Immigrati, cittadini senza voto

Sono oltre un milione e mezzo, secondo una ricerca della Caritas, coloro che potrebbero esercitare il diritto, previsto, per le amministrative, da una Convenzione europea fin dal '92 e già concesso in alcuni paesi dell'Unione
Più di un milione e mezzo. Tanti sarebbero i cittadini non comunitari potenziali soggetti di cittadinanza attiva, che nel 2008 potrebbero esercitare il diritto di voto amministrativo se fosse loro concesso. Questa cifra basta da sola a dare un'idea della dimensione del problema della partecipazione al voto degli immigrati, al quale la Caritas Italiana ha dedicato una ricerca realizzata dall'équipe del Dossier statistico immigrazione con la collaborazione dell'Anci, l'Associazione dei comuni italiani.
I risultati della ricerca e le valutazioni che l'accompagnano sono raccolti nel volume Immigrati e partecipazione, che è stato presentato in una conferenza stampa a Roma il 28 settembre 2005.

Il primo capitolo del libro è dedicato a una analisi dei dati che più da vicino interessano il problema in questione, dai quali risulta la crescente stabilità degli immigrati nel nostro paese. Seguono una dettagliata descrizione del quadro normativo nel contesto europeo, un'esposizione critica dell'attuale dibattito a livello nazionale e una descrizione degli organismi di rappresentanza degli stranieri in Italia. Due capitoli sono dedicati ad altrettante esperienze significative a livello locale, quelle dell'Emilia Romagna e della capitale. Infine, è riportata una serie di interviste a rappresentanti dei migranti in Italia. Alcune schede statistiche completano l'opera.
 
Introducendo la conferenza stampa, don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana, ha preso le mosse da uno slogan, che riassume l'atteggiamento della Caritas sul tema della partecipazione politica degli immigrati: la cittadinanza non può essere utilizzata come barriera per difenderci dagli immigrati.

 "Nella società globale delle migrazioni - ha detto don Nozza - diritti sociali e diritti di partecipazione non possono essere legati solo a nascita e nazionalità", perché le migrazioni, creando società segnate dalla convivenza di persone provenienti da più paesi, "mettono in discussione, in movimento, in cambiamento l'organizzazione del sistema-mondo dei singoli stati nazionali". Di conseguenza diventa urgente risolvere il problema di "come garantire forme di espressione agli immigrati che vivono stabilmente in un paese, anche attraverso l'accesso al voto, inteso come strumento di partecipazione alle decisioni politiche e di visibilità sociale". Si tratta dunque di andare oltre le forme di partecipazione fin qui sperimentate (consulte e consiglieri aggiunti) le quali, se hanno consentito una certa visibilità ai migranti e ai loro problemi, non hanno mai valicato i limiti di una mera presenza consultiva, priva di diritto di voto.
 
Il quadro europeo e nazionale è tuttora segnato da pesanti limiti. Nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione il diritto di voto amministrativo è limitato ai soli cittadini comunitari. L'unico documento che impegna espressamente alla concessione del diritto di voto agli stranieri residenti è la "Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale", adottata dal Consiglio d'Europa nel 1992 ed entrata in vigore cinque anni dopo. Ma la Convenzione deve passare per il recepimento da parte dei singoli Stati nazionali: lo hanno fatto in pochi, e per di più quelli nei quali già questo diritto era garantito, in qualche caso in forma più ampia di quella prevista dalla Convenzione.

Anche l'Italia l'ha recepita, ma solo parzialmente, ponendo una riserva - come ha osservato nel suo intervento il sindaco di Ancona Fabio Sturani, vicepresidente dell'Anci - proprio sul punto che riconosce il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti. Tuttavia - ha aggiunto Sturani - la legge Turco-Napolitano (40/1998) nell'articolo 9 (punto 4d) elencava, tra i diritti riconosciuti allo straniero titolare della carta di soggiorno, quello di "partecipare alla vita pubblica locale, esercitando anche l'elettorato quando previsto dall'ordinamento e in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, varata a Strasburgo il 5 febbraio 1992". Per alcuni giuristi, ciò equivaleva al pratico recepimento anche di questa parte della Convenzione.

Di fatto, la situazione del nostro paese, soprattutto dopo la Bossi-Fini, è quella che è, disgraziatamente in buona (cattiva) compagnia con importanti paesi quali Francia, Germania, Austria, Grecia, Lussemburgo: nessun diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti. Una forzatura è stata operata da numerose amministrazioni locali, che hanno modificato i loro statuti per consentire agli stranieri l'esercizio di questo diritto, entrando però in conflitto con le disposizioni in contrario emanate nel 2000 dal Ministero degli Interni e sollevando un complicato contenzioso che sarebbe lungo descrivere e che è documentato nel terzo capitolo del libro (pp. 37 ss.).

