002
 

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