Il trentennio inglorioso dei salari

Dopo la definitiva abolizione della scala mobile nel ’91 e la riforma del sistema contrattuale due anni dopo, le retribuzioni non hanno nemmeno tenuto il passo della modestissima crescita della produttività. Non è solo un problema sociale, ma anche per l’andamento dell’economia del paese: ancora oggi dal potere d’acquisto dei lavoratori dipendono il 50% dei consumi nazionale e il 66% di quelli delle famiglie

È dal primo gennaio 1991, quando entrò in vigore la seconda e definitiva disdetta della scala mobile da parte di Confindustria (presidente Sergio Pininfarina), che il potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori italiani è entrato in un tunnel di stagnazione di cui ancora oggi, ventotto anni dopo, non si intravede la fine. Quando nel luglio 1993 venne varato l’impianto di contrattazione delle retribuzioni a due livelli tuttora in vigore, la scala mobile fu definitivamente sostituita dal contratto nazionale di categoria (primo livello), che prevedeva una politica salariale d’anticipo basata sull’aggancio dei minimi contrattuali per qualifica a obiettivi di inflazione condivisi tra governo e parti sociali (dal 2009 su livelli di inflazione previsti, prima dall’Isae e ora dall’Istat). La possibilità che il potere d’acquisto dei salari crescesse veniva affidata alla contrattazione decentrata (secondo livello), che non è mai stata disponibile a più del 20-25% dei lavoratori delle imprese.

Quell’impianto si basa su fondamenti teorici rigidamente microeconomici, fondati su un’idea errata dell’equilibrio dell’impresa. Se per la singola impresa il lavoro rappresenta infatti un costo (a meno che i lavoratori non siano al tempo stesso acquirenti del loro stesso prodotto), il suo equilibrio economico dipende però ancor più dalle retribuzioni di tutti i lavoratori che acquistano i suoi prodotti, ovunque essi lavorino. Si crea così un gioco di difficile soluzione, che spinge l’impresa da un lato a comprimere i salari dei propri dipendenti, ma dall’altro a sperare che le altre imprese facciano esattamente l’opposto. È chiaro che la miglior soluzione, anche per la gran maggioranza delle imprese, non è affatto la compressione di tutti i salari.

Nel modello contrattuale italiano le retribuzioni reali sono invece condizionate a miglioramenti contrattati dal lato dell’offerta, in termini di produttività, profittabilità o qualità delle produzioni dell’impresa o del territorio, come se la capacità di consumo dell’insieme dei lavoratori non avesse alcun peso per l’azienda. Viene pertanto escluso qualunque effetto keynesiano di domanda autonoma proveniente dalle retribuzioni, che pure ancora oggi comandano il 40% del PIL, il 50% dei consumi nazionali e il 66% di quelli delle famiglie. Il modello contrattuale protegge le imprese una ad una da qualunque aumento dei salari reali che non sia coperto da aumenti di produttività, ma non da un progressivo esaurimento della domanda interna di beni di consumo. In altre parole, non c’è alcuno spazio per effetti di domanda aggregata o per la “frusta salariale” (che teorizzava Paolo Sylos Labini e ben prima i coniugi Webb): né come aumento autonomo derivante da un’offensiva sindacale, né come “effetto Ricardo”, ossia un aumento del costo del lavoro rispetto a quello del capitale sostitutivo del lavoro (o un deprezzamento di quest’ultimo), né come effetto CLUP reale, cioè un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto al prezzo del prodotto stesso.

La conseguenza di quanto precede è che la probabilità che il salario reale crescesse nella stessa misura della produttività, in accordo con la cosiddetta “regola d’oro” della politica salariale (si vedano, ad esempio, i lavori di Nicholas Kaldor e Paolo Leon) si è dimostrata del tutto improbabile (anche se teoricamente possibile). Per poco che la produttività del lavoro sia cresciuta (15,6% dal 1992 al 2015), i salari reali sono rimasti sostanzialmente indietro (7,6%).

Salari reali e produttività 1992-2015

Di fronte a risultati così deludenti e per così tanto tempo è diventa ormai improrogabile una riforma del modello contrattuale che ponga a carico del primo livello tanto l’incentivazione della contrattazione decentrata quanto la risoluzione del problema dell’insufficiente crescita della massa salariale ai fini dello sviluppo dei consumi e del mercato interno. Ma occorre notare che la debolezza della crescita salariale è dovuta anche alla perdita di compattezza del sistema delle relazioni industriali che, nel corso degli anni, si è fatto via via più complesso e frammentato, con riferimento alla rappresentanza sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori.

Il processo, in corso da tempo, ha avuto una significativa accelerazione con la fuoriuscita dal sistema CCNL-Confindustria di pezzi importanti quali Fiat-FCA, Luxottica, Marcegaglia, l’intero comparto della nautica, Morellato, Kerakoll e altri ancora. E, in parallelo, con la proliferazione di centinaia di contratti pirata tra controparti sindacali e datoriali non rappresentative: accordi caratterizzati da forme evidenti di dumping salariale e shopping contrattuale. La cosa forse più grave è che tutto ciò è avvenuto nonostante le indicazioni unitarie delle parti sociali contenute nel Testo unico sulla rappresentanza del 2014 e nel Patto della fabbrica del 2018, data la perdurante mancanza di regole certe di definizione e misurazione di rappresentanza e rappresentatività per i singoli comparti del settore privato. A questo punto è lecito tornare a domandarsi se il CNEL sia oggi finalmente in grado di assolvere al suo compito istituzionale, e si dimostri quindi capace di sollecitare al Parlamento, assieme alle Parti Sociali, una norma di definizione e tutela dei confini contrattuali che finalmente dia un’interpretazione funzionale al principio della validità erga omnes dei contratti sottoscritti dalle Parti Sociali più rappresentative e registrate secondo il dettato dell’articolo 39 della Costituzione.

È solo a complemento di questa norma, ormai indifferibile che, se ce ne fosse ancora bisogno, sarà possibile affrontare in modo armonico e non distruttivo l’introduzione di un salario minimo interprofessionale anche in Italia. La letteratura empirica mostra come la sua introduzione comporti due effetti rilevanti: da un lato una benefica spinta all’emersione del lavoro nero, facilitata dall’imposizione di uno stigma di illegalità alle retribuzioni inferiori al minimo; ma dall’altro un incentivo all’abbattimento delle retribuzioni di fatto verso il livello salariale minimo, in forza anche di un indebolimento della capacità di tutela del sindacato, esautorato dal legislatore nella fissazione della retribuzione minima. Il primo effetto è indubbiamente importante, specie nelle troppe situazioni in cui il mercato del lavoro è destrutturato; ma la necessità di contrastare il secondo effetto richiede sia che la contrattazione sia debitamente rafforzata con una definizione e tutela legale della rappresentanza e dei perimetri contrattuali, sia che il sindacato partecipi direttamente al processo di fissazione e aggiornamento del salario minimo così come del suo ambito di applicazione.

Sabato, 2. Marzo 2019
 

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