Come è noto, diverse proposte di legge sono attualmente in esame (sette, più una dell'Assemblea regionale siciliana), e tutte prevedono una modifica o una riformulazione dell'Articolo 48 della Costituzione. Ma, come ha osservato Sturani, non ci dovrebbe essere bisogno di una modifica costituzionale e dovrebbe bastare una legge ordinaria qualora si uscisse da una considerazione restrittivamente tecnica del diritto di cittadinanza, quale è presupposta dalle attuali proposte di legge. La prossima Assemblea dell'Anci dovrebbe avanzare una proposta di legge in tal senso.

La questione non è semplicemente tecnica, ma investe una visione più ampia, un diverso orizzonte "di civiltà". Lo ha spiegato molto bene don Vittorio Nozza, riassumendo le due ipotesi che attraversano l'attuale dibattito politico e giuridico.
Da un lato c'è l'ipotesi "che riconosce il diritto di voto ai soli cittadini italiani o agli italiani acquisiti, sulla base di una interpretazione tecnica del dettato costituzionale, per cui l'ammissione al voto dei cittadini immigrati dovrebbe passare per una modifica istituzionale". Dall'altro lato c'è "l'ipotesi che, interpretando lo stesso dettato in termini più ampi, ritiene che i 'diritti di cittadinanza' siano riferibili a tutti gli attori sociali inseriti in un paese e quindi anche agli immigrati".

In definitiva, "si tratta di comprendere il discrimine tra i 'diritti di cittadinanza' riferibili ai cittadini in senso stretto e i 'diritti dei cittadini', cioè connessi allo status di attore sociale e quindi diritti politici estensibili anche agli stranieri". Come è spiegato nel capitolo 3 del libro, "i diritti della cittadinanza sono riferibili ai cittadini in senso stretto, mentre i diritti dei cittadini identificano un complesso di diritti che dovrebbero essere normalmente riconosciuti da uno stato democratico. E in questo caso non si tratta di diritti umani, ma più precisamente di diritti connessi allo status activae civitatis ovvero di diritti politici" (p. 35; si veda, per approfondire, il punto 2 del terzo capitolo, pp. 34 ss.).

Che non si tratti di una rivoluzione sconvolgente, lo dimostra il fatto che buona parte dei paesi europei (salvo i pochi, ma significativi cattivi esempi citati, tra cui l'Italia), ivi compresi i nuovi Stati membri dell'Unione europea, da tempo riconosce questo diritto. È stato anche osservato che non si tratta nemmeno di una riforma particolarmente di sinistra: il primo a introdurla sembra sia stato il Cantone di Neuchâtel in Svizzera (paese non certo all'avanguardia nel trattamento degli immigrati), come nel 2000 è stata la Spagna di Aznar a riconoscere questo diritto, mentre rimangono restii paesi, come quelli citati tra cui l'Italia, che sono o sono stati a lungo governati da governi di sinistra. Il riconoscimento del diritto di voto amministrativo degli stranieri residenti è dunque una acquisizione "trasversale": semplicemente, un fatto di civiltà democratica. Ed è su questa lunghezza d'onda che si muove l'impegno della Caritas nei confronti dei cittadini immigrati.
 
Non è mancato qualche spunto polemico. Concludendo la sua presentazione, il direttore della Caritas ha ammonito che va evitata "qualsiasi forma di allarmismo: anche quelle semplicemente culturali. Dinanzi, ad esempio, alla presenza crescente di immigrati in Italia e in Europa, è legittimo preoccuparsi della difesa delle proprie tradizioni e della propria identità, tenendo conto però che esse si difendono vivendole in piena coscienza, non conculcando le identità altrui e che dagli incontri tra popoli diversi, storicamente parlando, sono sempre scaturite nuove sintesi. I 'barbari' orientali e germani non hanno forse 'meticciato' l'impero romano, fra il I e il V secolo? Ne è nata la splendida Europa, delle cui radici noi viviamo. Non c'è pertanto serio motivo di preoccuparsi per il rischio di un 'meticciato europeo', come invece sembrano pensare e affermare, in modo ottuso, alcuni. La nostra società ha bisogno di confronto franco, di dialogo sereno e della libertà di tutti. Il gridare che Annibale è alle porte può essere elettoralmente proficuo, ma è civicamente pericoloso, arcaico. È irresponsabile".

A Marcello Pera devono essere fischiate le orecchie: ma il suo nome non è stato fatto. Forse per cristiana carità.
Lunedì, 10. Ottobre 2005
 

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