Il sommerso sommerge il sud

Ancora negli anni 90 erano presenti imprese anche nedie e grandi e il sindacato poteva combattere per la regolarizzazione. Oggi intere zone sono del tutto deindustrializzate e ciò che resiste è più irregolare di prima e spesso legato all'economia criminale
Assistiamo, non senza preoccupazione, ai fatti quotidiani  di cronaca criminale su Napoli e  parecchie altre zone del Sud di Italia e in particolare della Calabria.  Vale forse la pena di interrogarci  sulle cause profonde di questi fatti e  su alcuni rimedi possibili, congiunturali  o strutturali che siano.

Non solo  Napoli e la Campania ma tutto il Sud di Italia è cambiato profondamente negli ultimi dieci anni.  E' cambiato nella economia, nella occupazione, nella demografia  e  non solo nei dati assoluti ma soprattutto negli indicatori specifici della industria manifatturiera. Cito come esempio il manifatturiero tradizionale e di trasformazione, il cosiddetto made in italy.

Negli anni '90 nel  settore tessile abbigliamento e calzaturiero e arredamento casa si contavano circa trecentomila addetti (un terzo degli addetti del settore), concentrati in particolare nel triangolo Abruzzo, Campania, Puglia,  in grande parte creati dal decentramento produttivo delle aziende del Nord ma con una presenza significativa di imprenditori  meridionali  e di grandi imprese.

Cito ad esempio i poli calzaturieri pugliesi di Casarano e Barletta, quelli campani di  Grumo Nevano, grandi aziende dell'arredamento a Matera, e  tutta una serie di distretti industriali dell'abbigliamento (Isernia, Bitonto, Praia a Mare, Salerno, Martina Franca) che anche se precari  contribuivano a rafforzare un tessuto produttivo e occupazionale nelle aree metropolitane e in quelle interne.

Poi c'erano anche  le grandi imprese ; da Marzotto a Benetton, da Legler a Inghirami , Zucchi, Miroglio  e altre medie  e grandi imprese,  avevano localizzato fasi e produzioni  importanti  nelle aree meridionali; a loro si aggiungevano gli imprenditori meridionali    storici e di nuova generazione che avevano fatto affermare imprese che reggevano bene la competizione internazionale oltre a  produrre occupazione. Per non parlare degli insediamenti Fiat a Melfi e in altre aree.

Riferendoci solo alla media e piccola industria manifatturiera, si trattava di un tessuto produttivo instabile, a volte sommerso e dipendente che poteva fruire di alcune facilitazioni fiscali, finanziamenti pubblici di impianto (in verità meno di quello che  la pubblicistica sbandierava) e nelle piccole aziende a basso valore aggiunto soprattutto di evasione contrattuale e contributiva.

Nei fatti al sud  si produceva - grazie ad un sistema produttivo grigio e alla evasione contrattuale e fiscale -  al 40% in meno, come costi, che nel Centro-Nord. In altri termini la produzione si giovava di un mix organizzativo e di costi tale da poter  competere con successo sui mercati internazionali.

A partire dagli anni '90 il sindacato tessile  condusse una azione volta alla emersione delle aziende precarie e sommerse che culminò nella contrattazione di gradualità per il raggiungimento del Contratto collettivo nazionale di lavoro. Intorno al 1995-96  i lavoratori in emersione - nel tessile, nella agricoltura e nel terziario - erano circa 200.000 addetti, grazie ad un provvedimento legislativo - frutto di negoziati fra le parti contrattuali - che riconosceva  la possibilità di una emersione graduale e concordata fra le parti.

L'operazione  non ebbe grandi risultati visibili ed eclatanti ( solo il 10% delle aziende arrivò alla piena applicazione contrattuale) ma segnalò e consolidò un tessuto produttivo che aveva bisogno di essere riconosciuto, legittimato  ed aiutato. Invece questo non avvenne; un po' per la incapacità del sindacato a mantenere  aperto un lungo periodo  di deroga al Contratto collettivo nazionale di lavoro, un po' perché i governi che si succedevano si dimostrarono insensibili alle reali esigenze del processo in corso; infine ancora più decisiva fu l'apertura  verso  luoghi di produzione - in particolare l'est europeo - che rese più conveniente -attraverso tariffe molto più basse - la produzione all'estero.

I primi anni del nuovo secolo hanno visto la deindustrializzazione di intere aree. In particolare per primi sono andate via le commesse di decentramento produttivo dell'abbigliamento e  dopo qualche tempo tutte le grandi aziende tessili del Nord una dopo l'altra si sono delocalizzate verso altri paesi, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e anche in Nord Africa. Quelle rimaste si contano sulle dita di una mano.
Quello che è rimasto è una industria (fatte salve poche eccezioni) e una attività produttiva -in genere - ancora più sommersa  e per questo  ancora più intrecciata con la economia criminale e del malaffare.

L'ultima indagine sul campo (2005) fatta dal Censis  con la collaborazione delle parti sociali, ha registrato ed anticipato alcuni trend  che stanno venendo avanti in questi mesi.
- la stagionalità  del lavoro sommerso collegata  a settori ciclici (agricoltura ed edilizia in particolare)
- il concentramento del lavoro nel terziario a basso valore aggiunto e il forte decremento nei settori manifatturieri
- l'aumento della evasione e della irregolarità in quantità. Aumentano le imprese totalmente sommerse.
- cambiano i soggetti del lavoro sommerso attraverso il fenomeno della immigrazione.
- in alcune aree territoriali e metropolitane il tasso di irregolarità è oltre il 30%.

C'è da chiedersi se i fatti di cronaca che si registrano in questi giorni nel Sud non siano perfino più lievi di quanto ci dobbiamo aspettare. Non si tratta solo rispondere alle emergenze, ma di ridefinire una economia e una occupazione  produttiva. Certo  le opportunità non sono molte in un periodo di internazionalizzazione  molto spinta, ma molto ancora può essere fatto certamente non nell'industria tradizionale e a basso valore aggiunto ma ricercando segmenti e nicchie di mercato promettenti.

Dall'industria agroalimentare a quella delle tecnonologie  applicate (nanotecnologie applicate al tessile) ma anche alla industria ambientale e dei trasporti, è possibile ricostruire una  economia che dia prospettive alle popolazioni  e alle persone.
Un governo che si ponga questo obbiettivo deve anche pensare a strumenti  efficaci e di lungo fiato; mi chiedo se non sia finalmente giunto il tempo per una  nuova struttura - pubblica - tecnico-finanziaria che abbia competenze per  realizzare questo obbiettivo. Pur con apprezzabili eccezioni le Regioni  - anche per  carenze di risorse materiali - non sono state  in grado di correggere o avviare percorsi diversi.

Inoltre alcune opportunità si possono cogliere solo se si è inseriti in un tessuto di conoscenza e di scambio - anche internazionale -  che il localismo non ha le condizioni per intercettare. Non riescono a farlo, peraltro,  neanche le grandi Regioni del Centro-nord.

E' il caso di pensarci - per il Sud - seriamente tutti noi : governo e parti sociali  per primi.
(Stefano Ruvolo fa parte del Comitato esecutivo Femca-Cisl)
Mercoledì, 6. Dicembre 2006
 

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